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    Giacomo Zanella

    Psiche

    O dell’anima umana, a cui fatale
    È sovente del ver la conoscenza,
    Immagine gentil, Psiche immortale;

    O divina farfalla, a cui l’essenza
    Delle cose è nascosta, o sol si svela
    Quanto basti al gioir dell’innocenza;

    Lascia, Psiche, l’improvvida querela,
    Nè desïar conoscere lo sposo
    Che la temuta oscurità ti cela.

    Men dolce, o semplicetta, è bacio ascoso?
    Dolci meno gli amplessi e le parole,
    Onde bea Quel non visto il tuo riposo?

    D’aurati sogni e di leggiadre fole
    Popolata è la notte; ombre giocose,
    Che col primo splendor dissipa il sole.

    Cogli, fanciulla, le furtive rose,
    E non cercar, se sia mortale o nume
    Colui che ne’ divini atrî ti pose.

    Ella non ode. Della manca al lume
    Schermo facendo, il talamo vietato
    Entra perplessa e pende in sulle piume.

    Pende e rimira. Sul purpureo strato
    Chi mai rimira? Giovincel che giace
    In nettareo sopore addormentato.

    Ale ha di giglio agli omeri: una face
    Fuma a piè delle coltri. Oh, quanto il detto
    Dell’invide sorelle era mendace!

    Drago non già, ma più che umano aspetto.
    Rosa che innanzi l’alba orlan le brine,
    È la guancia gentil del giovinetto.

    Aleggia sulle labbra porporine
    Molle il respiro, ed in vezzose anella
    Scende pel collo fluttuando il crine.

    Come stupisce! come in sulla bella
    Faccia immobile figge la pupilla
    In dolce estasi assorta la donzella!

    Mentre riguarda, e dentro il cor le stilla
    Ignota voluttà, dall’agitata
    Lampada si dispicca una scintilla,

    E stridula si apprende alla rosata
    Spalla d’Amore, che con alto grido
    Balza dal letto esterrefatto e guata

    Psiche smarrita ed il rasoio infido
    E l’odiata lucerna: alle nemiche
    Ombre s’invola con terror Cupido.

    Or chi sa dirmi, poverella Psiche,
    Le minacce di Venere e gli sdegni,
    I tuoi miseri errori e le fatiche?

    Varchi tremante a’ sotterranei regni,
    E reduce dell’acque d’Acheronte
    L’anfora colma a Venere consegni.

    Or di piselli e di lenticchie un monte,
    Di semi di papavero e di miglio,
    In un confusi, ti rimiri a fronte;

    E Citerea che con superbo piglio
    T’ingiunge di scevrar grano da grano,
    Prima che il sol le si nasconda al ciglio.

    E tu, come insensata, all’opra invano
    Movevi, o poverella; e già la sera
    L’ombre allungava sul deserto piano,

    Quando mossa a’ tuoi guai venne la schiera
    Delle preste formiche a darti aita;
    Ed il sol tutto ascoso ancor non era,

    Che scegliendo, traendo e la spedita
    Spalla indefessa quelle pie gravando,
    Per te l’ardua fatica ebber fornita.

    Ed or novellamente ir devi in bando;
    Ancor di Pluto alle dolenti case
    Di Venere t’invia l’aspro comando.

    Della beltà, che guasta le rimase,
    Or t’è mestier dall’infere magioni
    Alla Dea riportar l’occulto vase.

    Riporta, Psiche, a Venere i suoi doni;
    Nè di vezzi femminëo desio
    L’orciuol fatale a scoperchiar ti sproni.

    Aperto è ’l vase. Soporoso e rio
    Esce quindi un velen che all’infelice
    Preme le membra di mortale obblio.

    Assonnando dechina la cervice
    Sovra l’omero: in volto si scolora,
    Nè più voce o sospir dal petto elice.

    Amor placato accorre e la rincora,
    La ravviva e sostien. Già meno altera,
    Vener si piega ad abbracciar la nuora.

    Oh! la tua Psiche, Amor, che lusinghiera
    Sul sen ti si abbandona, al ciel trasporta;
    Diva raccolta in tua beata sfera

    Faccianla alfine i propri mali accorta.




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