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    Giovan Battista Marino

    Adone - Canto primo

    Allegoria

    LA FORTUNA. Nella sferza di rose e di spine con cui Venere batte il figlio si figura la qualità degli amorosi piaceri, non giamai discompagnati da’ dolori. In Amore che commove prima Apollo, poi Vulcano e finalmente Nettuno, si dimostra quanto questa fiera passione sia potente per tutto, eziandio negli animi de’ grandi. In Adone che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua patria passa all’isola di Cipro, si significa la gioventù che sotto il favore della prosperità corre volentieri agli amori. Sotto la persona di Clizio s’intende il signor Giovan Vincenzo Imperiali, gentiluomo genovese di belle lettere, che questo nome si ha appropriato nelle sue poesie. Nelle lodi della vita pastorale si adombra il poema dello Stato rustico, dal medesimo leggiadramente composto.

    Argomento

    Passa in picciol legnetto a Cipro Adone
    dale spiagge d’Arabia, ov’egli nacque.
    Amor gli turba intorno i venti e l’acque,
    Clizio pastor l’accoglie in sua magione
    .

    Canto primo

    Io chiamo te, per cui si volge e move
    la più benigna e mansueta sfera,
    santa madre d’Amor, figlia di Giove,
    bella dea d’Amatunta e di Citera;
    te, la cui stella, ond’ogni grazia piove,
    dela notte e del giorno è messaggiera;
    te, lo cui raggio lucido e fecondo
    serena il cielo ed innamora il mondo,
    tu dar puoi sola altrui godere in terra
    di pacifico stato ozio sereno.
    Per te Giano placato il tempio serra,
    addolcito il Furor tien l’ire a freno;
    poiché lo dio del’armi e dela guerra
    spesso suol prigionier languirti in seno
    e con armi di gioia e di diletto
    guerreggia in pace ed è steccato il letto.
    Dettami tu del giovinetto amato
    le venture e le glorie alte e superbe;
    qual teco in prima visse, indi qual fato
    l’estinse e tinse del suo sangue l’erbe.
    E tu m’insegna del tuo cor piagato
    a dir le pene dolcemente acerbe
    e le dolci querele e’l dolce pianto;
    e tu de’ cigni tuoi m’impetra il canto.
    Ma mentr’io tento pur, diva cortese,
    d’ordir testura ingiuriosa agli anni,
    prendendo a dir del foco che t’accese
    i pria sì grati e poi sì gravi affanni,
    Amor, con grazie almen pari al’offese,
    lievi mi presti a sì gran volo i vanni
    e con la face sua, s’io ne son degno,
    dia quant’arsura al cor, luce al’ingegno.
    E te, ch’Adone istesso, o gran Luigi,
    di beltà vinci e di splendore abbagli
    e, seguendo ancor tenero i vestigi
    del morto genitor, quasi l’agguagli,
    per cui suda Vulcano, a cui Parigi
    convien che palme colga e statue intagli,
    prego intanto m’ascolti e sostien ch’io
    intrecci il giglio tuo col lauro mio.
    Se movo ad agguagliar l’alto concetto
    la penna, che per sé tanto non sale,
    facciol per ottener dal gran suggetto
    col favor che mi regge ed aure ed ale.
    Privo di queste, il debile intelletto,
    ch’al ciel degli onor tuoi volar non vale,
    teme al’ardor di sì lucente sfera
    stemprar l’audace e temeraria cera.
    Ma quando quell’ardir ch’or gli anni avanza,
    sciogliendo al vento la paterna insegna
    per domar la superbia e la possanza
    del tiranno crudel che’n Asia regna,
    vinta col suo valor l’altrui speranza
    fia che’nsu’l fiore a maturar si vegna,
    allor, con spada al fianco e cetra al collo,
    l’un di noi sarà Marte e l’altro Apollo.
    Così la dea del sempreverde alloro,
    parca immortal de’ nomi e degli stili,
    ale fatiche mie con fuso d’oro
    di stame adamantin la vita fili
    e dia per fama a questo umil lavoro
    viver fra le pregiate opre gentili,
    come farò che fulminar tra l’armi
    s’odan co’ tuoi metalli anco i miei carmi.
    La donna che dal mare il nome ha tolto
    dove nacque la dea ch’adombro in carte,
    quella che ben a lei conforme molto
    produsse un novo Amor d’un novo Marte,
    quella che tanta forza ha nel bel volto
    quant’egli ebbe nel’armi ardire ed arte,
    forse m’udrà, né sdegnerà che scriva
    tenerezze d’amor penna lasciva.
    Ombreggia il ver Parnaso e non rivela
    gli alti misteri ai semplici profani,
    ma con scorza mentita asconde e cela,
    quasi in rozzo Silen, celesti arcani.
    Però dal vel che tesse or la mia tela
    in molli versi e favolosi e vani,
    questo senso verace altri raccoglia:
    smoderato piacer termina in doglia.
    Amor pur dianzi, il fanciullin crudele,
    Giove di nova fiamma acceso avea.
    Arse di sdegno e’l cor d’amaro fiele
    sparsa, gelò la sua gelosa dea,
    e’ncontro a lui con flebili querele
    richiamossi del torto a Citerea;
    onde il garzon sovra l’etade astuto
    dala materna man pianse battuto.
    - Oimé, possibil fia (dicea Ciprigna)
    ch’io mai per te di pace ora non abbia?
    Qual cerasta più livida e maligna
    nutre del Nilo la deserta sabbia?
    qual furia insana, o qual arpia sanguigna
    là negli antri di stige ha tanta rabbia?
    Dimmi, quel tosco ond’ogni core appesti,
    aspe di paradiso, onde traesti?
    Vuoi tu più mai contaminar di Giuno
    le leggittime gioie e i casti amori?
    Udrò di te mai più richiamo alcuno,
    ministro di follie, fabro d’errori,
    sollecito avoltor, verme importuno,
    morbo de’ sensi, ebrietà de’ cori,
    di fraude nato e di furor nutrito,
    omicida del senno, empio appetito?
    Ira mi vien di romperti que’ lacci
    e quell’arco che fa piaghe sì grandi,
    né so chi mi ritien ch’or or non stracci
    quante reti malvage ordisci e spandi,
    che per sempre dal ciel non ti discacci,
    che’n essilio perpetuo io non ti mandi
    su i gioghi ircani e tra le caspie selve,
    arcier villano, a saettar le belve.
    Che tu fra gli egri e languidi mortali,
    di cui s’odono ognor gridi e lamenti,
    semini colaggiù martiri e mali,
    convien, malgrado mio, ch’io mi contenti;
    ma soffrirò che’n ciel vibri i tuoi strali,
    non perdonando ale beate genti?
    che sostengan per te strazi sì rei,
    serpentello orgoglioso, anco gli dei?
    Che più? fin dele stelle il sommo duce
    questo malnato di sforzar si vanta,
    e spesso a stato tale anco il riduce
    ch’or in mandra or in nido, or mugghia or canta.
    Un pestifero mostro, orbo di luce,
    avrà dunque fra noi baldanza tanta?
    un, che la lingua ancor tinta ha di latte,
    cotanto ardisce? - E ciò dicendo il batte.
    Con flagello di rose insieme attorte
    ch’avea groppi di spine, ella il percosse
    e de’ bei membri, onde si dolse forte,
    fe’ le vivaci porpore più rosse.
    Tremaro i poli e la stellata corte
    a quel fiero vagir tutta si mosse;
    mossesi il ciel, che più d’Amor infante
    teme il furor che di Tifeo gigante.
