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    Angelo Mazza

    L'androgino

    Mentre all'ardente nuzial facella,
    Che all'amoroso talamo ti scorge,
    Altri, o giovin Signor, con cetre e carmi,
    Gli avi dall'urna richiamando applaude,
    E d'augurj percosso il cielo echeggia;
    Lascia ch'io nel sermon prisco a te venga
    Ornando un sogno dell'Egizia Scuola:
    Mistico sogno, che, se piacque a Plato,
    Non indegno è di te: che puoi per esso
    Del bel tuo stato affigurar l'immago.
    Nè di gemme splendor, nè forza d'auro,
    Nè covertati d'ostro eburnei letti,
    Nè mille campi, a mille buoi fatica,
    Lussurianti d'infinita messe,
    Nè qual più cosa uom giova altra o più aggrada,
    Tanto a vedersi è bello, e non val tanto,
    Sgombre le cure, a giocondare un core,
    Quanto amistà di conjugale affetto,
    Che due bell'alme annodi, e in dolci tempre
    Nel vario corso della varia vita
    D'un concorde voler ambo le pasca.
    Questa non tiensi a un biondo crin, che all'uso
    S'adatti, e al garbo d'ariosa fronte,
    Debil sostegno: e non si tiene a un vago
    Color, che per mordace aura o per lieve,
    E a chi d'uom nacque inevitabil morbo,
    O per tempo, che sprona e più non torna
    Furando il fior d'ogni terrena cosa,
    Langue, e l'età, ch'è sì temuta, annunzia:
    Ma da virtù tien qualitade, e solo
    Specchiasi in essa, e se ne fà suggello,
    E per essa i mortali uguaglia ai numi.

    Volgea stagion, che dell'umana stirpe
    Da quello, ch'oggi appar, era diversa
    La sembianza e la sorte, era indiviso
    Nome femminamaschio: e questo a quella
    Temprato e misto, intera forma, uscio
    Dalla man prima dell'Olimpio Giove.
    Dagli omeri sorgea bifronte il capo,
    Quattro le braccia discendeano, quattro
    Le gambe avvicendavansi, gli orecchi
    Sporgean pur quattro: in uno eravi quanto
    Ne ristora da morte. Immane a forza
    Reggea que' corpi riquadrati e destri
    A mover ritto, e, se 'l chiedea vaghezza,
    Saltando in capo e roteando a spira
    Lungo in brev'ora a misurar cammino.
    Immagini chi può come le genti
    Sopra la terra allor guidasser giorni
    Senza sinistri, da tristezza intatte,
    Nè d'avversa avvenir sorte presaghe.
    Ma di tal sorte imbaldanzito, il dono,
    Per cui fiorìa di possa, ardea di gioja,
    A proprio scorno Androgino ritorse,
    Ingrato al donator: che avvien pur sempre,
    Che al benefizio sconoscenza è presso,
    Come da corpo inseparabil'ombra.
    Ebbre d'audacia le superbe menti
    Si consigliaro di far forza al Cielo,
    E disertar del buon Saturno il regno.
    Limpida luce di miglior consiglio
    Invano folgorava entro a que' petti,
    E lor mostrava invan, che a folle impresa
    Sempre consegue irreparabil danno:
    Nè campa molto chi con Dii combatte.

    La perversa d'Androgino baldanza
    Vide il Tonante: e benchè intorno a lui
    Rimbombi il cupo infaticabil suono,
    E 'l sempre vivo folgore rosseggi,
    A scoccar pronto, e a rinnovar l'esempio,
    Onde i protervi della terra figli,
    Torva, aspra, fiera, abbominosa prole,
    Dal tricuspide telo in val di Flegra
    Giacquer percossi, folgorati, e tutti
    Spiranti orror di smisurata morte:
    Non comandò, che su la schiatta iniqua
    Tal piombasse vendetta, e sol si piacque
    Scuoterne i vanti, e il primo ben far manco.
    E Mercurio chiamando a se, gli disse,
    La brigante tu vedi umana razza,
    Mia larghezza abusando e sua ventura,
    Alzar contro di me fronte rubella.
    Debita pena ai fallitor sul capo
    Caschi, e gli assenni: d'un voler con Temi
    Nemesi ultrice bilanciolla, e quadra
    A me, che non decreto indarno mai.
    In duo si parta Androgino: divisa
    Così l'integrità del primo aspetto,
    Così le forze svigorite, e sciolta
    L'equabile così tempra del core,
    Cruccio amaro rodendol, si divezzi
    Dal tracotar superbioso, e vegga,
    Che Giove è sommo, e signoreggia a tutto.
    A te l'opra commetto, a te, che il troppo
    Scaltro Prometeo, rapitor del fuoco,
    Festi inchiovar su la Caucasea rupe,
    Pasto all'aquila eterno. Udisti? or parti.

