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    Giacomo Zanella

    Il Cantico di Debora

    GIUDICI, Capo V.

    O prodi che al folgore
    De’ brandi, dell’aste
    Il petto magnanimo
    In campo snudaste,
    Ne’ rischi con giubilo
    Poneste le vite,
    A Dio benedite.

    Porgete l’orecchio,
    O prenci e regnanti:
    Io son che glorifico
    Il Santo de’ Santi;
    Al Dio degli eserciti
    Io Debora, io sono
    Che il cantico intuono.

    O Signore, quel dì che alle spalle
    Di Seìr ti lasciasti la valle,
    E d’Edòme per l’ampia contrada
    A’ tuoi servi segnasti la strada.
    Spaventata diè un balzo la terra
    Che ti vide discendere in guerra;
    Cieli e nubi si sciolsero in fonti;
    Come cera si strussero i monti;
    Tocche al vampo dell’ira divina
    Dileguaro le balze del Sina.


    Ma nell’età di Sangaro,
    Ne’ giorni di Iaele
    Le vie maestre tacquero
    Deserte in Israele:
    Tremando i passeggeri
    Battean torti sentieri,
    Finché terribil sorse
    Debora in guerra, e madre
    Impavida soccorse
    All’invilite squadre.

    Dio nove pugne elesse,
    Dio gli orgogliosi oppresse.
    Quarantamila in campo
    Trasse Israel: ma nudi
    D’aste venian, nè scampo
    Avean d’usberghi e scudi.
    Voi, voi, gran duci, appello,
    Salute d’Israello!
    Voi, voi, che del nemico
    L’ire sfidaste, al Santo,
    Al Dio di Abramo antico
    Lieto intonate il canto.

    Cantate le sue glorie,
    Dite le sue vittorie
    Voi che premete in corso
    Di bianche asine il dorso;
    Voi che sedete al fôro
    Maestri della legge,
    Magnificate in coro
    Colui che ne protegge.

    Dove allo scontro orribile
    Giacquero i carri infranti;
    Dove il torrente esanimi
    Volve cavalli e fanti,
    Cantiam, cantiam le glorie,
    Del Dio delle vittorie,
    Terribile a’ protervi,
    Benigno co’ suoi servi.
    Spezzate le ritorte
    La gente allor convenne
    Festosa in sulle porte
    E ’l principato ottenne.

    Sorgi, Debora, sorgi, il canto intuona;
    Sorgi, Debora, all’inno impenna il vol;
    Sorgi, Barac fedel; sorgi, imprigiona
    I vinti tuoi, d’Abinoàm figliuol.

    In salvo d’Israel sono gli avanzi;
    Co’ servi suoi l’Altissimo pugnò;
    Ei che col braccio d’Efraìm pur dianzi
    D’Amalecco le file esterminò.

    Uscì da Beniamino altro leone,
    Pur terror di Amalèc: mandò Machir
    I suoi prenci alla pugna; e Zabulone
    I duci ad Israel scese ad offrir.

    Venne Issacàr: nè scolorossi in viso
    Barac, il forte, delle trombe al suon.
    In contrari voler Ruben diviso
    Fra’ suoi prodi agitò vane tenzon.

    Che stai, che stai fra due confini assiso,
    Mandrïan delle gregge intento al suon?
    In contrari voler Ruben diviso
    Fra’ suoi prodi agitò vane tenzon.

    Oltre il Giordan guardò vilmente il nido
    Galad, nel Dan le navi sue lasciò;
    Del mare si ritenne Àser sul lido
    E ne’ porti al terror schermo cercò.

    Ma Zabulone e Neftali di prandi
    Vil desìo non trattenne, e dal Tabor
    Sulle pianure di Meròme a’ brandi
    Nemici il petto scesero ad oppor.

    Vennero i re; con noi pugnaro; accanto
    All’acque di Megiddo alto pugnâr;
    Ma de’ re Cananei fu stolto il vanto,
    Chè nè un’oncia d’argento indi portâr.


    Dal ciel per noi pugnarono
    Amiche le procelle;
    Schierate incontro a Sisara
    Pugnarono le stelle.
    I monti de’ cadaveri
    Nell’onda sua repente
    Trasse il Cison torrente,
    Trasse il Cisonne, all’imo
    Travolse il Cadumimo.
    Anima mia, calpesta,
    Calpesta i glorïosi
    Che contro Dio la testa
    D’inalberar fur osi.
    Ove son essi? L’ugna
    Tritossi de’ cavalli,
    Fuggendo dalla pugna
    Per dirupati calli
    I più valenti! ansanti
    Van pe’ burroni erranti.

    Ma di Mezor maledetta,
    Disse l’Angiol, sia la terra;
    Sia la gente maledetta
    Che non surse al suon di guerra;
    Co’ guerrier non si son misti
    Ne’ conflitti del valor;
    Co’ fratelli non fur visti
    Alle pugne del Signor.

    Fra le donne benedetta
    In eterno sia Iaele,
    La pudica, la diletta
    Del Cineo sposa fedele;
    Benedetta la tremenda
    Che Israele francheggiò;
    Benedetta nella tenda
    Ove Sisara prostrò.

    Venne e d’acqua ei la richiese.
    Fior di latte in regal vase
    Ella incontro offrì cortese,
    Come il ciel le persuase.
    Colla manca strinse un chiodo,
    Colla destra un maglio alzò,
    E, spiato al ferir modo,
    Nelle tempie gliel cacciò.

    Traforolle. Al suo cospetto
    Si scotea divincolando;
    Trambasciando, sanguinando
    Si torceva il maledetto,
    Finché giacque in abbandon
    Fiero ingombro al padiglion.

    Dalla finestra protendea lo sguardo
    La madre intanto e lo chiamava a nome.
    Perchè non giunge? come
    Il vol di sue quadrighe oggi è sì tardo,
    Di sue quadrighe il vol che il vento avanza?
    Ululando dicea nella sua stanza.

    La maggior delle ancelle a confortarla
    Allor così le parla:
    Or dividon le prede: immense prede
    Essi forse non fero? Una donzella,
    Due donzelle a ciascun; ma la più bella
    A Sisara si dà. Di ostro superba
    E di rubini screzïata e di oro
    Per Sisara una veste si riserba;
    Ei già vi passa la cervice, e riede
    Grave le terga di regal tesoro.

    Peran così, Signore,
    Perano i rei! Ma quanti
    Ti aman di saldo amore,
    Fulgor di gloria ammanti,
    Pari al fulgor che splende
    In volto al sol che in orïente ascende.




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