    Dela reggia materna il figlio uscito,
    con quello sdegno allor se n’allontana
    con cui soffiar per l’arenoso lito
    calcata suol la vipera africana
    o l’orso cavernier, quando ferito
    si scaglia fuor dela sassosa tana
    e va fremendo per gli orror più cupi
    dele valli lucane e dele rupi.
    Sferzato e pien di dispettosa doglia,
    fuggì piangendo ala vicina sfera,
    là dove cinto di purpurea spoglia,
    gran monarca de’ tempi, il Sole impera
    e’nsu l’entrar dela dorata soglia,
    stella nunzia del giorno e condottiera,
    Lucifero incontrò, che’n oriente
    apria con chiave d’or l’uscio lucente.
    E’l Crepuscolo seco, a poco a poco
    uscito per la lucida contrada
    sovra un corsier di tenebroso foco,
    spumante il fren d’ambrosia e di rugiada,
    di fresco giglio e di vivace croco
    forier del bel mattin spargea la strada
    e con sferza di rose e di viole
    affrettava il camino innanzi al Sole.
    La bella luce, che’n su l’aurea porta
    aspettava del Sol la prima uscita,
    era di Citerea ministra e scorta,
    d’amoroso splendor tutta crinita.
    Per varcar l’ombre innanzi tempo sorta
    già la biga rotante avea spedita
    e’l venir dela dea stava attendendo,
    quando il fier pargoletto entrò piangendo.
    Pianse al pianger d’Amor la mattutina
    del re de’ lumi ambasciadrice stella
    e di pioggia argentata e cristallina
    rigò la faccia rugiadosa e bella,
    onde di vive perle accolte in brina
    potè l’urna colmar l’Alba novella,
    l’Alba che l’asciugò col vel vermiglio
    l’umido raggio al lagrimoso ciglio.
    Ricoverato al ricco albergo Amore,
    trovò che, posto a’ corridori il morso,
    già s’era accinto il principe del’ore
    con la verga gemmata al novo corso
    e i focosi destrier, sbuffando ardore,
    l’altere iube si scotean su’l dorso
    e, sdegnosi d’indugio, il pavimento
    ferian co’ calci e co’ nitriti il vento.
    Sta quivi l’Anno sovra l’ali accorto,
    che sempre il fin col suo principio annoda
    e’n forma d’angue innanellato e torto
    morde l’estremo ala volubil coda
    e, qual Anteo caduto e poi risorto,
    cerca nova materia ond’egli roda;
    v’ha la serie de’ Mesi e i Dì lucenti,
    i lunghi e i brevi, i fervidi e gli algenti.
    L’aurea corona, onde scintilla il giorno,
    del Tempo gli ponean le quattro figlie.
    Due schiere avea d’alate ancelle intorno,
    dodici brune e dodici vermiglie.
    Mentre accoppiavan queste al carro adorno
    gli aurati gioghi e le rosate briglie,
    gli occhi di foco il Sol rivolse e’l pianto
    vide d’Amor, che gli languiva a canto.
    Era Apollo di Venere nemico
    e tenea l’odio ancor nel petto vivo,
    daché lassù del’adulterio antico
    publicò lo spettacolo lascivo,
    quando accusò del talamo impudico
    al fabro adusto il predator furtivo
    e, con vergogna invidiata in cielo,
    ai suoi dolci legami aperse il velo.
    Orché gli espone Amor sua grave salma:
    - E che sciocchi dolor (dice) son questi?
    Se’ tu colui che litigar la palma
    in riva di Peneo meco volesti?
    Tu tu, mente del mondo, alma d’ogni alma,
    vincitor de’ mortali e de’ celesti,
    or con strale arrotato e face accesa
    vendicar non ti sai di tanta offesa?
    Quanto fora il miglior, sicome afflitto
    di lagrime infantili il volto or bagni,
    volgere il duolo in ira e’l dardo invitto
    aguzzar nel’ingiuria onde ti lagni?
    Fa che con petto lacero e trafitto
    per te pianga colei per cui tu piagni;
    ché, se vorrai, non senza gloria e nome
    seguiranne l’effetto; ascolta come.
    Là nela region ricca e felice
    d’Arabia bella, Adone il giovinetto,
    quasi competitor dela fenice
    senza pari in beltà vive soletto.
    Adon nato di lei, cui la nutrice
    col proprio genitor giunse in un letto,
    di lei che, volta in pianta, i suoi dolori
    ancor distilla in lagrimosi odori.
    Schernì la scelerata il re malsaggio
    accesa il cor di sozzo foco indegno,
    ond’egli poi per così grave oltraggio
    quant’ella già d’amore, arse di sdegno
    e le convenne in loco ermo e selvaggio
    girne ad esporre il malconcetto pegno,
    pegno furtivo, a cui la propria madre
    fu sorella in un punto, avolo il padre.
    Fattezze mai sì signorili e belle
    non vide l’occhio mio lucido e chiaro.
    Sventurato fanciullo, a cui le stelle
    prima il rigor che lo splendor mostraro:
    contro gli armò crude influenzie e felle,
    ancor da lui non visto, il cielo avaro,
    poiché, mentre l’un sorse e l’altra giacque,
    al morir dela madre il figlio nacque.
    Qual trofeo più famoso? e qual altronde
    spoglia attendi più ricca o più superba,
    se per costui, ch’or prende a solcar l’onde,
    il cor le ferirai di piaga acerba?
    Dolci le piaghe fian, ma sì profonde
    ch’arte non vi varrà di pietra o d’erba.
    Questa fia del tuo mal degna vendetta:
    spirto di profezia così mi detta.
    Più oltre io ti dirò. Mira là dove
    a caratteri egizzi in note oscure
    intagliati vedrai per man di Giove
    i vaticini del’età future:
    havvi quante il destino al mondo piove
    da’ canali del ciel sorti e venture,
    che de’ pianeti al numero costrutte
    sono in sette metalli incise tutte.
    Quivi ciò che seguir deggia di questo
    legger potrai, quasi in vergate carte:
    prole tal nascerà del bell’innesto,
    che non ti pentirai d’avervi parte.
    In lei, pur come gemme in bel contesto,
    saran tutte del ciel le grazie sparte;
    e questa, o per tai nozze apien beato,
    al tiranno del mar promette il fato.
    Se ciò farai, non pur n’andrà in oblio
    la memoria tra noi de’ gran contrasti,
    ma tal premio n’avrai d’un dono mio,
    che’n mercé di tant’opra io vo’ che basti;
    lira nel mio Parnaso aurea serb’io,
    ch’ha d’or le corde e di rubino i tasti;
    fu d’Armonia tua suora ed io di lei
    con questa celebrai gli alti imenei.
    Questa fia tua. Così qualor ti stai
    di cure e d’armi alleggerito e scarco
    musico com’arcier, trattar potrai
    il plettro a par di me non men che l’arco;
    ché l’armonia non sol ristora assai
    qualunque sia più faticoso incarco,
    ma molto può co’ numeri sonori
    ad eccitare ed incitar gli amori. -
    Fur queste efficacissime parole
    folli, ch’al folle cor soffiaro orgoglio,
    ond’irritato abbandonò del Sole
    senza far motto il lampeggiante soglio
    e, ruinando dal’eterea mole
    inver le piagge del materno scoglio,
    corse col tratto dele penne ardenti,
    più che vento leggier, le vie de’ venti.
    Come prodigiosa acuta stella,
    armata il volto di scintille e lampi,
    fende del’aria, orribil sì ma bella
    passaggiera lucente, i larghi campi;
    mira il nocchier da questa riva e quella
    con qual purpureo piè la nebbia stampi
    e con qual penna d’or scriva e disegni
    le morti ai regi e le cadute ai regni:
    così mentrech’Amor dal ciel disceso
    scorrendo va la region più bassa,
    con la face impugnata e l’arco teso
    gran traccia di splendor dietro si lassa;
    d’un solco ardente e d’auree fiamme acceso
    riga intorno le nubi ovunque passa
    e trae per lunga linea in ogni loco
    striscia di luce, impression di foco.
