Library / Literary Works

    Clarice Tartufari

    L'albero della morte

    I

    Germana si alzò in fretta, buttò il libro sul tavolo e si avvicinò alla finestra spalancata per vedere che cosa andava accadendo in piazza Fòro Trajano, di dove saliva uno schiamazzare di voci iraconde, sopraffacenti il rumore delle tramvie che a tutta corsa arrivavano da opposte parti e scomparivano con fragore, l’una per via Alessandrina, l’altra verso piazza Venezia.

    Un gruppo di persone gesticolava fra le rotaie dei binari, una vecchia signora obesa urlava, agitando nelle mani guantate di nero un grosso mazzo di fiori; una bicicletta giaceva al suolo spezzata e il giovane ciclista, tumido in volto, mostrava in giro la canestra vuota e indicava i panini rotolati fra la polvere, forse per ispiegare ch’egli pedalava, tenendo in ispalla una cesta ricolma, quando il cagnolino della signora gli si era cacciato fra le ruote della bicicletta, facendolo ruzzolare e rimanendo schiacciato. Due guardie si precipitarono dalla discesa di via Testa Spaccata, la folla fece largo al ciclista, il quale, divorando a salti i gradini della Cordonata, dileguò per via Nazionale, mentre le guardie repertavano la bicicletta in frantumi, e la signora, tutta in lacrime, saliva in una vettura con i resti mortali del piccolo cane sventurato.

    La folla, ridendo e commentando a gran voce, si sparpagliò per opposte vie, senza degnare di uno sguardo la colonna Trajana, che emergente dai rottami del Fòro, sembrava avvolta nella sua cima da labari imperiali per le fiammee nubi del tramonto, vaganti nell’aria in quel giocondo crepuscolo di maggio.
    Germana rimase a lungo immota nel vano della finestra a seguire con l’occhio le accese nubi, che lentamente si assottigliarono, impallidirono, fuggirono leggere, lasciando appena sullo sfondo azzurro del cielo una traccia rosata.

    La colonna si fece tetra, l’ombra salì col suo tacito flutto, sempre più denso, a lambire ed avvolgere le rovine del Fòro, le lampade ancora smorte nel chiarore opaco della luce fuggente, sembravano occhi velati di tristezza.

    Allora Germana si nascose il viso nelle palme, crollando il capo desolatamente e traendosi dal petto tremuli sospiri. Un dissolvimento di tutto l’essere le fece abbandonare il busto sul davanzale ed ella riconobbe che l’orgoglio cedeva in lei, sopraffatto dal dolore e che le dolcezze del passato le facevano ressa intorno alla memoria, domandando imperiosamente di rivivere a qualunque prezzo.

    Oh! riconoscer di nuovo il passo di Aldo sul tappeto della stanza, frenar di nuovo con femminea malizia palpiti e sorrisi per apparirgli distratta e vedergli in volto i segni dello sgomento, poi, all’improvviso, con una lunga, squillante risata di giubilo, volgersi a lui, rovesciare il corpo all’indietro, stendergli le mani e socchiudere le palpebre per sottrarsi all’incanto troppo forte di quella bocca piccola, dall’atteggiamento infantile, di quegli occhi umidi e languidi sotto l’arco ampio delle sopracciglia marcatissime!

    In lontananza squillarono le note di una musica militare e Germana si eresse di scatto sul busto sottile, si asciugò il pianto dalle gote, e il volto delicato le assunse una espressione di rigidezza torva. Avrebbe lottato con tutto il vigore della sua volontà, con tutte le risorse della sua giovinezza; avrebbe lottato anche contro sè stessa, anche contro il proprio orgoglio, purchè il matrimonio avesse luogo all’epoca fissata. Dopo era affar suo tenersi legato Aldo e sottrarlo al fascino malefico.

    Era un dovere da compiersi a beneficio di tutti; di sè, che intristiva nelle ansie torturanti della gelosia; di Aldo, che si smarriva; di Salvatore, che ogni giorno più diventava ludibrio della moglie! Era un dovere da compiersi a beneficio di tutti, e Germana tornò al suo tavolo da lavoro decisissima a troncare ogni indugio. Parlerebbe la sera stessa al fidanzato e si varrebbe della fiacca malleabilità del carattere di lui per imporglisi e trarlo, sia pure a suo dispetto, da quel viluppo di rovi; forse ella aveva ingigantito le cose, mirandole attraverso il prisma della fantasia agitata, forse l’intesa colpevole che a lei pareva di scorgere in ciascuna parola, in ciascun volger di ciglio scambiati fra Eva ed Aldo proveniva dai modi abitualmente lusinghieri di lei e dalla preoccupazione in lui costante di rendersi a tutti gradito.

    Zeffira entrò, avviandosi frettolosa verso la finestra, che chiuse con fracasso e Germana, seccata, alzò la faccia dal libro

    - Chi ti ha detto di chiudere? A me piace l’aria della sera.

    - Già; ma la signora di là sente freddo.

    La voce di Eva, morbida e piena, giunse dalla stanza attigua.

    - Zeffira, e la frutta?

    - Ma che cosa fa mia cognata? - domandò Germana.

    - Pranza - rispose Zeffira. - Il signore è in ritardo questa sera e la signora sentiva fame.

    La voce morbida e piena, indugiandosi mollemente su le vocali, giunse di nuovo:

    - Zeffira, dunque?

    Germana rimase, col viso appoggiato alla palma, intenta a fissare una vecchia incisione in rame, chiusa dentro una cornice nera ed appesa di fronte a lei, sulla parete. Era un dono dell’avvocato Camillo Brizzi. Dio! quanti doni faceva a sua cognata l’avvocato Camillo Brizzi! Germana volle distogliersi da tale pensiero come ci si distoglie da uno spettacolo nauseabondo; sapeva bene che, pensando all’avvocato Camillo Brizzi, alle sue visite cotidiane, a’ suoi doni frequenti, alle gratificazioni vistose ch’egli largiva a Salvatore, si sarebbe ammassata in lei una grande, fosca ombra ad ottenebrare l’immagine dell’unico fratello che essa amava con riconoscenza e ch’essa voleva, disperatamente voleva, rispettare.

    E perchè non avrebbe dovuto rispettarlo?

    Salvatore non era forse intelligente ed attivo e non bastavano forse la sua intelligenza e la sua attività a renderlo degno del posto di fiducia a lui affidato dal Brizzi nella vasta azienda, e meritevole del largo stipendio, delle vistose gratificazioni? E se l’avvocato Brizzi veniva spesso in casa, non era egli forse l’amico di Salvatore anche prima che Salvatore sposasse Eva?

    I doni? Dio mio! era forse un mezzo di sdebitarsi per i frequenti inviti a pranzo, per le cortesie, per la devozione di Salvatore, il quale dedicava allo studio dell’avvocato Brizzi tutte le proprie energie, facendolo prosperare. Questo Eva asseriva, questo ripeteva Salvatore, questo confermava Aldo, questo proclamava Zeffira e perchè dunque anche Germana non avrebbe dovuto riposarsi in una così confortevole supposizione? Crollò il capo per non più meditare e stava per alzarsi, quando Eva entrò preceduta dal fruscio delle sue vesti. Germana allora volle nuovamente assorbirsi nella lettura, ma la collera si addensava in lei, facendole velo allo sguardo, scuotendole di tremito convulso la mano. Accadeva sempre così.

    Il profumo che Eva esalava intorno a sè dalle ciocche lucenti dei capelli e da ogni poro della cute bianchissima, provocava in Germana un senso di ribellione irosa, quasichè in quel profumo sottile, appena percettibile, si chiudesse l’essenza di un veleno per la cui virtù malefica ogni vigore di bontà dovesse spegnersi, ogni più salda tempra di volontà dovesse spezzarsi.

    Eva si chinò amabilmente sopra la spalla della cognata e le disse:

    - Smetti di sciuparti gli occhi; non diventare troppo sapiente - e, ridendo, coprì con la mano scintillante di gemme le pagine del libro.

    Germana si alzò di scatto, poi si pentì del proprio impeto e rimase in piedi con la testa gettata all’indietro. I capelli biondi, dalle forti radici e rialzati in giro, davano una espressione di fierezza eroica al viso graziosamente minuto nelle fattezze e roseo delicatamente.

    Eva si accostò alla parete per contemplare più da vicino le figure della vecchia incisione e Germana, immota dietro di lei, ne scrutava il volume ampio dei capelli attorcigliati, la sfilatura agile del busto, la grazia sicura dei fianchi, il bizzarro taglio della veste rossa che, scendendo a tunica di sotto le ascelle, si snodava in morbide spire sul rosso più acceso del tappeto; Germana scrutava la cognata profondamente, quasi per ricercare nella persona di lei una conferma definitiva de’ suoi sospetti, ovvero qualche indizio che i sospetti annientasse.

    Eva si mise a ridere, volgendo indietro la testa, mostrando la faccia, che, vista così di profilo, aveva qualche cosa di animalesco nella bocca dischiusa e carnosa, nel giro della risplendente dentatura.