    Rispose al motto l'Atlantiade araldo.
    Il pennuto cappello assetta al capo,
    E dagli aurei talar veste le piante,
    Ond'esso puote, aer varcando e nubi,
    Scorrer di Giuno e di Nettuno i campi,
    E l'Universo misurar col volo.
    Nè la tremenda obblìa verga dorata
    De' lubrici distinta attorti serpi,
    Per cui ne' regni eternalmente bui
    Mandar può i vivi, o richiamar le lievi
    Immagini de' morti ai nervi, all'ossa,
    E mille altri condur prodigi a riva:
    Che tanto in essa di poter infuse
    L'onnipossente adunator de' nembi.

    Alato il capo, alato il piè, nel volto
    Arieggiante di Giove il voler, scende
    Pel sentiero de' venti e delle nubi
    Il celeste, uccisor d'Argo, messaggio,
    Ratto così, che va men ratto il nibbio
    Su le spase ali, alto stridente augello,
    E lo sparviere, che disteso aleggi.
    Fu giunto a terra, ragguardò, di corto
    Androgino trovato ebbe, e fe' motto.
    Libero cenno dell'Egioco Giove,
    Largo-veggente, agitator del tuono,
    Di lui, che a tutti per possanza è sopra,
    Mandami a te. Gl'insani vanti, ond'oso
    Di conturbar fosti l'Olimpo, e nuda
    Render di scettro l'invincibil destra
    Vibratrice del fulmine, in te vuole,
    Misero! me nomar, e farti saggio,
    Che in Ciel v'ha un tale, che fa forza ai forti.
    Disse: e levata la terribil verga
    Divinamente pel diritto mezzo
    Androgino percosse. In duo fendute
    Ecco scoppiarsi, ed allenar le membra
    In pria già tanto poderose, ed altro
    Prendere aspetto le disgiunte parti;
    E pur di ricongiungersi bramose.
    Così partita da veloce remo,
    O da possenti notatrici braccia
    L'onda gorgoglia, e ricorrendo a tergo
    Risarcir cerca lo squarciato velo.

    Cillenio intanto messaggier recando,
    Novella in ciel dell'ubbidito cenno,
    Degli umani descrisse il dolor greve,
    Onde in selve, tra fiere, e a queste uguali
    L'un senza pace ognor dell'altro in traccia
    Menan la vita disperatamente
    Preda d'ambasce: e di bestemmie e d'onte
    Dannando il giorno, che miraro il Sole,
    Chiaman funesto d'esistenza il dono.
    Un riso acerbo cacciò fuori il Padre
    Degli uomini, e de' numi, e da quel riso
    Il piacer tralucea della vendetta.
    Quando di mezzo alle stellanti ruote
    Tutta atteggiata di soave affetto
    Mosse Pietade, e la seguiano ancelle
    Con gli occhi in pianto, e pallor tinte il viso
    Le vacillanti pavide preghiere,
    E disse: Padre, cui Destino e Forza
    Sortirono l'impero alto del Cielo:
    Tu, che l'impari cose adegui, e all'ime
    Leghi le somme, e le inimiche accordi,
    Spirando a tutte spirito di vita,
    E d'ammirabil tempri ordine il Mondo,
    A noi facil consenti. Or già tua voglia
    Empiè la retto-consigliante Astrea:
    Già del malnato Androgino per lei
    L'alterezza piegò, mendossi il rio,
    Che in te commise. Ve' quai pene ei soffre
    A portar tormentose, a mirar triste
    Da se stesso diviso, e da se stesso,
    Fuor d'ogni speme, e senza posa, attratto,
    Ascolta, o Padre, con quali alte grida
    Ei chiama morte, che lo afferri e spegna.
    Nè sia sorda colei, che d'ossa albergo
    Fatto vorrebbe l'Universo, e tutto
    Silenzio, solitudine, deserto.
    Nè altare a te più sorgeria, nè tempio
    Dell'uman culto testimon, nè l'inno,
    Che ti fe' spesso a rimirar invito
    E d'agnelli incorrotti e pingui capre,
    Ostia votiva, e di novennj buoi.

    Lo priego di pietà scosse la salda
    Mente di Giove. Lampeggiò d'un riso
    Promettitore di conforto e pace
    L'Egioco Padre; indi ad Amor fe' cenno;
    Ad amor, che bellissimo fra' Dii
    Surse di caos con ali d'oro a tergo,
    E nella mole delle cose immensa
    Per varie guise sua virtù comparte:
    Perchè scendendo e saettando i cori
    Con quell'arco possente, a cui non vale
    Ferrata maglia e adamantina piastra,
    Ciascun di sua metà facesse accorto:
    E fu poi cura d'Imeneo la bella
    Opra compir, cui diè principio Amore,
    E, sbramando i desii, le salme unendo
    In sacro alterno indissolubil nodo,
    Ammendar morte, e rintegrar natura.

    O lui beato, che per don d'Amore,
    Veracemente sua metà ritrova!
    E te beato tre fiate e quattro
    O giovine Signor, che la trovasti
    Nell'Insubre Donzella, a cui t'annodi
    Tra le speranze della Patria e i plausi,
    Che a te suo buon cultor scioglie Elicona.


    1797




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