    Su’l mar si cala, e sicom’ira il punge,
    sestesso aventa impetuoso a piombo;
    circonda i lidi quasi mergo e lunge
    fa del’ali stridenti udire il rombo;
    né grifagno falcon quando raggiunge
    col fiero artiglio il semplice colombo
    fassi lieto così, com’ei diventa
    quando il leggiadro Adon gli si presenta.
    Era Adon nel’età che la facella
    sente d’Amor più vigorosa e viva
    ed avea dispostezza ala novella
    acerbità degli anni intempestiva,
    né su le rose dela guancia bella
    alcun gemoglio ancor d’oro fioriva
    o, se pur vi spuntava ombra di pelo,
    era qual fiore in prato o stella in cielo.
    In bionde anella di fin or lucente
    tutto si torce e si rincrespa il crine;
    del’ampia fronte in maestà ridente
    sotto gli sorge il candido confine;
    un dolce minio, un dolce foco ardente,
    sparso tra vivo latte e vive brine,
    gli tinge il viso in quel rossor che suole
    prender la rosa infra l’aurora e’l sole.
    Ma chi ritrar del’un e l’altro ciglio
    può le due stelle lucide serene?
    chi dele dolci labra il bel vermiglio,
    che di vivi tesor son ricche e piene?
    o qual candor d’avorio o qual di giglio
    la gola pareggiar, ch’erge e sostiene,
    quasi colonna adamantina, accolto
    un ciel di meraviglie in quel bel volto?
    Qualor feroce e faretrato arciero
    di quadrella pungenti armato e carco,
    affronta o segue, inun leggiadro e fiero,
    o fere attende fuggitive al varco
    e in atto dolce cacciator guerriero
    saettando la morte incurva l’arco,
    somiglia intutto Amor, senon che solo
    mancano a farlo tale il velo e’l volo.
    Egli tanto tesoro in lui raccolto
    di natura e d’amor par ch’abbia a vile
    e cerca del bel ciglio e del bel volto
    turbar il sole, inorridir l’aprile,
    ma, minacci cruccioso o vada incolto,
    esser però non sa senon gentile
    e, rustico quantunque e sdegnosetto,
    convien pur ch’altrui piaccia a suo dispetto.
    Or mentre per l’arabiche foreste,
    dov’ei nacque e menò l’età primiera,
    l’orme seguia per quelle macchie e queste
    d’alcuna vaga e timidetta fera,
    errore il trasse, o pur destin celeste,
    dala terra deserta ala costiera,
    colà dove fa lido ala marina
    del lembo ultimo suo la Palestina.
    Giunto ala sacra e gloriosa riva
    che con boschi di palme illustra Idume,
    dietro una cerva lieve e fuggitiva
    stancando il piè, sicom’avea costume,
    trovò, di guardia e di governo priva,
    ritratta in secco appo le salse spume,
    da’ pescatori abbandonata e carca
    d’ogni arredo marin, picciola barca.
    Ed ecco varia d’abito e di volto
    strania donna venir vede per l’onde,
    ch’ha su la fronte il biondo crine accolto
    tutto in un globo e quel ch’è calvo asconde;
    vermiglio e bianco il vestimento sciolto
    con lieve tremolio l’aura confonde;
    lubrico è il lembo e quasi un aer vano,
    che sempre a chi lo stringe esce di mano.
    Nel’ampio grembo ha dela copia il corno
    e nela destra una volubil palla;
    fugge ratto sovente e fa ritorno
    per le liquide vie scherzando a galla;
    alato ha il piede e più leggiera intorno
    che foglia al vento si raggira e balla
    e, mentre move al ballo il piè veloce,
    in sì fatto cantar scioglie la voce:
    - Chi cerca in terra divenir beato,
    goder tesori e possedere imperi,
    stenda la destra in questo crine aurato,
    ma non indugi a cogliere i piaceri,
    ché, se si muta poi stagione e stato,
    perduto ben di racquistar non speri:
    così cangia tenor l’orbe rotante,
    nel’incostanza sua sempre costante. -
    Così cantava; indi, arrestando il canto,
    con lieto sguardo al bel garzone arrise,
    ed alo scoglio avicinata intanto
    spalmò quel legno e’n sul timon s’assise.
    - Adon, seguimi (disse) e vedrai quanto
    cortese stella al nascer tuo promise;
    prendi la treccia d’or che’n man ti porgo,
    né temer di venirne ov’io ti scorgo.
    Benché vulgare opinione antica
    mi stimi un idol falso, un’ombra vana
    e cieca e stolta e di virtù nemica
    m’appelli, instabil sempre e sempre insana
    e tiranna impotente altri mi dica
    vinta talor dala prudenza umana,
    pur son fata e son diva e son reina,
    m’ubbidisce natura, il ciel m’inchina.
    Chiunque Amore o Marte a seguir prende
    convien che’l nome mio celebri e chiami;
    chi solca l’acqua e chi la terra fende
    o s’alcun v’ha ch’onore e gloria brami,
    porge preghi al mio nume e voti appende
    ed io dispenso altrui scettri e reami;
    toglier posso e donar tutto ad un cenno
    e quanto è sotto il sol reggo a mio senno.
    Me dunque adora e’nsu l’eccelsa cima
    dela mia rota ascenderai di corto;
    per me nel trono, onde ti trasse in prima
    l’empio inganno materno, or sarai scorto;
    solché poi dove il fato or ti sublima
    sappi nel conservarti essere accorto,
    ché spesso suol con preveder periglio
    romper fortuna rea cauto consiglio. -
    Tace ciò detto ed egli, vago allora
    di costeggiar quel dilettoso loco,
    entra nel legno e del’angusta prora
    i duo remi a trattar prende per gioco.
    Ed ecco al sospirar d’agevol ora
    s’allontana l’arena a poco a poco,
    siché mentr’ei dal mar si volge ad essa
    par che navighi ancor la terra istessa.
    Scorrendo va piacevolmente il lido
    mentr’è placido e piano il molle argento
    e da principio, del suo patrio nido
    rade la riva a passo tardo e lento,
    indi al’instabil fè del flutto infido
    sestesso crede e si commette al vento
    lunge di là dov’a morir va l’onda
    e con roco latrar morde la sponda.
    Trasparean sì le belle spiagge ondose,
    che si potean del’umide spelonche
    nele profonde viscere arenose
    ad una ad una annoverar le conche.
    Zefiri destri al volo, Aure vezzose
    l’ali scotean: ma tosto lor fur tronche,
    il mar cangiossi, il ciel ruppe la fede:
    oh malcauto colui ch’ai venti crede.
    O stolto quanto industre, o troppo audace
    fabro primier del temerario legno,
    ch’osasti la tranquilla antica pace
    romper del crudo e procelloso regno;
    più ch’aspro scoglio e più che mar vorace
    rigido avesti il cor, fiero l’ingegno,
    quando sprezzando l’impeto marino
    gisti a sfidar la morte in fragil pino.
    Per far una leggiadra sua vendetta
    Amor fu solo autor di sì gran moto;
    Amor fu ch’a pugnar con tanta fretta
    trasse turbini e nembi, africo e noto.
    Ma dela stanca e misera barchetta
    fu sempr’egli il poppiero, egli il piloto;
    fece vela del vel, vento con l’ali,
    e fur l’arco timon, remi gli strali.
    Dala madre fuggendo iva il figliuolo
    quasi bandito e contumace intorno,
    perché, com’io dicea, vinto dal duolo,
    di fanciullesca stizza arse e di scorno.