    - Perchè ridi? - Germana le domandò involontariamente aggressiva.

    - Perchè gli uomini distesi sotto quest’albero - e indicava l’incisione - sono ridicoli. Guarda. Uno agita le braccia e le gambe come un burattino; l’altro annaspa come se volesse nuotare fra l’erba; un altro ha il codino della parrucca attorcigliato intorno al collo; un altro barcolla come ubbriaco.

    - Non vedi? - Germana disse. - Quegli uomini stanno morendo e si contorcono nelle convulsioni dell’agonia.

    - È vero, è vero, non lo avevo osservato ancora! Ma perchè muoiono?

    - Perchè si sono distesi all’ombra di un albero velenoso. È un albero che cresce nell’isola di Giava.

    - Allora sono stupidi - Eva disse ed annoiata cambiò discorso.

    - Vuoi andare questa sera al teatro Nazionale? L’avvocato Brizzi mi ha promesso un palco.

    - E tu? - Germana domandò, fissandola.

    Eva rispose placidamente:

    - Io sono stanca, e poi non capisco bene il francese e mi annoierei, mentre per te sarebbe interessante sentire in francese La Signora delle camelie.

    - Grazie, non posso - Germana rispose, forzandosi di non rivelare nel suono della voce lo spasimo che le dilaniava il petto. Oh! era evidente! La cognata voleva restar sola in casa per intrattenersi con Aldo! Ma ella non asseconderebbe il giuoco.

    - Se è per il tuo fidanzato che vuoi restare in casa, posso mandartelo a teatro appena arriverà.

    - No, grazie - ripetè Germana. - Alle nove ho impegno qui di sopra, al terzo piano, per dare una lezione. Dovresti saperlo; oggi è lunedì.

    - È giusto, non ricordavo. Si tratta di una lezione vantaggiosa, che tu non devi trascurare.

    Germana le si avvicinò fremente per gridarle in faccia tutto il suo dolore, tutta la sua collera; ma dall’anticamera giunse il rumore di una porta sbattuta ed Eva esclamò gioiosa:

    - Oh! finalmente, ecco Salvatore.

    - Già, ecco Salvatore - disse Germana con un sospiro di rassegnazione e si lasciò cadere quasi affranta sopra una seggiola, intrecciando le mani e torcendole forte, mentre Salvatore entrava, buttando sul tavolo il cappello.

    - Buona sera, Germana. Dove sta mia moglie?

    Era abitualmente questa la prima domanda ch’egli faceva nell’entrare in casa.

    - Dove sta mia moglie?

    - Non so, era qui proprio adesso - Germana disse.

    Una risata squillò di tra le pieghe della portiera.

    - Dunque non sei fuggita? - Salvatore disse allegramente, e, poichè Germana voltava le spalle, egli prese la moglie nelle braccia e, furtivo, le baciò con passione i capelli odorosi.

    Eva gli dette un piccolo strappo alla barba nera, si allungò sulla punta dei piedi per mordicchiargli scherzosa il lobo dell’orecchio, poi si divincolò rapida e disse con accento di rimprovero:

    - Perchè un’ora di ritardo questa sera?

    - Che cosa vuoi? Allo studio mi hanno soprannominato locomotiva; dunque io non posso arrivare in orario - e rise abbondantemente della propria facezia.

    - Sta bene; ma io ho già pranzato. Avevo fame.

    Un lampo di beatitudine brillò negli occhi lucenti di Salvatore, che si sprofondò le mani nelle tasche, simulando ira:

    - Ah! Sì! Tu hai mangiato? E io? Che cosa troverò io sopra la tavola?

    - Non tremare; sono stata coscienziosa. Ho divorato appena i due terzi del pranzo.

    Salvatore rise di nuovo con fragore, scuotendo la moglie per le braccia e frenando la voglia di sollevarla a guisa di una bamboletta bella, poichè Germana adesso li guardava ed egli risentiva grande soggezione della sorellina, che indovinava ostile a sua moglie, ostile sopratutto alle espansioni a cui egli avrebbe voluto abbandonarsi con Eva al cospetto dell’universo, tanto gli appariva irresistibile e tanto si gloriava di amarla nell’annichilimento completo della volontà propria e della propria personalità.

    - Mia moglie è una donnina piena di difetti nel fisico e nel morale - aveva egli l’abitudine di ripetere con umiltà orgogliosa. - Ha il nasetto a punta, due piccoli baffettini da studente ginnasiale; camminando fa la ruota come un pavone, parla cantando, ha tanti fori nelle piccole mani di dove il denaro fugge come l’acqua; è un vero cagnolino ringhioso quando mangia, Dio liberi stuzzicarla quando dorme, ha sempre una riserva di capriccetti costosi da soddisfare, eppure io non cederei l’unghia del suo mignolo per l’intero corpo della Venere capitolina.

    Nonostante voleva che anche la sorella avesse la sua porzione di affettuosità, onde le si avvicinò e le posò la mano larga sopra la testa.

    - E tu? Che cosa mi dici tu?

    Che cosa avrebbe potuto dirgli Germana?

    Ella si sapeva estranea, lontana dal cuore di suo fratello. Dunque rispose:

    - Io? Ho aspettato che tu venissi per andare a pranzo.

    - Ah! tu! Che ragazza d’oro. - Ma si capiva ch’egli era più riconoscente alla moglie di aver avuto fame e di avere mangiato che alla sorella di averlo atteso, come era più riconoscente ad Eva di spillargli danaro che alla sorella di porgergli regolarmente ogni mese un biglietto da cento lire.

    Salvatore rimaneva umiliato per la fierezza di Germana quasi per una menomazione della sua dignità maschile, mentre il cuore gli si gonfiava di orgoglio, allorchè Eva con gesti di malizia gli faceva scivolare nella tasca qualche noticina da saldare.

    L’avvocato Camillo Brizzi entrò come persona di famiglia, depose un fascicolo che teneva in mano e salutò col suo fare deciso di persona abituata all’ossequio; poi disse, togliendosi i guanti:

    - Dunque si va a lacrimare sui vecchi malanni di Margherita Gautier?

    Salvatore, che non capiva, guardò la moglie.

    - Sì, sì - Eva spiegò - Questa sera, al Nazionale, una troupe francese recita la Signora delle Camelie. L’avvocato ci favorisce un palco.

    - Allora, dovendo lacrimare, è prudente mettere combustibile alla macchina - Salvatore esclamò gravemente e, presa Germana per un braccio, le disse con enfasi: - Alla greppia, sorellina.

    L’avvocato Camillo Brizzi sedette sul divano e attese che Eva gli sedesse accanto; ma Eva, in piedi all’angolo opposto del salotto, sfogliava un album illustrato e canticchiava sottovoce:

    - Alfredo, Alfredo di questo cuore...

    L’avvocato Brizzi, dopo averla contemplata a lungo coi tondi occhi a fior di testa, sentì forse di avere caldo, perchè si fece vento col fazzoletto odoroso cifrato a ricami, e, mostrando i risvolti di seta dello smoking, disse:

    - Io sono già in abito da sera.

    - Ah! sì? disse Eva e seguitò a canticchiare:

    Non puoi comprendere qual sia l’amore...

    - Non ho nemmeno finito di pranzare e ho avuto una scenata con mia moglie per essere qui prima del tempo - e l’avvocato attese, poi soggiunse:

    - La scatola dei profumi ti è arrivata?

    - Sì, grazie.

    - Ho scelto quanto c’era di meglio - e attese di nuovo.

    Eva, più che mai assorta nella contemplazione dell’album, domandò all’improvviso:

    - Ma che differenza passa fra una piramide di Egitto e la piramide di Cajo Cestio?

    Camillo balzò in piedi, agitando forte per ira la grossa testa ricciuta d’imperatore romano ed avvicinatosi ad Eva le disse a bassa voce, ma con brutale accento di comando:

    - La differenza che passa fra un imbecille che si lascia menare per il naso - e indicò coll’occhio la porta del salotto da pranzo.

    - E un imbecille che crede di menare per il naso gli altri - Eva interruppe pronta, chiudendo l’album e guardando bene in faccia l’avvocato che, ansimante per l’impeto compresso della rabbia, le impose:

    - Vatti a vestire. È tardi.

    - Vestire? E perchè?

    - Non vorrai, immagino, presentarti così in un palco di prima fila?

    - E chi ti dice che io voglia presentarmi in un palco di prima fila o di ultima?

    - Allora perchè mi hai telefonato oggi chiedendomi di procurarti un palco?

    - Per mia cognata. Quando recitano in francese mia cognata impara e si diverte. Almeno così dice.

    - Tua cognata? Per le gentilezze che mi usa tua cognata! Alle corte, vatti a preparare.

    Eva si riannodò con cura un nastro allentato della vestaglia; Camillo diventò supplice e abbassò ancora la voce:

    - Non tormentarmi, Eva! Io sono fra le spine per causa tua. In famiglia ho sospetti, rimbrotti... Allo studio trascuro gli affari per occuparmi di te e sorvegliarti.