    Né perché poscia il richiamasse, il volo
    fermar volse giamai né far ritorno
    e’n tal dispetto, in tant’orgoglio salse
    che di vezzo o pregar nulla gli calse.
    Per gli spazi sen gia del’aria molle
    scioccheggiando con l’Aure Amor volante
    e dettava talor rabbioso e folle
    tragiche rime a più d’un mesto amante;
    talor lungo un ruscello o sovra un colle
    piegava l’ali e raccogliea le piante
    e, dovunque ne giva, il superbetto
    rubava un core o trapassava un petto.
    - Non è questo lo stral possente e fiero
    ch’al rettor dele stelle il fianco offese?
    per cui più volte dal celeste impero
    l’aureo scettro deposto in terra scese?
    quel ch’al quinto del ciel nume guerriero
    spezzò, passò l’adamantino arnese?
    quel che punse in Tessaglia il biondo dio,
    superbo sprezzator del valor mio?
    Questa la face è pur cui sola adora,
    nonché la terra e’l ciel, Stige e Cocito,
    che strugger fè, che fè languir talora
    il signor dele fiamme incenerito,
    quella da cui non si difese ancora
    di Teti il freddo ed umido marito,
    che tra’ gelidi umori infiamma i fonti,
    tra l’ombre i boschi e tra le nevi i monti.
    Ed or costei, da cui con biasmo eterno
    mill’onte gravi io mi soffersi e tacqui,
    perché dee le mie forze aver a scherno,
    seben dal ventre suo concetto io nacqui?
    Dunque andrà da que’ lacci il cor materno
    libero, a cui, nonch’altri, anch’io soggiacqui?
    arse per Marte, è ver, ma questo è poco,
    lieve piaga fu quella e debil foco.
    Altro ardor più penace, altra ferita
    vo’ che più forte al cor senta pur anco.
    Si vedrà ch’ella istessa ha partorita
    la vipera crudel, che l’apre il fianco.
    Degg’io sempre onorar chi più m’irrita?
    forse per tema il mio valor vien manco?
    No no, segua che può... - Così dicea
    l’implacabil figliuol di Citerea.
    Mentre che quinci e quindi, or basso or alto
    vola e rivola il predator fellone,
    come prima lontan dal verde smalto
    vede in picciol legnetto il vago Adone,
    subitamente al disegnato assalto
    l’armi apparecchia e l’animo dispone
    e, tutto inteso a tribular la madre,
    vassene in Lenno ala magion del padre.
    Nela fuliginosa atra fucina
    dove il zoppo Vulcan, suo genitore,
    de’ numi eterni i vari arnesi affina
    tinto di fumo e molle di sudore,
    entra per fabricar tempra divina
    d’un aureo strale imperioso Amore,
    stral ch’efficace e penetrante e forte
    possa un petto immortal ferire a morte.
    Libero l’uscio al cieco arciero aperse
    la gran ferriera del divino artista,
    parte di già polite opre diverse,
    parte imperfette ancor, confusa e mista.
    Colà fan l’armi lampeggianti e terse
    del celeste guerrier superba vista,
    qui la folgor fiammeggia alata e rossa
    del gran fulminator d’Olimpo e d’Ossa.
    V’è di Pallade ancor lo scudo e l’asta,
    il rastello di Cerere e’l bidente,
    l’acuto spiedo di Diana casta,
    la grossa mazza d’Ercole possente,
    la falce, onde Saturno il tutto guasta,
    l’arco, ond’Apollo uccise il fier serpente,
    di Nettuno il trafiero e di Plutone
    con due punte d’acciaio havvi il forcone.
    Le trombe v’ha con cui volando suona
    la Fama e gli altrui fatti or biasma or loda;
    v’ha i ceppi, tra’ cui ferri Eolo imprigiona
    i venti insani e le tempeste inchioda;
    v’ha le catene, onde talor Bellona
    il Furor lega e la Discordia annoda;
    e v’ha le chiavi, ond’a dar pace o guerra
    Giano il gran tempio suo serra e disserra.
    Presso al focon di mille ordigni onusto
    travaglia il nero fabro entro la grotta.
    Più d’un callo ha la man forte e robusto,
    ale fatiche essercitata e dotta;
    ruginosa la fronte, il volto adusto,
    crespa la pelle ed abbronzata e cotta,
    sparso il grembial di mill’avanzi e mille
    di limature e ceneri e faville.
    Quand’egli scorge il nudo pargoletto,
    la forbice e’l martel lascia e sospende
    e curvo e chino entro il lanoso petto
    con un riso villan da terra il prende.
    Tra le ruvide braccia avinto e stretto
    l’ispido labro per baciarlo stende
    e la sudicia barba ed incomposta
    al molle viso e dilicato accosta.
    Ma mentre ch’egli l’accarezza e stringe,
    raccolto in braccio, con paterno zelo,
    Amor, perché baciando il punge e tinge,
    la faccia arretra dal’irsuto pelo
    e, con quel sozzo lin che’l sen gli cinge,
    per non macchiarsi di carbone il velo,
    al’aspra guancia d’una in altra ruga
    del’immondo sudor le stille asciuga.
    - Padre, dala tua man (poscia gli dice)
    voglio or or sovrafina una saetta,
    che fia de’ torti tuoi vendicatrice:
    lascia la cura a me dela vendetta.
    Il come appalesar né vo’ né lice,
    basti sol tanto, spacciati, ch’ho fretta;
    non porta indugio il caso, altro or non puoi
    da me saper, l’intenderai ben poi.
    Il quadrel ch’io ti cheggio esser conviene
    di perfetto artificio e ben condotto,
    ch’esserne fin nele più interne vene
    deve un petto divin forato e rotto.
    S’usò mai sforzo ad impiegarsi bene
    il tuo braccio, il tuo senno esperto e dotto,
    fa, prego, in cosa ov’hai tanto interesse,
    del gran saper le meraviglie espresse.
    Starò qui teco a ministrarti intento
    sotto la rocca del camin che fuma;
    accioché’l foco non rimanga spento,
    mantice ti farò del’aurea piuma
    e s’egli averrà pur che manchi il vento
    al folle che l’accende e che l’alluma,
    prometto accumular tra questi ardori
    in un soffio i sospir di mille cori. -
    Non pon Vulcano in quell’affar dimora,
    ma sceglie la miglior fra cento zolle,
    e pria che’nsu l’incudine sonora
    ei la castighi, al focolar la bolle;
    e non la batte e non la tratta ancora
    finché ben non rosseggia e non vien molle;
    divenuta poi tenera e vermiglia,
    con la morsa tenace ei la ripiglia.
    Amor presente ed assistente al’opra
    come l’abbia a temprar, come l’aguzzi
    gli mostra, accioché poi quando l’adopra
    non si rompa o si pieghi o si rintuzzi
    e di sua propria man vi sparge sopra
    del’umor d’un’ampolla alquanti spruzzi,
    piena di stille di dogliosi pianti
    di sfortunati e desperati amanti.
    Mentr’è caldo il metallo, i tre fratelli
    ch’un sol occhio hanno in fronte e son giganti,
    con vicende di tuoni i gran martelli
    movono a grandinar botte pesanti
    e’l dotto mastro al martellar di quelli,
    che fan tremar le volte arse e fumanti,
    per dar effetto a quel ch’ha nel disegno,
    pon gli stromenti in opera e l’ingegno.
    Tosto che’l ferro è raffreddato, in prima
    sbozza il suo lavorìo rozzo ed informe,
    poi, sotto più sottil minuta lima,
    con industria maggior gli dà le forme;
    l’arrota intorno e lo forbisce in cima,
    applicando al pensier studio conforme;
    col foco alfin l’indora e col mordente
    e fa l’acciaio e l’or terso e lucente.