    - Ah! dunque è vero che mi vai spiando? - Eva chiese, dopo avere scrutato rapida con l’occhio verso il salotto da pranzo.

    Rughe di corruccio le solcavano la fronte e le concentravano in viso una espressione chiusa di volontà ribelle.

    - Sì, è vero; ti sorveglio, perchè non ammetto di essere scambiato per un imbecille e guai...

    Salvatore entrò, sorbendo il caffè; Eva gli mosse incontro e un velo di soavità le rese amabile lo sguardo, sorridente la bocca.

    - Hai fatto così presto a mangiare?

    - E già! se non ci fosse il lavorìo lungo, spesso difficile, della digestione, non varrebbe la pena di sudar dieci ore per guadagnare quello che si divora in dieci minuti. Che cosa ne pensa lei, avvocato?

    Camillo accese una sigaretta.

    - Sicuramente, sicuramente - ed inghiottiva il fumo per impedire che parole di violenza gli uscissero dalle labbra.

    Anche Salvatore chiese ad Eva, stupito:

    - Non vai a vestirti? È tardi.

    - No, sono stanca e poi capisco male il francese.

    - Benissimo - Salvatore disse, vuotando di un sorso la tazzina, - tu non capisci il francese; Germana, che lo capisce, ha un impegno. Allora vuol dire che l’avvocato e io ci abbandoneremo alle dolcezze di un tête-à-tête. Tra un gemito e l’altro di Margherita parleremo di affari - e, quantunque fosse ben certo di annoiarsi prodigiosamente, si rassegnava di buon umore per non mostrarsi incivile coll’avvocato Brizzi, che, preso al laccio, dovè attendere solo in salotto che Salvatore cambiasse di abiti e poscia andarsene col marito, scortato fino alla porta d’ingresso dalla signora, giubilante per essersi liberata di un sul colpo della legge e dell’extra.

    II

    Aldo Nini arrivò mezz’ora dopo e Germana, pallidissima, gli disse a capo chino:

    - Bisogna che io ti parli, Aldo.

    - Son qua - Aldo rispose - Che cosa vuoi dirmi?

    Ella ripetè:

    - Bisogna che io ti parli.

    Aldo si mise a ridere per nascondere il proprio imbarazzo.

    - Mi pare l’esordio di una scena madre.

    - Ed è infatti un dramma, un vero dramma, Aldo, che si svolge in me.

    Aldo con docilità prese posto sul divano e posò le palme sopra i ginocchi, fissando i rabeschi del tappeto. Egli odiava le complicazioni ed i lunghi discorsi; desiderava che tutti fossero contenti nella vita, a cominciare da se stesso, e gli accadeva frequentemente di trovarsi nel folto di un ginepraio per la preoccupazione appunto di evitare a sè e ad altri la più lieve scalfitura.

    Allora, quando si sentiva pungere da tutte le parti, diventava crudele e, pur di liberarsi, non badava affatto se i rovi si conficcassero nelle altrui carni. Faceva pratica nello studio dell’avvocato Brizzi e si trovava alle dipendenze di Salvatore Tindari, che lo aveva presentato in famiglia. Germana gli era piaciuta; l’aveva giudicata energica, attiva, intelligente, amorosa e l’aveva chiesta in moglie, a lunga scadenza, per avere il tempo di formarsi una posizione solida; frequentando la casa assiduamente aveva, a poco a poco, trovato Eva più interessante di Germana, più facile allo scherzo, più pronta a rispondere con occhiate maliziose a maliziose interrogazioni, più ricercata nelle vesti, più molle, più duttile, e una leggera ebbrezza lo aveva vinto, constatando che la giovane signora si compiaceva arretirlo nei fili del suo fascino, adornandosi dei colori a lui preferiti, suonando la musica a lui più gradita, ascoltandolo seria quando egli parlava di cose gravi, secondandolo in ogni opinione, appoggiandosi a’ suoi giudizi. E poichè egli non commetteva niente di male, poichè si limitava a una schermaglia pericolosa, ma tuttora innocente, poichè egli rimaneva fisso nel proposito di sposare Germana, o prima o poi, gli sembrava che non valesse la pena d’intragediarsi, com’egli diceva, seccato, con parola di sua invenzione. Da qualche tempo invece Germana lo intragediava senza misura nè discernimento, e ciò lo staccava da lei ogni giorno più.

    - Dunque che cosa pensi di fare? - Germana domandò.

    Egli, immobile e continuando a fissare il tappeto, rispose:

    - Penso di restar qui un’oretta e poi andare a cena.

    Germana esclamò con amarezza:

    - Beato te che hai voglia di scherzare.

    - No, ti sbagli e, in ogni m o d o, tu me l’avresti già fatta andar via la voglia di scherzare.

    - Dunque che decisione vuoi prendere?

    - A proposito di che cosa?

    Germana rimase perplessa. Era strano come, parlando, le cose s’impiccolivano. Lo spasimo atroce della gelosia perdurava, ma i fantasmi della mente cambiavano di proporzioni e diventavano grotteschi.

    - A proposito di me - ella disse - Non capisci che io soffro?

    - Capisco che ti diverti a tormentarmi. Bada che qualche volta, a forza di parole, si fa nascere quello che non esiste.

    Germana perdè la testa.

    - Vedi? Vedi? Tu stesso ammetti la possibilità.

    - La possibilità di che cosa?

    - Di quello che tu non dici, che io non dico e che pensiamo in questo momento.

    - Non ti capisco e non desidero affatto di capirti.

    - Allora mi spiegherò meglio. Io soffro, divento malvagia e mi inasprisco.

    - Sta bene - disse Aldo impazientito - interromperò le mie visite.

    - Già, per vedervi altrove.

    L’accusa era falsa, Aldo protestò impetuosamente.

    - Con questi criteri tu manderesti in galera la giustizia in persona. Calunniare è disonesto.

    - Tu difendi mia cognata; vedi che la difendi?

    - Sì, la difendo - egli disse avanzandosi di un passo verso di lei. - Mi ripugna sentire accuse false.

    - Allora tu non sai chi è quella donna! - Germana disse con passione - Oh! se tu la conoscessi bene, se tu sapessi ...

    - Non so niente, non voglio saper niente.

    Aldo interruppe concitato, mentre Germana rompeva in singhiozzi, piena di umiliazione e di spavento per quanto si era lasciata sfuggire dalle labbra.

    - No, no, così non può durare - ella disse nel pianto. - È umiliante, è contrario alla mia dignità - ed asciugò le gote con rapido gesto, sentendo che la cognata si avvicinava.

    Eva, sorridente e fresca, porse la mano al giovane, poi disse a Germana:

    - La signora Gerbi ha mandato a domandare di te; sei in ritardo di un quarto d’ora per la tua lezione.

    Germana prese dal tavolo una grammatica francese e si avviò verso la porta, senza nemmeno salutare; ma, sul punto di varcare la soglia, tornò indietro e, stringendo i denti con l’espressione disperata di un ferito che si strappi le bende per abbreviarsi lo strazio dell’agonia, disse al fidanzato:

    - Dunque siamo intesi, Aldo. Tra noi è finito, finito per sempre. Tu perdi molto, io perdo tutto; rimango sola; ma non importa, voglio che sia così - e attese convulsa, nella speranza che il fidanzato insorgesse contro di lei, ribellandosi alla sua decisione.

    Il fidanzato invece, con viso apatico e voce di forzata compunzione, rispose:

    - Io non posso obbligarti a mantenere la tua parola; mi basta di essere pronto a mantenere la mia.

    - No, no, tutto è finito - Germana ripetè e fuggì dal salotto come se il pavimento stesse per isprofondare. Non salì al terzo piano, perchè dalle altre stanze giunse rumore di usci aperti e rinchiusi con furia e la eco di un singhiozzare soffocato.

    - Vi bisticciate sempre voialtri - disse Eva, abbandonandosi nella seggiola a dondolo e cullandosi pian piano. Il cuscino di raso giallo formava raggiera intorno ai capelli scuri ed alla faccia alabastrina, mentre di tra il volume ammassato della vestaglia rossa, i piccoli piedi facevano capolino, apparendo, scomparendo, a guisa di bimbi allegri e maliziosi.

    Aldo la contemplava e non sapeva se andarsene o mettersi a sedere; Eva lo sbirciò con espressione di pietà canzonatoria.

    - Lei mi sembra don Bartolo; sembra una statua.

    Aldo si mise a ridere per darsi contegno.

    - Capirà, dopo simili burrasche.

    - Collere d’innamorati, acquazzoni di agosto - disse Eva - Il sereno torna subito.

    - No, è finito: Germana lo ha dichiarato ed io sottoscrivo.

    - Ma perchè questa catastrofe? - Eva domandò, tenendo il mento inchiodato sul petto per nascondere il lampeggio delle mobili pupille.