    Poiché l’egregio artefice alo strale
    pertutto il liscio e’l lustro ha dato apieno,
    n’arma il fanciullo un’asticciuola frale,
    ma che trafige ogni più duro seno;
    gl’impenna il calce di due picciol ale
    e’l tinge di dolcissimo veleno
    e, tutto pien d’una superbia stolta,
    pon la caverna e i lavoranti in volta.
    Va dela dea che generaro i flutti
    il baldanzoso e temerario figlio
    spiando intorno e i ferramenti tutti
    dela scola fabril mette in scompiglio;
    or de’ ciclopi mostruosi e brutti
    la difforme pupilla e’l vasto ciglio,
    or il corto tallon del piè paterno
    prende con risi e con disprezzi a scherno.
    Veggendo alternamente arsicci e neri
    pestar ferro con ferro i tre gran mostri
    - Troppo son (dice) deboli e leggieri
    a librar le percosse i polsi vostri;
    omai con colpi assai più forti e fieri
    questa mano a ferir v’insegni e mostri;
    impari ognun dala mia man, che spezza
    qualunque di diamante aspra durezza. -
    Volto a colui, ch’ha fabricato il telo
    soggiunge poscia: - In questa tua fornace
    le fiamme son più gelide che gelo,
    altro ardor più cocente ha la mia face. -
    Tolto indi in mano il fulmine del cielo
    e sciolto il freno al’insolenza audace,
    in cotal guisa, mentre il vibra e move,
    prende le forze a beffeggiar di Giove:
    - Deh quanto, o tonator, che dale stelle
    fai sdegnoso scoppiar le nubi orrende,
    più dela tua, ch’a spaventar Babelle
    dal ciel con fiero strepito discende,
    atta sola a domar genti rubelle
    senza romor la mia saetta offende;
    tu de’ monti, io de’ cori abbiam le palme,
    l’una fulmina i corpi e l’altra l’alme. -
    Depon l’arme tonante e ricercando
    di qua di là l’affumigato albergo,
    trova di Marte il minaccioso brando,
    il fin brocchier, l’avantaggiato usbergo.
    - Or la prova vedrem (dice scherzando)
    s’a difender son buoni il fianco e’l tergo. -
    Lo strale in questa uscir dal’arco lassa,
    falsa lo scudo e la lorica passa.
    Di sì fatte follie sorridea seco
    lo dio distorto, che’l mirava intanto.
    - Tu ridi (disse il faretrato cieco)
    né sai che l’altrui riso io cangio in pianto,
    e più che la fumea di questo speco,
    farti d’angoscia lagrimar mi vanto. -
    Ciò detto al gran Nettun vola leggiero,
    che nel mondo del’acque ha sommo impero.
    Velocemente a Tenaro sen viene,
    e l’aria scossa al suo volar fiammeggia.
    Abitator dele più basse arene
    quivi ha Nettun la cristallina reggia,
    che dal’umor, di cui le sponde ha piene,
    battuta sempre e flagellata ondeggia.
    Rende dagli antri cavi eco profonda
    rauco muggito alo sferzar del’onda.
    Al’arrivo d’Amor da’ cupi fonti
    sgorga e crespo di spuma il mar s’imbianca,
    quinci e quindi gli estremi in duo gran monti
    sospende e in mezzo si divide e manca,
    e, scoverti del fondo asciutti i ponti,
    del gran palagio i cardini spalanca.
    Passa ei nel regno ove la madre nacque,
    patria de’ pesci e region del’acque.
    Passa e sen va tra l’una e l’altra roccia
    quasi per stretta e discoscesa valle.
    L’onda nol bagna e il mar, nonché gli noccia,
    ritira indietro il piè, volge le spalle.
    Filano acuto gelo a goccia a goccia
    ambe le rupi del profondo calle,
    e tra questo e quell’argine pendente
    apena ei scorger può l’aria lucente.
    Né già mentre varcava i calli ondosi
    la faretra o la face in ozio tenne,
    ma con acuti stimoli amorosi
    faville e piaghe a seminar vi venne;
    e là dove, del’acqua augei squamosi,
    spiegano i pesci l’argentate penne,
    tra gl’infiniti esserciti guizzanti
    sparse mill’esche di sospiri e pianti.
    Strana di quella casa è la struttura,
    strano il lavoro e strano è l’ornamento;
    ha di ruvide pomici le mura
    e di tenere spugne il pavimento;
    di lubrico zaffiro è la scultura,
    dela scala maggior l’uscio è d’argento,
    variato di pietre e di cocchiglie
    azzurre e verdi e candide e vermiglie.
    Nel’antro istesso è la magion di Teti
    e gran famiglia di Nereidi ha seco,
    che’n vari uffici ed essercizi lieti
    occupate si stan nel cavo speco.
    Queste con passi incogniti e secreti
    e per sentier caliginoso e cieco
    van, del’arida terra irrigatrici,
    a nutrir piante e fiori, erbe e radici.
    Intorno e dentro al’umida spelonca
    chi danzando di lor le piante vibra,
    chi sceglie o gemma in sabbia o perla in conca,
    chi fila l’oro e chi l’affina e cribra;
    qual de’ germi purpurei i rami tronca,
    qual degli ostri sanguigni i pesi libra
    e sotto il piè d’Amor v’ha molte ninfe
    che van di musco ad infiorar le linfe.
    Belle son tutte sì, ma differenti,
    altra ceruleo ed altra ha verde il crine,
    altra l’accoglie, altra lo scioglie ai venti,
    altra intrecciando il va d’alghe marine;
    e di manti diafani e lucenti
    velan le membra pure e cristalline;
    simili al viso ed agili e leggiadre
    mostran che figlie son d’un stesso padre.
    Pasce Proteo pastor mandra di foche,
    orche, pistri, balene ed altri mostri,
    dele cui voci mormoranti e roche
    fremon pertutto i cavernosi chiostri;
    e le guarda e le conta e non son poche,
    e scagliose han le terga e curvi i rostri;
    glauchi ha gli occhi lo dio, cilestro il volto,
    e di teneri giunchi il crine involto.
    Giunto ala vasta e spaziosa corte
    stupisce Amor da tuttiquanti i lati,
    poiché per cento vie, per cento porte
    cento vi scorge entrar fiumi onorati,
    che quindi poi con piante oblique e torte
    tornan per invisibili meati
    fuor del gran sen, che gli concepe e serra,
    con chiare vene ad innaffiar la terra.
    Vede l’Eufrate divisor del mondo,
    che i bei cristalli suoi rompendo piange.
    Vede l’original fonte profondo
    del Nil che’l mar con sette bocche frange
    e vede in letto rilucente e biondo
    del più fino metal corcarsi il Gange,
    il Gange onde trae l’or, di cui si suole
    vestir quand’esce insu’l mattino il sole.
    Vede pallido il Tago insu la riva
    non men ricchi sputar vomiti d’oro
    e trar groppi di gel nel’onda viva
    il Reno e l’Istro e’l Rodano sonoro;
    di salce il Mincio, l’Adige d’oliva,
    l’Arno alpar del Peneo cinto d’alloro,
    di pampini il Meandro e d’edre l’Ebro
    e d’auree palme incoronato il Tebro.
    Vede di verdi pioppe ombrar le corna
    l’Eridano superbo e trionfale,
    ch’ove il rettor del pelago soggiorna
    vien dal’Alpi a votar l’urna reale
    e mercé de’ suoi duci il ciglio adorna
    di splendor glorïoso ed immortale,
    onde quel ch’è nel ciel, di lume agguaglia
    e con fronte di luna il sole abbaglia.