    - Per chimere.

    - È gelosa?

    - Pare.

    - Di chi è gelosa?

    Aldo le sedette accanto.

    - Di tutto, di tutte. Dà corpo alle ombre.

    Eva si girò sopra un fianco con l’atto di una serpe che si snodi al sole e, facendo con le dita un lieve cenno di richiamo verso Aldo, bisbigliò scherzosamente misteriosa:

    - Pst! Pst! senta; voglio confidarle un secreto.

    Aldo piegò il busto per accostarle al viso l’orecchio ed ella mormorò con una risatina lunga, velata:

    - È gelosa di me - poi, rapida, tornò a ricollocarsi supina e ricominciò a dondolarsi:

    - Non è così?

    - È proprio così.

    - Lei doveva giurarglielo che noi siamo limpidi come due bicchieri d’acqua pura.

    - Non mi ha creduto.

    - Allora doveva convincerla, dimostrandole ch’essa è più bella, più giovane, più intelligente, più istruita, più buona di me.

    Aldo crollò il capo:

    - Perchè tante bugie?

    - Bugie? - esclamò Eva, sollevandosi un poco. - Allora significa che lei non ha occhi per vedere. Ci confronti bene e si convincerà. Mia cognata è più alta, più snella di me; ha le fattezze più delicate; guadagna con le sue lezioni lo stipendio di un uomo, non è civetta, mentre io... Ho più difetti che capelli, sa.

    - Può darsi che quanto lei dice sia vero - Aldo rispose con un sospiro - Può darsi che lei sia un campionario vivente di tutti i difetti umani; ma allora mi spieghi... - ed esitò, preso da un turbamento così forte che le mani gli tremavano e una nube punteggiata di bagliori scendeva a confondergli intorno gli oggetti.

    - Avanti prosegua. Che cosa dovrei spiegare? - la signora interrogò, anch’ella turbata, anch’ella arretita da un fascino più potente della sua vigile civetteria.

    - Mi spieghi come, non ostante tanti difetti, lei riesca a farsi adorare, lei sembri buona fra le buone, bella fra le belle. Vede? Quella poverina di là si sta martoriando per causa mia. Ebbene, è assurdo, è malvagio, ma io non ne provo nessuna pietà, mentre se lei piangesse, mi pare che darei la mia vita per consolarla.

    Eva disse con voce indugiante, soavissima:

    - Bambino, bambino, lei è un vero bambino - e lo dissolveva di dolcezza col tremolio delle pupille natanti per languore.

    Si udì il campanello della porta d’ingresso chiamare con rullìo breve, imperioso. Entrambi sorsero in piedi, pronti, ed Aldo prese in fretta il cappello.

    - Non perda il sonno, non si disperi; tutto si accomoderà - Eva disse a voce ben alta, acciocchè nell’anticamera si udissero le sue parole.

    - Tante grazie, Signora - Aldo rispose, anch’egli alzando molto la voce, ed uscì dal salotto, in quella appunto che l’avvocato Brizzi entrava, scusandosi:

    - Ho dimenticato qui un fascicolo importante. Mi sono permesso di venirlo a riprendere fra un atto e l’altro.

    I due avvocati si scambiarono un saluto eccessivamente cerimonioso e breve; poscia Aldo se ne andò, la porta fu chiusa ed Eva, prendendo dalla mensola il fascicolo della rivista, lo gettò sul tavolo davanti a Camillo.

    - Ecco il fascicolo dimenticato per avere una scusa di tornare. Non è una trovata originale, ma riesce ugualmente.

    - Riesce perchè ti conosco. Avevo la certezza di sorprenderti con quell’imbecille.

    Eva rimase in piedi per obbligar l’avvocato Brizzi ad abbreviare la sua visita; ma egli si buttò a sedere sul divano e si strappò i guanti, lacerandoli. Soffocava, i baffi rossi, arricciati a punta, tremavano al soffio affannoso del suo respiro, i folti riccioli impomatati serbavano in giro la traccia del cappello, certo calzato in testa poc’anzi con furore. Trasse di tasca il fazzoletto e si asciugò la fronte madida. Finalmente disse:

    - Avevo la sicurezza di trovarvi soli. Ti sei incapricciata di lui; è chiaro. - Un piccolo sbadiglio dischiuse appena la bocca di Eva e la bocca somigliò al frutto maturo del melograno.

    Camillo balzò in piedi al colmo della esasperazione:

    - Tu sbadigli?

    - Oh Dio! te ne chiedo scusa; ma è tardi, ho sonno.

    - Sei una perfetta incosciente. Porti il disastro intorno a te e nemmeno te ne dai per intesa.

    Ella interruppe con accento di fastidio

    - Somigli a mia cognata con i tuoi paroloni.

    - Già, mi servo dei paroloni di tua cognata, perchè soffriamo della stessa pena. Siamo gelosi; vediamo, non siamo ciechi come tuo marito. Oh! il cretino! Ma finirò col restituirgli la vista io!

    La persona di Eva dette un guizzo; ella si eresse minacciosa sul busto, il viso bianco divenne più bianco e il profilo diventò tagliente.

    - Mio marito lascialo stare; non voglio che soffra.

    - Quanta tenerezza - Camillo disse, beffardo, - Ingannalo meno allora.

    - Lo inganno, ma lo stimo; lo inganno, ma voglio la sua pace - ella esclamò con appassionato impeto sincero - È migliore di tutti noi; è il solo che mi ami per me stessa. Quando ti vedo accanto a lui ti odio e ti disprezzo; quando ride e mi guarda vorrei che mi battesse tanto mi sento indegna. Maltrattami dunque e sorvegliami, purchè mio marito rimanga nella sua pace.

    - È naturale, si spiega. La sua pace è la tua - Camillo disse, abbottonandosi il soprabito; poi sbottonandoselo subito di nuovo.

    Eva si strinse nelle spalle.

    - Non puoi capirmi tu.

    - Oh! ti sbagli; anzi ti capisco benissimo. La tranquillità è un tesoro. So io quanto valga; io che l’ho perduta per causa tua. La mia casa è un inferno. Lacrime, sospetti, controlli sul danaro, che entra e che esce! Un inferno, ti dico! Ho il mio secondo bambino con la febbre e questa sera non ho aspettato nemmeno il medico per correre qui nella paura che l’altro ci fosse. Mi hai avvelenato l’esistenza.

    Ella rispose pacata:

    - Hai torto di accusare me se il veleno ti piace. Perchè trascuri la tua famiglia e ti occupi dei fatti miei? Per il tuo piacere. Siete originali voi uomini! Cercate, pagandolo a caro prezzo, il vostro danno e poi vi lamentate. Come l’ubbriaco che inveisce contro la bottiglia dopo averla vuotata. -

    Il Brizzi la guardava con occhio di spavento, mentre essa diceva queste cose con ironia placida, facendosi girare intorno al polso il sottile braccialetto d’oro, indugiandosi a lungo con la voce sopra le sillabe, ridendo a scatti con risatine brevi, consapevole della sua onnipotenza, orgogliosa di strapparsi d’attorno il velo d’ogni illusione per mostrarsi nella sua nudità morale e farsi accettare così com’ella era, tanto più dispotica quanto più l’abiezione altrui le appariva incurabile ed evidente. L’avvocato Brizzi, guardandola, ascoltandola, aveva creduto ascoltare il grido della sua propria coscienza, ond’ebbe un lampo di lucidezza e di volontà. Prese il cappello per andarsene, decisissimo a non più tornare.

    - Buona notte - egli disse.

    - Così mi lasci? - Eva mormorò, improvvisamente dolce e umile - Hai il coraggio di lasciarmi così? - e gli posò le mani sopra le spalle, gettando indietro la testa, mostrandogli nel riso breve la freschezza delle gengive.

    Camillo tentò svincolarsi con furia brutale - No, lasciami. Hai ragione tu; non bisogna ubbriacarsi.

    - Sciocco - ella disse. - Ama la tua donnina e non pensare ad altro.

    - Ma quel ragazzaccio? - egli chiese con ansia rinnovata.

    - Sciocco, sei sciocco - ella ripetè, crollando il capo.

    - Giurami che non mi tradisci.

    - Ti giuro di no, quantunque tu meriteresti che fosse.

    - Ti aspetterò domani. Verrai?

    - Forse.

    - Verrai?

    - Forse.

    Lo sospinse adagio fuori del salotto e tutta soavità, tutta sorrisi, attese nell’anticamera che la porta gli si richiudesse finalmente dietro le spalle.

    III

    Di solito i giovani degli avvocati sono vecchi, eppure Giuseppe era giovane, ma di una giovinezza così meschina e cauta, così povera di vita, così impacciata e vincolata di timori che nello studio lo chiamavano Giuseppe di Arimatea, quantunque egli non possedesse nè balsami, nè lini; anzi di lini doveva soffrire tormentosa penuria a giudicarne almeno dalla parsimonia del goletto, appena visibile, e dalla bianchezza equivoca dei polsini alquanto sfilacciati. In compenso egli abbondava nel soprabito, di cui le falde gli scendevano fin sotto i polpacci, e abbondava sopratutto nei pantaloni, che dopo essersi accartocciati sul ventre in molteplici pieghe, si gonfiavano a guisa di palloni intorno ai ginocchi e scendevano ad ammucchiarsi sul davanti delle scarpe.