    Poi di grido minor ne vede molti
    che con rami divisi in varie parti
    per l’Italia felice errano sciolti,
    del gran padre Appennin concetti e parti
    e, quai di canna e quai di mirto avolti
    le tempie e quai di rosa ornati e sparti,
    somministran con l’acque in lunga schiera
    sempiterno alimento a primavera.
    Tra questi, umil figliuol del bel Tirreno,
    il mio Sebeto ancor l’acque confonde,
    picciolo sì, ma di delizie pieno,
    quanto ricco d’onor, povero d’onde.
    - Giriti intorno il ciel sempre sereno,
    né sfiori aspra stagion le belle sponde,
    né mai la luce del tuo vivo argento
    turbi con sozzo piè fetido armento.
    Giacque in te la Sirena e per te poi
    sorger virtute e fiorir gloria io veggio,
    trono di Giove e di pregiati eroi
    felice albergo e fortunato seggio;
    dolce mio porto, agli abitanti tuoi,
    ne’ cui petti ho il mio nido, eterno io deggio.
    Padre di cigni e lor ricovro eletto,
    e de’ fratelli miei fido ricetto. -
    Con questi encomi affettuosi Amore
    del patrio fiume mio le lodi spande,
    che’l riconosce al limpido splendore
    che fra mill’altri è segnalato e grande
    e de’ cedri fioriti al grato odore
    di cui s’intesse al crin verdi ghirlande.
    Intanto nela gelida caverna,
    dove siede Nettuno, i passi interna.
    Seggio di terso oriental cristallo
    preme de’ flutti il regnator canuto,
    che da colonne d’oro e di corallo
    con basi di diamante è sostenuto.
    E chi d’una testudine a cavallo
    chi d’un delfin, chi d’un vitel cornuto,
    cento altri dei minor, numi vulgari,
    cedono a lui la monarchia de’ mari.
    - Non pensar che per ira (Amor gli disse)
    gran padre dele cose a te ne vegna,
    ché non può dio di pace amar le risse
    e nel petto d’Amore odio non regna;
    ma perché novamente il ciel prefisse
    impresa al’arco mio nobile e degna,
    per render l’opra agevole e spedita
    di cortese favor ti cheggio aita.
    Tu vedi là, dove di Siria siede
    la spiaggia estrema che col mar confina,
    vago fanciul del mio bel regno erede
    col remo essercitar l’onda marina.
    Questo, che di bellezza ogni altro eccede,
    ala mia bella madre il ciel destina,
    onde frutto uscir dee di beltà tanta
    che fia simile intutto ala sua pianta.
    Se deriva da te l’origin mia,
    s’a chi mi generò desti la cuna,
    se’l tuo desir, quando d’amor languìa,
    ottenne unqua da me dolcezza alcuna,
    accioch’io possa per più facil via
    condurlo a posseder tanta fortuna,
    mercé di quanto feci o a far mi resta
    siami nel regno tuo breve tempesta.
    Di questa immensa tua liquida sfera
    turbar la bella e placida quiete
    piacciati tanto sol, ch’innanzi sera,
    venga Adone a cader nela mia rete;
    e fia tutto a suo pro, perché non pera
    sì ricca merce in malsecuro abete,
    il cui navigio con incerta legge
    più’l timor che’l timon governa e regge.
    Sai che quando Ciprigna in novi amori
    occupata non è, com’ha per uso,
    usurpando a Minerva i suoi lavori
    non sa senon trattar la spola o’l fuso,
    onde inutil letargo opprime i cori,
    torpe spento il mio foco, il dardo ottuso,
    manca il seme ala vita ed infecondo
    a rischio va di spopolarsi il mondo.
    Oltre queste cagion, per cui devrei
    impetrar qualch’effetto ale mie voci,
    dee l’util proprio almeno a’ preghi miei
    far più le voglie tue pronte e veloci:
    da questi felicissimi imenei
    corteggiata da mille e mille proci,
    Beroe uscirà, che più d’ogni altra bella
    fia dele Grazie l’ultima sorella.
    Costei, sicome mi mostraro in cielo
    l’adamantine tavole immortali,
    dove nel cerchio del signor di Delo
    Giove scolpì gli oracoli fatali,
    concede al re del liquefatto gelo
    l’alto tenor di quegli eterni annali,
    perché venga a scaldar col dolce lume
    del freddo letto tuo l’umide piume.
    Ma quando ancor da quel ch’ivi scolpio
    chi move il tutto, il fato altro volgesse,
    seben di Tebe il giovinetto dio
    fia tuo rival nele bellezze istesse,
    a dispetto del ciel tel promett’io,
    scritte in diamante sien le mie promesse.
    Io, che Giove o destin punto non curo,
    per l’acque sacre e per mestesso il giuro. -
    Così parlava e’l re del’onde intanto
    a lui si volse con tranquilla faccia:
    - O domatore indomito di quanto
    il ciel circonda e l’oceano abbraccia,
    a chi può dar altrui letizia e pianto
    ragion è ben ch’apieno or si compiaccia:
    spendi comunque vuoi quanto poss’io,
    pende dal cenno tuo l’arbitrio mio.
    E qual’onda fia mai, ch’a tuo talento
    qui non si renda o torbida o tranquilla,
    s’ardon nel molle e mobile elemento
    per Cimotoe Triton, Glauco per Scilla?
    Come fia tardo ad ubbidirti il vento
    se’l re de’ venti ancor per te sfavilla
    e ricettan l’ardor ne’ freddi cori
    Borea d’Orizia e Zefiro di Clori?
    Tu virtù somma de’ superni giri,
    dispensier dele gioie e de’ piaceri,
    imperador de’ nobili desiri,
    illustrator de’ torbidi pensieri,
    dolce requie de’ pianti e de’ sospiri,
    dolce union de’ cori e de’ voleri,
    da cui natura trae gli ordini suoi,
    dio dele meraviglie e che non puoi?
    Sicome tanti qui fiumi che vedi,
    del mio reame tributari sono,
    così, signor che l’anime possiedi,
    tributario son io del tuo gran trono.
    Onde a quant’oggi brami e quanto chiedi
    da questo scettro a te devoto in dono,
    o gioia, o vita universal del mondo,
    altro che l’esseguir più non rispondo. -
    Così dice Nettuno e così detto
    crolla l’asta trisulca e’l mar scoscende.
    D’alpi spumose oltre il ceruleo letto
    cumulo vasto inver le stelle ascende;
    urtansi i venti in minaccioso aspetto,
    dele concave nubi anime orrende
    e par che rotto o distemprato in gelo
    voglia nel mar precipitare il cielo.
    Borea d’aspra tenzon tromba guerriera
    sfida il turbo a battaglia e la procella;
    curva l’arco dipinto Iride arciera,
    e scocca lampi in vece di quadrella;
    vibra la spada sanguinosa e fiera
    il superbo Orion, torbida stella
    e’l ciel minaccia ed ale nubi piene
    d’acqua insieme e di foco apre le vene.
    Fuor del confin prescritto in alto poggia
    tumido il mar di gran superbia e cresce;
    ruinosa nel mar scende la pioggia,
    il mar col cielo, il ciel col mar si mesce;
    in novo stile, in disusata foggia,
    l’augello il nuoto impara, il volo il pesce;
    oppongonsi elementi ad elementi,
    nubi a nubi, acque ad acque e venti a venti.
    Potè, tant’alto quasi il flutto sorse,
    la sua sete ammorzar la cagna estiva
    e di nova tempesta a rischio corse,
    non ben secura in ciel, la nave argiva.
    E voi fuor d’ogni legge, o gelid’orse,
    malgrado ancor dela gelosa diva,
    nel mar vietato i luminosi velli
    lavaste pur dele stellate pelli.