    Il buon Giuseppe si ritirava, si raggrinzava, si teneva chiuso dentro i suoi panni, come una lumaca dentro il suo guscio, ed assumeva veramente l’aspetto di una lumaca quando, chiamato a suon di campanello elettrico dal signor principale, spingeva e ritraeva con piccoli guizzi la testa di tra il pertugio dell’uscio socchiuso.

    Nella stanza d’ingresso, attraverso un’ampia vetrata di cristalli opachi, il sole formava una larga striscia luminosa piena di atomi turbinanti e la striscia lambiva gli orli del tavolo dinanzi a cui Giuseppe stava seduto e gli atomi turbinavano intorno all’attaccapanni di mogano dove molti cappelli stavano appesi. In mezzo all’odore umidiccio delle vecchie carte ammassate negli scaffali, un odore indistinto circolava; forse la traccia di qualche mazzolino di viole portate all’occhiello da qualche cliente, forse il soffio vagante della primavera che, piena di vezzi e malizie, spingeva l’alito odoroso fino tra i tarli delle carte ingiallite, fin dentro le nari del povero Giuseppe di Arimatea.

    Nonpertanto tutte le stanze dello studio erano immerse in silenzio glaciale e la penna tremava nelle dita contratte di Giuseppe.

    L’avvocato Brizzi era entrato poco prima gelido e vorticoso come vento di tramontana. La sua voce incollerita aveva echeggiato dall’una all’altra stanza ed egli si era chiuso nel proprio gabinetto, sbattendo l’uscio così forte che i cristalli delle finestre avevano tinnito lungamente. Al suo passaggio tempestoso Giuseppe si era alzato in piedi e, poichè doveva trasmettergli un’ambasciata di urgenza, aveva tentato di balbettare:

    - Scusi tanto, signor avvocato... - ma il signor avvocato, girando verso di lui con minaccia que’ suoi occhi tondi a fior di testa, aveva gridato:

    - Niente, niente, non voglio sentir niente - e Giuseppe era rimasto con le spalle curve come per evitare gl’impeti di una raffica. A ogni modo bisognava decidersi; la signora in persona era salita poc’anzi in cerca di suo marito.

    - Me lo mandi a casa immediatamente, appena torna - aveva ripetuto due o tre volte la Signora affannosamente e intanto Giuseppe rimaneva lì in piedi a guardare la striscia luminosa con occhio di ebete. Dopo lunghi sospiri e camminando sulla punta dei piedi, egli andò a picchiare cautamente alla porta del signor direttore, poscia entrò, rimanendo presso la soglia per prudenza e discrezione.

    L’avvocato Brizzi, seduto davanti alla scrivania, teneva all’orecchio il tubo del telefono e ascoltava con impazienza irosa.

    - Se un consulto ti pare necessario, si faccia... No, non mi hanno detto niente. Sta bene; fra poco verrò, dal momento che per una febbre tu metti l’universo a soqquadro - e, tolta la comunicazione, si rivolse a Giuseppe con viso di basilisco.

    - Come? La mia signora viene qui a cercarmi e lei non me lo dice?

    - Ma io, signor avvocato...

    - Lei non fa il suo dovere; nessuno fa il suo dovere qui dentro...

    - Sissignore, ma io, quando lei è entrato.

    - Ma che entrato, ma che uscito. Lei sta a quel posto per trasmettere le ambasciate.

    - Sissignore, ma lei quando è entrato...

    Camillo Brizzi stava per investire con parole violente il disgraziato giovane di studio, ma si contenne a tempo, comprendendo che si sarebbe coperto di ridicolo. Cominciò a frugare, senza ragione, fra lettere e carte, poi domandò con voce dove l’ansia, quantunque dominata, vibrava:

    - L’avvocato Nini è all’ufficio?

    - Non saprei - Giuseppe rispose, facendosi più umile e indietreggiando, a ogni risposta, di un passo verso l’uscita.

    - Non saprei, signor avvocato...

    - Ebbene, me lo mandi subito.

    L’avvocato Nini non c’era e Giuseppe, ricomparendo annunziò:

    - Nossignore, l’avvocato Nini non è ancora venuto all’ufficio.

    Parve che la terra si inabissasse. L’avvocato Brizzi guardò intorno con pupille dilatate, il respiro gli divenne breve, un’onda porporina gli coperse la fronte, e le nari gli si gonfiarono smisuratamente; poi, osservando che il giovane di studio lo contemplava con occhi di stupore e spavento, tentò nascondere sotto le apparenze della collera gli spasimi della furente gelosia. Battè col pugno sul tavolo e balzò in piedi.

    - Non c’è? Come? Non c’è? L’orario a che cosa serve? Questa è una baraonda, una baraonda - e adunò, poi sparpagliò il mucchio delle carte ammassate. Piccole nubi di polvere si sollevarono; il ferma carte di cristallo sfaccettato, sospinto con furia, andò a immergersi nella luminosità di un raggio di sole e mandò faville a guisa di metallo incandescente.

    All’avvocato Brizzi parve che in ogni sfaccettatura brillasse il tremolio di una pupilla malvagia e schernitrice. Credeva d’impazzire.

    - Eccolo, eccolo - gridò Giuseppe con voce gioiosa, scorgendo di tra il battente semiaperto l’avvocato Nini, che attraversava in fretta l’anticamera.

    - Eccolo - e, chiamato il Nini, lo guardò fisso, inarcando le ciglia, stringendo forte la bocca per indicargli burrasca e si dileguò, richiudendo la porta con mille cautele.

    I due si trovarono di fronte. Onde invisibili di elettricità solcavano l’atmosfera. Le finestre erano chiuse, le cortine abbassate, quattro seggiole di sagoma massiccia, in linea presso la parete, assumevano aspetto quasi cogitabondo nella grave loro immobilità meditativa. Qualche cosa di animalesco tremava nelle tozze dita dell’avvocato Brizzi, contratte a foggia di artigli; qualche cosa di animalesco tremava intorno alla rosea bocca dell’avvocato Nini, il quale protendeva la faccia in avanti nell’atteggiamento di fiutare una preda.

    L’istinto irrompeva, spezzando i lacci di ogni convenzionalità sociale, ed essi smarrivano la coscienza della individualità loro e dell’ambiente per indietreggiare fino alle sorgenti iniziali e generiche delle umane passioni. Non si erano scambiati una parola e si erano intesi, non si muovevano, vinti da rigidità, eppure sentivano quasi nelle loro carni il bruciore delle lacerazioni che l’uno infliggeva all’altro mentalmente col desiderio ardentissimo dell’odio. In certe situazioni gli abissi dell’anima si spalancano e mostrano il fondo.

    - Lei è un miserabile, un miserabile - disse l’avvocato Brizzi con voce ardente e bassa.

    - Meno di lei - l’avvocato Nini rispose, muovendo appena le labbra sbiancate.

    - Dov’è stato fino adesso? Con chi è stato? - il Brizzi domandò, protendendosi.

    Il Nini anche lui si curvò.

    - Diventa pazzo lei!

    Eva, quantunque assente, giganteggiava, empiva di sè la stanza, empiva di sè i petti agitati di que’ due uomini, lanciava nel cervello del Brizzi i germi della follia, accendeva nel cuore del Nini la fiamma distruggitrice di una passione ancora latente e quasi ignara.

    Salvatore Tindari entrò da un uscio interno, tenendo in mano larghi fogli di carta bollata. La giacca d’ufficio gonfia nelle tasche laterali pel volume di parecchi fazzoletti, si apriva, sul panciotto chiaro, a fantasia, e il bottoncino d’oro dello sparato brillava incerto di tra il fluttuare del nero barbone. Salvatore era infreddato maledettamente e gli occhi apparivano turgidi, rossi, come sbattuti dal pianto; invece egli rideva del suo riso placidamente bonario.

    - Ecco - disse - queste sono comparse che bisogna firmare subito - e depose in ordine i fogli sopra la scrivania.

    Il Brizzi ed il Nini si erano ripresi e rimanevano di fronte in atteggiamento ostile, ma corretto. Il Brizzi dette ai fogli bollati uno sguardo rapido e indifferente, poi disse al Nini:

    - Allora è convenuto; lei passi all’amministrazione e si faccia liquidare l’onorario che le spetta.

    - Grazie, glielo regalo. Una simile galera si ritrova dovunque - il Nini rispose e, prima di uscire, si mise il cappello con mossa decisa per significare che abbandonava lo studio immediatamente.

    Il Tindari, che non ci capiva nulla, si soffiò tre volte il naso, a intervalli, poi domandò:

    - Che cosa va succedendo?

    - Va succedendo che io sono il padrone e che qui dentro io solo comando.

    Salvatore si mise a ridere e si ricacciò in tasca il fazzoletto.

    - Le solite sue sfuriate! Anche questa volta farò da paciere e buona notte.

    Il Tindari infatti si era assunta la missione di cuscinetto fra l’avvocato e il personale.

    Quando il Brizzi, un violento pletorico, scagliava licenziamenti all’impazzata, Salvatore con una parolina a destra, un amichevole suggerimento a sinistra, raggiustava le cose, tantochè si era convenuto nello studio di non considerare definitive le decisioni del principale fino a quando il Tindari, con rassegnato stringersi delle spalle, indicava che non c’era più altro da tentare.

    - È fiacchetto, ma intelligente - Salvatore disse. - D’altronde si formerà. Non dubiti che ci penserò io.

    - Lei? - il Brizzi esclamò con una risata amara che gli squassò tutta la persona. - Proprio lei? - e troncò di scatto il suo ridere come preso da pentimento e terrore.

    - Che cosa c’è di strano? l’altro chiese con meraviglia ancora tranquilla. - Per un sì, per un no lei mi licenzia il personale! Un po’ di calma, un po’ d’indulgenza, che diamine!

    Il Brizzi intanto pensava che, allontanando il Nini, si era privato del mezzo di sorvegliarlo durante le ore di ufficio, ossia durante le ore appunto in cui Eva poteva disporre di sè con tranquillità.

    E quell’imbecille di marito che non capiva niente, non sospettava niente, che rimaneva lì a sciorinargli davanti con flemma metodica il fazzoletto bianco di batista. Dal fazzoletto un profumo esalò; il profumo di lei, della sua cute. Nubi sanguigne gli avvolsero allora il cervello, fiotti di collera gli salirono alle labbra irrefrenabilmente:

    - Lei mi fa ridere con la sua calma! Tocca proprio a lei consigliarmi indulgenza in queste circostanze. Ma non capisce che è per lei, per il suo decoro che io agisco? - e di nuovo s’interruppe.

    Il Tindari sospettò qualchecosa e pensò alla sorella.

    - Si tratta forse di Germana? Io non so nulla. A casa mia la parola d’ordine è di lasciarmi tranquillo. Mi dica, mi faccia il piacere. Hanno forse prorogato l’epoca del matrimonio? Non sarebbe un disastro, dopo tutto.

    Il telefono sulla scrivania suonò con furore ed a quel suono aspro l’irritazione dei Brizzi raggiunse il parossismo.

    - Di qual matrimonio va parlando lei? Dunque spetta a me informarla dei fatti della sua famiglia? Il matrimonio è andato all’aria, sua sorella non vuol più servire da paravento, ed ha ragione.

    Salvatore si prese la barba e la strinse tutta nella mano.

    - Dica, dica, avvocato. Mi dica pure - egli ripeteva con flemma riflessiva, come se andasse ricercando il senso nascosto nelle parole del Brizzi.

    Il campanello suonava ininterrotto, la mano di Salvatore andava con lentezza dal mento all’estremità della barba; quel suono, quella cosa bianca e viva strisciante su quel nero viluppo, davano al Brizzi un senso di vertigine.

    - Guardi, cerchi, frughi intorno, e vedrà, capirà. Perchè dovrei aprirle gli occhi io dal momento che lei non ama la luce? - e si portò con gesto di violenza all’orecchio il tubo del telefono.

    - Sì, sì, vengo; ho detto di sì, perdio!

    Salvatore aveva fatto della barba un torciglione, che andava mordicchiando. Allorchè il Brizzi ebbe tolta la comunicazione telefonica, Salvatore si pose le mani nelle tasche dei pantaloni e disse con voce che gli tremava:

    - Adesso mi faccia il piacere di spiegarsi chiaro - e poichè l’altro taceva, egli insistè con più forza.

    - Lei mi è amico da anni; dunque mi faccia il piacere di spiegarsi chiaro.

    - Non ho niente da spiegare - il Brizzi rispose ruvido, già pentito.

    Tacquero a lungo, senza guardarsi, poi Salvatore, livido in volto, cogli occhi approfonditi dentro le orbite, disse:

    - Ha ragione; lei mi ha spiegato anche troppo. Germana serviva da paravento, sicuro.

    - Non dia peso alle mie parole; sa bene, io sono impulsivo.

    Il Tindari, che batteva i denti come per febbre, disse quasi con dolcezza:

    - Anzi io la ringrazio; creda, la ringrazio. Ero un uomo cieco! Ma adesso è un altro affare.

    - Per carità, rifletta bene prima di agire - l’altro supplicò spaventato.

    - Adesso io vedo tutto. Non ho bisogno di riflettere. Vedo, vedo. - E riprendendo con fare di automa le carte che il Brizzi non aveva firmato, uscì dalla stanza, mentre Camillo annichilito cercava intorno con lo sguardo se gli fosse possibile ritrovare tangibilmente le proprie parole e riafferrarle; ma le parole erano volate, disseminando una irrimediabile devastazione.


    IV

    Germana spalancò la finestra della sua piccola stanza per bagnarsi al sole e sentirsi rinascere. La sera innanzi al buio, rannicchiata sotto le coltri per farsi piccina e sentir meno il suo dolore, aveva creduto e invocato di morire; ma col tornare della luce un soffio di eroismo era entrato in lei, sollevandola al disopra della propria disperazione che, veduta così dall’alto, le era apparsa misera e deforme. A che cosa le serviva di essersi temprata sotto il maglio della volontà, se la passione riusciva così a travolgerla? No, voleva salvarsi, voleva che la ferita, ora aperta e sanguinante, da cui tutto il sangue delle sue vene pareva scorrere, si restringesse a poco a poco, si rimarginasse e la cicatrice restasse in lei come il segno di una suprema battaglia affrontata, e di una vittoria eccelsa conseguita.

    Già riportava il premio del coraggio dimostrato la sera innanzi; il dolore cocente le maciullava tuttavia le carni; ma l’umiliazione se n’era andata e la malvagità non più le snodava in petto gli anelli freddi di piccoli rettili velenosi. Di fronte alla disperazione la giovinezza, circonfusa di raggi, sarebbe insorta a combattere ed il passato fosco si sarebbe sommerso a foggia di scoglio, che scompare agli occhi del navigante ardito, il quale superate le insidie dei vortici, si lancia alla conquista dello spazio, pronto a sfidare nuovi pericoli, pur di tentare l’approdo su lidi nuovi. Ma bisognava fuggire senza indugio, bisognava diffidare di sè. Per questo, dietro la scorta di un annunzio, era corsa all’albergo Exelsior ed aveva assunto impegno definitivo di recarsi a Shanghai, in qualità d’istitutrice, presso una ricca famiglia di commercianti milanesi. E adesso, immersa nel sole, si stringeva al petto le mani intrecciate, per trasfondersi vigore, e contemplava la colonna Traiana, che sotto la fissità del suo sguardo, sembrava innalzarsi lentamente per attingere il cielo, simile all’albero maestro di una nave prodigiosa solcante la vastità dell’azzurro.

    La voce di Eva, morbida e piana, risuonò dall’attiguo salottino.

    - Zeffira, preparami una limonata; ho sete.

    Germana ebbe un brivido. Bisognava fuggire, bisognava fuggire se anch’ella, come gli altri, non voleva morire all’ombra dell’albero venefico, il quale non tollera nelle sue vicinanze nè vita di esseri, nè vegetazione di piante.

    Eva la chiamò:

    - Germana, Germana!

    La ragazza si tolse il cappello e, opponendosi con la volontà agl’impeti del sangue in tumulto, rispose alla cognata entrando in salotto:

    - Che cosa vuoi?

    Eva la guardò stupita e le disse con sollecitudine sincera;

    - Come sei pallida! Ti senti male?

    - No, no, grazie. Ma che vuoi?

    - Guarda; ti piace? - e spiegò una ciarpa frangiata di seta bianca ricchissima.

    - Sì, è bella - Germana disse.

    - Prendila, ne ho comperate due. Questa è per te.

    Germana dette un guizzo all’indietro.

    Di solito ella rifiutava i doni frequenti della cognata; li rifiutava con ira e disgusto; ma quel giorno volle imporsi di accettare per reazione contro la collera da cui si sentiva vincere, forse per la voluttà di assaporare sino alla feccia il calice del suo martirio. Allungò il braccio, prese la stoffa ondeggiante e disse con labbra contratte:

    - Grazie.

    Una contentezza infantile brillò sul viso bianco di Eva, la quale abbracciò la cognata con espansione.

    - Sei gentile oggi, molto gentile - e la baciò sopra le gote, mentre Germana sentendosi agghiacciare, torceva lentamente il capo e chiudeva le palpebre.

    Zeffira dalla porta disse:

    - Ecco il signor avvocato.

    - Quale avvocato? - Eva domandò.