    Deh che farai dal patrio suol lontano,
    misero Adone, a navigar mal atto?
    vaghezza pueril tanto pian piano
    il mal guidato palischelmo ha tratto,
    che la terra natia sospiri invano,
    dal gran rischio confuso e sovrafatto.
    Tardi ti penti e sbigottito e smorto
    omai cominci a desperar del porto.
    Già già convien che il timido nocchiero
    al’arbitrio del caso s’abbandoni;
    fremono per lo ciel torbido e nero
    fra baleni ondeggianti i rauchi tuoni
    e tuona anch’egli il re del’acque altero,
    ch’a suon d’austri soffianti e d’aquiloni,
    col fulmine dentato, emulo a Giove,
    tormentando la terra, il mar commove.
    Corre la navicella e ratta e lieve
    la corrente del mar seco la porta;
    piega l’orlo talvolta e l’onda beve,
    assai vicina a rimanerne absorta;
    più pallido e più gelido che neve
    volgesi Adon, né scorge più la scorta
    e di morte sì vasta il fiero aspetto
    confonde gli occhi suoi, spaventa il petto.
    Ma mentre privo di terreno aiuto
    l’agitato battel vacilla ed erra,
    ambo i fianchi sdruscito e combattuto
    da quell’ondosa e tempestosa guerra,
    quando il fanciul più si tenea perduto,
    ecco rapidamente approda in terra
    e, tra’ giunchi palustri insu l’arena
    vomitato dal’acque, il corso affrena.
    Oltre l’Egeo, là donde spunta in prima
    il pianeta maggior che’l dì rimena,
    sotto benigno e temperato clima
    stende le falde un’isoletta amena.
    Quindi il superbo Tauro erge la cima,
    quinci il famoso Nil fende l’arena;
    ha Rodo incontro e di Soria vicini
    e di Cilicia i fertili confini.
    Questa è la terra ch’ala dea, che nacque
    dal’onde con miracolo novello,
    tanto fu cara un tempo e tanto piacque,
    che, disprezzato il suo divino ostello,
    qui sovente godea fra l’ombre e l’acque
    con invidia del’altro un ciel più bello
    e v’ebbe eretto, al’immortale essempio
    dela sua diva imago, altare e tempio.
    Scende quivi il garzon salvo al’asciutto,
    ma pur dubbioso e di suo stato incerto,
    ch’ancor gli par del’orgoglioso flutto
    veder l’abisso orribilmente aperto.
    Volgesi intorno e scorge esser pertutto,
    circondato dal mar, bosco e deserto,
    ma quella solitudine che vede,
    gioconda è sì, ch’altro piacer non chiede.
    Quivi si spiega in un sereno eterno
    l’aria in ogni stagion tepida e pura,
    cui nel più fosco e più cruccioso verno
    pioggia non turba mai, né turbo oscura,
    ma, prendendo dipar l’ingiurie a scherno
    del gelo estremo e del’estrema arsura,
    lieto vi ride né mai varia stile
    un sempreverde e giovinetto aprile.
    I discordi animali in pace accoppia
    Amor, né l’un dal’altro offeso geme;
    va con l’aquila il cigno in una coppia,
    va col falcon la tortorella insieme,
    né dela volpe insidiosa e doppia
    il semplicetto pollo inganno teme;
    fede al’amica agnella il lupo osserva,
    e secura col veltro erra la cerva.
    Da’ molli campi, i cui bennati fiori
    nutre di puro umor vena vivace,
    dolce confusion di mille odori
    sparge e’nvola volando aura predace:
    aura, che non pur là con lievi errori
    suol tra’ rami scherzar spirto fugace,
    ma per gran tratto d’acque anco da lunge
    peregrinando i naviganti aggiunge.
    Va oltre Adone e Filomena e Progne
    garrir ode pertutto ovunque vanne
    e di stridule pive e rauche brogne
    sonar foreste e risonar cappanne
    di villane sordine e di sampogne,
    di boscherecci zuffoli e di canne
    e, con alterno suon, da tutti i lati
    doppiar muggiti e replicar balati.
    Solitario garzon posarsi stanco
    vede al’ombra d’un lauro in rozza pietra;
    ha l’arco a’ piedi e gli attraversa il fianco
    d’un bel cuoio linceo strania faretra;
    veste pur di cerviero a negro e bianco
    macchiata spoglia e tiene in man la cetra;
    dolce con questa al mugolar de’ tori
    accorda il suon de’ suoi selvaggi amori.
    Di dorato coturno ha il piè vestito,
    eburneo corno a verde fascia appende;
    ride il labro vivace e colorito,
    sereno lampo il placid’occhio accende;
    ha fiorita la guancia, il crin fiorito
    e fiorita è l’età che bello il rende;
    tutto in somma di fiori è sparso e pieno,
    fior la man, fior la chioma e fiori il seno.
    Formidabil mastin dal destro lato
    in un groppo giacer presso gli scorse,
    che con rabbioso ed orrido latrato
    quando il vide apparir contro gli corse.
    Ma posto il plettro insu l’erboso prato
    il cortese villan subito sorse,
    e l’indomito can, perché ristesse,
    fugò col grido e col baston corresse.
    Ubbidisce il superbo, a piè gli piega
    l’irsuta testa e l’irta coda abbassa;
    quegli ala gola intorno allor gli lega
    con tenace cordon serica lassa;
    poscia il real donzello invita e prega
    ch’oltre vada securo: ed egli passa.
    Passa colà, dove raccoglie umile
    famiglia pastoral rustico ovile.
    Stassene alcun su le fiorite rive
    d’una sorgente cristallina e fresca;
    altri per l’elci folte al’ombre estive
    i vaghi augelli insidioso invesca;
    altri ne’ verdi faggi intaglia e scrive
    d’amor tutto soletto il foco e l’esca;
    altri rintraccia di sua ninfa l’orme,
    altri salta, altri siede ed altri dorme.
    Quei con versi d’amor l’aure addolcisce
    al sussurrar de’ lubrici cristalli;
    questi al tauro, al monton, che gli ubbidisce,
    insegna al suon dela siringa i balli;
    qual fiscelle d’ibisco e qual ordisce
    serti di fiori o purpurini o gialli;
    chi torce al’agne le feconde poppe,
    chi di latte empie i giunchi e chi le coppe.
    Col bel fanciullo, ove grand’ombra stende
    pergolato di mirti, il pastor siede.
    Quivi Adon sue fortune a narrar prende,
    dela contrada e di lui stesso chiede.
    L’un gli risponde e l’altro intanto pende
    dal parlar, che d’amore il cor gli fiede.
    - Strani (gli dice) oltr’ogni creder quasi,
    peregrino gentil, sono i tuoi casi!
    Ma cangiar patria omai, deh! non ti spiaccia
    con sì bel loco e rasserena il ciglio,
    ché se pur, come mostri, ami la caccia,
    qui fere avrai senz’ira e senz’artiglio.
    Né creder vo’ che’ndarno il ciel ti faccia
    campar da tanto e sì mortal periglio
    o senz’alta cagion per via sì lunga
    perduto legno a queste rive giunga.
    Così compia i tuoi voti amico cielo
    e secondi i desir destra fortuna,
    come, fra quanti col suo piè di gelo
    paesi inferior scorre la luna,
    non potea più conforme a sì bel velo
    terra trovarsi o regione alcuna.
    Certo con lei, che con Amor qui regna,
    sol di regnar tanta bellezza è degna.
    L’isola, dove sei, Cipro s’appella,
    che del mar di Panfilia in mezzo è posta;
    la gran reggia d’Amor, vedila, è quella
    ch’io là t’addito inver la destra costa,
    né, se non quanto il vuol la dea più bella,
    colà giamai profano piè s’accosta.