    - Il signor Salvatore. L’ho visto dalla finestra che arrivava in fretta.

    - A quest’ora? - Eva esclamò con meraviglia e si recò ad aprirgli ella stessa.

    Salvatore entrò difilato nel salotto e, vedendo Germana, le impose con fare insolito:

    - Vai di là; devo parlare con mia moglie.

    Germana uscì e Salvatore si lasciò cadere sul divano, forse per riprendere fiato, giacchè doveva essersi recato a casa a tutta corsa, tanto il respiro gli mancava.

    - Che cosa ti è successo? - Eva gli domandò premurosa, appoggiandogli una mano sopra una spalla.

    Salvatore sollevò le spalle con violenza per liberarsi dalla pressione, pur così dolce, di quella piccola mano gemmata e si mise due dita fra la gola e il goletto. Voleva parlare, interrogare, gridare, vituperare e non riusciva a staccarsi una sillaba dal palato.

    Eva, presa da spavento, temendo un colpo di apoplessia, si avviò per chiamare Germana; ma Salvatore balzò come una tigre, l’afferrò per le spalle, la buttò riversa sul divano e, formidabile, le impose con la muta espressione delle ciglia di rimanere immobile e zitta.

    - Misericordia! È impazzito! - Eva pensò e non osava tentare il più piccolo moto per divincolarsi dalla stretta di quelle dita che la tenevano inchiodata e riversa. Lo fissava con pupille dilatate, ipnotizzata dal viso irriconoscibile del marito, poichè il naso gonfio, gli occhi lagrimosi pel raffreddore mischiavano di grottesco la terribilità degli zigomi sporgenti, della fronte convessa, delle mascelle contratte, della bocca screpolata e arida fra le ciocche della barba scomposta. Si guardavano stupidamente, quasi fossero due estranei meravigliati di trovarsi insieme, e infatti si riscontravano a vicenda una fisonomia nuova, rivelazione in ciascuno di loro di una personalità intrinseca da entrambi non sospettata durante anni di convivenza. Ella scorgeva adesso un gigante bruto al posto del suo pacifico e bonario compagno; egli scorgeva un essere ibrido e viscido al posto dell’adorata divinità, eppure, sprofondando le pupille accese nelle smarrite pupille di lei, premendole con le dita adunche la massa cedevole delle carni, provava dalla nuca ai calcagni il diffondersi di un leggerissimo calore, che lo dissolveva. Questo raddoppiò la sua collera.

    - Voglio sapere tutto o ti ammazzo.

    - Di che? - ella chiese tentando sollevarsi col busto.

    - Non ti muovere -- egli comandò. - Voglio saper tutto.

    - Ma di che? - Eva chiese ancora con voce di pianto.

    - Che cosa facevi con Aldo?

    - Io? Quando?

    - Sempre.

    - Ma quando?

    - Sempre; da mesi.

    - Non è vero, non è vero - ella esclamò, divincolandosi con forza, poichè cominciava a raccapezzarsi.

    - Bugiarda, sta ferma.

    - Non è vero.

    Salvatore gustò per ogni vena la voluttà di un benessere immenso; rallentò la stretta ed Eva si alzò indignata.

    - Per questo ti riduci così che mi sembri pazzo furioso?

    Egli si lasciò cadere senza più forze sopra una seggiola; i ginocchi gli si piegavano per l’impeto della commozione suscitata in lui dalla speranza.

    - Dunque tu giuri che non è vero? - le domandò supplice, già quasi vinto.

    Eva nemmeno gli rispose; la collera le divampava in petto col furore di un incendio. Aveva le braccia ammaccate, le vesti sgualcite, il torace indolenzito, le reni quasi spezzate, il sangue sospeso per il terrore, il cuore impietrito per un pericolo di morte e tutto questo a causa di fanciullagini insignificanti.

    Era atroce, era una ingiustizia ignobile che la rivoltava.

    - Sei stato sul punto di ammazzarmi, capisci? Sei stato sul punto di finirmi - e, camminando in furia dalla finestra al divano, si accarezzava amorosamente le braccia, si palpava ansiosa per constatare che nulla in lei fosse distrutto.

    Salvatore l’afferrò per un lembo della gonna e se la trasse accanto riluttante e torva.

    - Senti, senti, Eva. Ho creduto d’impazzire. Ma adesso vedo che hai ragione tu. La verità è sulla tua faccia.

    Eva lo guardò con lo sguardo tuttavia intimorito e già dominatore del bimbo, il quale veda ammansata la grossa bestia, che poco prima lo aveva fatto urlare di spavento.

    A poco a poco le ciglia aggrottate si spianarono, la bocca si dischiuse ad un sorriso d’ironico trionfo. Il vedersi amata così la inorgogliva. Da incriminata diventò giudice ed a sua volta interrogò, diritta davanti al marito seduto, tenendolo sottomesso con la sola forza delle fragili dita posate appena sopra le spalle atletiche.

    - È stato lui, non è vero, a mettertelo in testa?

    - Chi lui? - Salvatore domandò, alzandole contro la faccia.

    Essa ebbe un moto d’impazienza col piede.

    - Sì, sì, non mentire; è stato lui, lui, quel bugiardo, quel miserabile.

    - Perchè dici così? - domandò Salvatore incerto, come chi, camminando al buio in una grotta, senta ventarsi in faccia un soffio gelido e rimanga col piede sospeso nel presentimento di una voragine ignorata.

    - Perchè è un bugiardo, perchè è un miserabile. Glielo dissi ieri sera.

    Salvatore, senza nemmeno tirare il respiro, attendeva. Oramai l’esistenza della voragine diventava certezza; ne percepiva il rombo sordo, ma non giungeva ancora a misurarne la profondità. Si fece astuto e rise bonariamente.

    - Ah! glielo hai detto ieri sera? Mentre io ero a teatro?

    - Già, quando tu eri a teatro.

    - Durante il terzo atto allora; uscì dal palco con la scusa di andare in casa un momento per vedere il bambino.

    - Bugiardo! Vedi quant’è bugiardo?

    Salvatore la prese per i polsi dolcemente e, sempre più benevolo, faceva atto di ridere con volto tranquillo, poichè voleva giungere carponi, strisciando con mille cautele, fino all’orlo dell’abisso, e scrutarlo almeno, avanti di rimanerne inghiottito.

    - Ah! dunque tu lo credi un bugiardo? - egli le chiese.

    - Bugiardo, falso, egoista, ipocrita. Ah! tu non lo conosci - e strinse i pugni.

    Salvatore glieli prese, così stretti, nelle mani e se li chiuse dentro le palme pian pianino per tenerla avvinta senza darle sospetto.

    - Adesso capisco! È ipocrita. Con me fa il santo.

    - Già, con te fa il santo; con me invece sfodera le unghie e mi tiene schiava.

    Salvatore ebbe una risata sonora di scherno e squassò Eva, come preso da un accesso di allegria.

    Anche Eva si dette a ridere, buttandosi indietro col busto, poi si ripiegò in avanti con mossa felina e, curva sopra di lui, gli bisbigliò lusinghiera, tutta rosea nel volto e luccicante negli occhi.

    - Ma lui sa che il mio cuore è tutto per te e si rode, si consuma; ha rabbia della nostra pace e vuole il tuo male. Anche ieri sera mi disse: io aprirò gli occhi a tuo marito - e si arrestò di schianto, diventò livida al suono delle sue parole, che produssero in mezzo a quei due l’effetto di una frana improvvisa e scrosciante.

    Salvatore si aggrappò con impeto disperato ai piccoli pugni chiusi di Eva, come per non precipitare; Eva indietreggiò quasi per non rimanere schiacciata sotto il cumulo delle macerie e così divisi, quantunque allacciati, si fissarono storditi, indugiando a riaversi.

    Ma quando la coscienza in essi tornò si erano compresi definitivamente. Egli non aveva più nulla da chiedere; ella non aveva più nulla da confessare.

    Salvatore si alzò con mossa faticosa come liberandosi a fatica da un peso immane; Eva a capo chino, senza più energia per mentire o lottare, attendeva.

    - Da quanto tempo? - egli chiese.

    - Da quattro anni.

    - Poco dopo sposati allora?

    Eva chinò il capo di più e inchiodò il mento sul petto.

    - E regali ogni giorno, è vero?

    Volse la testa in giro, gli occhi iniettati schizzarono fiamme, perchè la rabbia cieca e folle lo riprendeva. Afferrò un vaso del Giappone e lo buttò in terra, ghermì un portafiori di argento cesellato e ci sputò dentro a più riprese, scaraventandolo poi; fece ruzzolare dal divano un cuscino di cuoio e si dette a calpestarlo, strappò dalla parete la vecchia incisione, mentre sfondava col piede un piccolo paravento di seta. Pareva un toro ferito, reso cieco dal terrore, che giri intorno a sè, poi galoppi pesantemente. Eva, per istinto, si teneva immobile nell’angolo più buio della stanza, ed egli l’andava cercando senza vederla. Se l’avesse trovata l’avrebbe accoppata senz’altro.

    Al fracasso Germana e Zeffira accorsero.

    Germana fece scudo di sè al corpo della cognata; Zeffira si dette a gridare aiuto; ma Salvatore si arrestò improvvisamente e si strinse la testa nelle mani.

    - Non gridare - egli impose alla domestica con voce strozzata.

    Germana supplicò:

    - Per carità, non gridare, non facciamo scandali.

    Zeffira, per un attimo rimase in silenzio con la bocca spalancata, poi fuggì a mettersi in salvo.

    Il Tindari scansò con un urtone la sorella e disse alla moglie, senza toccarla, senza guardarla:

    - Via, via; non voglio immondizie qui dentro; vattene.

    Germana provò ad intervenire: ma vide la faccia del fratello così terribilmente minacciosa, ch’ella disse piano alla cognata:

    - Eva, per carità, fa presto.

    Eva, abbrutita dalla paura, corse nella propria stanza e ritornò subito, appuntandosi meccanicamente il cappello. Cercava qualchecosa con l’occhio intorno a sè. Germana comprese e le indicò sul tavolo il piccolo portamonete di bulgaro, che Eva afferrò. A un tratto si mise a piangere e, calzandosi un guanto, se ne andò, ripetendo desolatamente fra i singhiozzi:

    - Povero Salvatore! Povero Salvatore! Come farà a vivere senza di me?

    La porta di casa fu aperta, rinchiusa e poco dopo si udì nella piazza il rumore di una vettura, che arrivò, si arrestò, ripartì di carriera.

    Salvatore allora si asciugò la fronte e sedette di peso, come chi abbia sostenuto una fatica erculea e senta il bisogno di riprender lena.

    Germana gli si avvicinò e lo chiamò per nome dolcemente.

    - Salvatore, Salvatore.

    - Tu sapevi e non mi dicevi. Tutti contro di me.

    Ella avvampante di rossore, gli cinse il capo nelle braccia:

    - Che cosa avrei potuto dirti? Mi pareva impossibile che tu non vedessi.

    Egli si liberò dalla stretta amorosa di Germana e disse con rassegnazione amara:

    - È giusto. La mia cecità è incomprensibile. Tutti avranno pensato di me quello che non era.

    - Tutti no, no - esclamò Germana con terrore.

    - Chi ti conosce ti stima.

    - E tu allora?

    - Io soffrivo, ero ingiusta.

    - È vero - Salvatore disse, come ricordandosi - Il tuo matrimonio - e tacque non riuscendo ad attribuire importanza alla catastrofe sentimentale di Germana di fronte alla catastrofe piombata sopra di lui.

    - Io andrò a Shangai come istitutrice: dovrei partire fra una settimana; ma se tu vuoi, se hai bisogno di me, io rinuncio.

    Egli si strinse nelle spalle con indifferenza - No, no, ti ringrazio. Pensa a te.

    - Le condizioni sono eccezionali - ella disse con l’egoismo inconsapevole e legittimo di chi non trova logico partecipare all’altrui rovina, non essendo partecipe delle altrui colpe.

    «Quando le condizioni sono eccezionali perchè vorresti rinunciare? sarebbe una sciocchezza! D’altronde che cosa puoi farmi tu?» E non trovarono altre parole da scambiarsi, spiritualmente estranei, dopo che Eva diventata elemento essenziale nella vita di Salvatore si era frapposta tra i loro due cuori fraterni e li aveva divisi.

    La sera scendeva, l’ombra si ammassava nella stanza in disordine; la desolazione entrava dal vano delle due porte spalancate. A Salvatore la casa pareva deserta da anni ed egli guardava intensamente nell’attesa che il giocondo fantasma di Eva entrasse da un uscio, scomparisse dall’altro, empiendo la stanza col fruscio delle sue gonne e gli effluvî del suo profumo. Germana aprì la chiavetta della luce elettrica e raccolse gli oggetti sparpagliati sul tappeto, appoggiò il quadro su di una seggiola e rimase vicino alla finestra senza saper che dire o fare in aiuto del fratello che, a sua volta, soffriva di impaccio per la presenza di lei.

    Gli pareva che, restando solo, sarebbe forse riuscito a placarsi. Ella si rese conto di ciò e con una infinita pietà nella voce, con rammarico infinito per l’impotenza sua a portargli lenimento, disse:

    - Se hai bisogno di me, io sono qui nella mia stanza.

    Egli assentì con un gesto e respirò a lungo con sollievo nel trovarsi finalmente solo.

    Non si muoveva, accasciato e ripiegato sopra di sè, facendosi puntello al mento con le mani intrecciate, vagando con l’occhio incerto dalla punta rilucente del suo stivale alla gamba intarsiata della seggiola che gli stava di fronte. La vecchia incisione gli fermò lo sguardo per un momento, come attraverso un velario. Lembi di pensiero gli vagavano per il cervello, disperdendosi subito; le memorie apparivano, scomparivano prive di fisonomia, addossate le une alle altre, informi e ondeggianti. Rammentava di avere interrogato un dizionario di botanica, il giorno in cui la vecchia incisione era stata portata in casa. Era di festa e nevicava un poco; sua moglie, per contemplare lo spettacolo insolito della neve, lo aveva chiamato alla finestra e gli si teneva stretta al fianco. Più tardi, egli aveva scartabellato il dizionario, mentre l’avvocato Brizzi giuocava a dama con Eva e Germana bisbigliava con Aldo dietro il paravento. Tali figure gli tremavano adesso dentro il pensiero come figure di una cinematografia, poi si dileguarono improvvise; ma egli, volendo tenersi fermo in una idea qualsiasi, si ostinava a fissare la incisione. Sicuro! Essa rappresentava un albero! Upas autiaris! Albero del veleno, albero della morte! Confusamente, percepiva un’analogia fra la sua propria sorte e la sorte degli uomini in parrucca, giacenti all’ombra mortifera di quelle fronde. Ma egli non era morto, non era nemmeno agonizzante. Poteva muoversi, parlare, urlare, imprecare, piangere; eppure in fondo alla sua coscienza un cadavere forse giaceva, avvertendo egli in sè come una decomposizione, come una verminaia; si decomponeva la sua fierezza, brulicavano i bassi istinti, poco fa inesistenti, ora già innumerevoli e voraci. Tese l’orecchio ad ascoltare con trepidazione e sentì risuonarsi dall’imo la eco di un canto fievole e dolce, che gli leniva lo spasimo e gli sedava il tumulto dello spirito.

    - Povero Salvatore! Povero Salvatore! Come farà a vivere senza di me? - La voce, il pianto, le parole di Eva.

    - Povero Salvatore! - egli ripetè a se stesso con un singhiozzo e cominciò a piangere. Grondavano le lacrime, il dolore si ammansiva, la viltà si ringagliardiva. Non avrebbe egli potuto riedificare la sua vita? Abbandonando lo studio del Brizzi, non gli riuscirebbe facilissimo trovare altre occupazioni anche più lucrose? Oh! certo, certo! Germana partiva, andava oltre il mare ed egli provava sollievo all’idea di eliminare, per l’avvenire, un testimonio accusatore del passato. Una parentesi nella sua esistenza, un viaggio, un’assenza di qualche settimana, i fili delle abitudini spezzati, poi riannodati in altra guisa, e poi la casa avrebbe potuto tornare ariosa, libera, luminosa, lieta di effluvi e di fruscii. Intanto perchè non uscire? Perchè non recarsi là dov’egli sapeva che la fuggitiva era corsa a rifugiarsi, nella casa paterna, e dov’egli era atteso con sospiri e lacrime, dove sarebbe stato accolto con amplessi e giuramenti? forse aveva inteso male; forse la verità era altra. Si alzò, spalancò la finestra e guardò fuori. In alto le stelle scintillavano a miriadi, intorno alla piazza le fiammelle risplendevano immobili nell’aria quieta; la colonna serbava la sua rigidità secolare, le tramvie si incrociavano con gioioso fracasso, una frotta di giovani popolani facevano schiamazzo, un cane abbaiava in lontananza dentro una casa, le finestre, tutte aperte, diffondevano luce e gaiezza sopra le facciate dei vecchi palazzi.

    Nulla era cambiato! Il mondo esisteva come ieri, e, come ieri la gente camminava svelta, aspirando con letizia il fresco odore della primavera. Sospirò più volte, traendosi dalle profondità del petto i sospiri, simile a un adolescente che sogni di amore e, mentre la viltà trionfante gli rideva dentro e si dilatava, egli con volto accigliato, con movimenti bruschi per ingannare se stesso, prese il cappello ed uscì.

    L’avvenire si apriva dinanzi a lui senza più luce, nè orizzonte, circoscritto, grigio, come viottolo campestre nelle vicinanze di uno stagno durante un crepuscolo di novembre, e Salvatore intanto affrettava il passo per dissolversi, con voluttà, in nebbia fra quella nebbia.




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