    Scender di ciel qui spesso ella ha per uso;
    in altro tempo il ricco albergo è chiuso.
    V’ha poi templi ed altari, havvi Amor seco,
    simulacri, olocausti e sacerdoti,
    dove, in segno d’onor, del popol greco
    pendono affissi in lunga serie i voti.
    Offrono al nume faretrato e cieco
    vittime elette i supplici devoti
    e gli spargono ognor, tra roghi e lumi,
    di ghirlande e d’incensi odori e fumi.
    Qui per elezzion, non per ventura,
    già di Liguria ad abitar venn’io;
    pasco per l’odorifera verdura
    i bianchi armenti, e Clizio è il nome mio;
    del suo bel parco la custodia in cura
    diemmi la madre del’alato dio,
    dov’entrar, fuorch’a Venere, non lice,
    ed ala dea selvaggia e cacciatrice.
    Trovato ho in queste selve ai flutti amari
    d’ogni umano travaglio il vero porto;
    qui dale guerre de’ civili affari
    quasi in securo asilo, il ciel m’ha scorto;
    serici drappi non mi fur sì cari
    come l’arnese ruvido ch’io porto
    ed arno meglio le spelonche e i prati,
    che le logge marmoree e i palchi aurati.
    Oh quanto qui più volentieri ascolto
    i sussurri del’acque e dele fronde,
    che quei del foro strepitoso e stolto
    che il fremito vulgar rauco confonde!
    Un’erba, un pomo e di fortuna un volto
    quanto più di quiete in sé nasconde
    di quel ch’avaro principe dispensa
    sudato pane in malcondita mensa.
    Questa felice e semplicetta gente
    che qui meco si spazia e si trastulla,
    gode quel ben che tenero e nascente
    ebbe a goder sì poco il mondo in culla:
    lecita libertà, vita innocente,
    appo’l cui basso stato il regio è nulla,
    ché sprezzare i tesor né curar l’oro,
    questo è secolo d’or, questo è tesoro.
    Non cibo o pasto prezioso e lauto
    il mio povero desco orna e compone;
    or damma errante, or cavriuolo incauto
    l’empie, or frutto maturo in sua stagione;
    detto talora a suon d’avena o flauto
    ai discepoli boschi umil canzone;
    serva no, ma compagna amo la greggia;
    questa mandra malculta è la mia reggia.
    Lunge da’ fasti ambiziosi e vani
    m’è scettro il mio baston, porpora il vello,
    ambrosia il latte, a cui le proprie mani
    scusano coppa e nettare il ruscello;
    son ministri i bifolci, amici i cani,
    sergente il toro e cortigian l’agnello,
    musici gli augelletti e l’aure e l’onde,
    piume l’erbette e padiglion le fronde.
    Cede a quest’ombre ogni più chiara luce,
    ai lor silenzi i più canori accenti;
    ostro qui non fiammeggia, or non riluce,
    di cui sangue e pallor son gli ornamenti;
    se non bastano i fior che’l suol produce,
    di più bell’ostro e più bell’or lucenti,
    con sereno splendor spiegar vi suole
    pompe d’ostro l’aurora e d’oro il sole.
    Altro mormorator non è che s’oda
    qui mormorar che’l mormorio del rivo;
    adulator non mi lusinga o loda
    fuorché lo specchio suo limpido e vivo;
    livida invidia, ch’altrui strugga e roda,
    loco non v’ha, poich’ogni cor n’è schivo,
    senon sol quanto in questi rami e’n quelli
    gareggiano tra lor gli emuli augelli.
    Hanno colà tra mille insidie in corte
    Tradimento e Calunnia albergo e sede,
    dal cui morso crudel trafitta a morte
    è l’Innocenza e lacera la Fede;
    qui non regna Perfidia e, se per sorte,
    picciol’ape talor ti punge e fiede,
    fiede senza veleno e le ferite
    con usure di mel son risarcite.
    Non sugge qui crudo tiranno il sangue,
    ma discreto bifolco il latte coglie;
    non mano avara al poverello essangue
    la pelle scarna o le sostanze toglie;
    solo al’agnel, che non però ne langue,
    havvi chi tonde le lanose spoglie;
    punge stimulo acuto il fianco a’ buoi,
    non desire immodesto il petto a noi.
    Non si tratta fra noi del fiero Marte
    sanguinoso e mortal ferro pungente,
    ma di Cerere sì, la cui bell’arte
    sostien la vita, il vomere e’l bidente,
    né mai di guerra in questa o in quella parte
    furore insano o strepito si sente,
    salvo di quella che talor fra loro
    fan con cozzi amorosi il capro e’l toro.
    Con lancia o brando mai non si contrasta
    in queste beatissime contrade;
    sol di Bacco talor si vibra l’asta,
    onde vino e non sangue in terra cade;
    sol quel presidio ai nostri campi basta
    di tenerelle e verdeggianti spade
    che, nate là su le vicine sponde,
    stansi tremando a guerreggiar con l’onde.
    Borea con soffi orribili ben pote
    crollar la selva e batter la foresta:
    pacifici pensier non turba o scote
    di cure vigilanti aspra tempesta.
    E se Giove talor fiacca e percote
    del’alte querce la superba testa,
    in noi non avien mai che scocchi o mandi
    fulmini di furor l’ira de’ grandi.
    Così tra verdi e solitari boschi
    consolati ne meno i giorni e gli anni;
    quel sol, che scaccia i tristi orrori e foschi,
    serena anco i pensier, sgombra gli affanni;
    non temo o d’orso o d’angue artigli o toschi,
    non di rapace lupo insidie o danni,
    ché non nutre il terren fere o serpenti,
    o se ne nutre pur, sono innocenti.
    Se cosa è che talor turbi ed annoi
    i miei riposi placidi e tranquilli,
    altri non è ch’amor. Lasso, dapoi
    che mi giunse a veder la bella Filli,
    per lei languisco e sol per gli occhi suoi
    convien che quant’io viva arda e sfavilli
    e vo’ che chiuda una medesma fossa
    del foco insieme il cenere e del’ossa.
    Ma così son d’amor dolci gli strali,
    sì la sua fiamma e la catena è lieve,
    che mille strazi rigidi e mortali
    non vagliono un piacer che si riceve.
    Anzi pur vaga de’ suoi propri mali
    conosciuto velen l’anima beve
    e’n quegli occhi ov’alberga il suo dolore,
    volontaria prigion procaccia il core.
    Curi dunque chi vuol delizie ed agi,
    io sol piacer di villa apprezzo ed amo;
    co’ tuguri cangiar voglio i palagi,
    altro tesor che povertà non bramo;
    sazio de’ vezzi perfidi e malvagi,
    ch’han sotto l’esca dolce amaro l’amo,
    qui sol quella ottener gioia mi giova
    che ciascun va cercando e nessun trova.
    Non ti meravigliar che la selvaggia
    vita tanto da me pregiata sia,
    ch’ancor di Giano insu la patria spiaggia
    ne cantai già con rustica armonia;
    onde vanto immortal d’arguta e saggia
    concesse Apollo ala sampogna mia,
    de’ cui versi lodati in Elicona
    il ligustico mar tutto risona. -
    Del maestro d’amor gli amori ascolta
    stupido Adone ed a’ bei detti intento.
    Colui, poich’affrenò la lingua sciolta,
    fè da’ rozzi valletti in un momento
    recar copia di cibi, a cui la molta
    fame accrebbe sapore e condimento;
    mel di diletto e nettare d’amore,
    soave al gusto e velenoso al core;
    né mai di loto abominabil frutto
    di secreta possanza ebbe cotanto,
    né fu giamai con tal virtù costrutto
    di bevanda circea magico incanto,
    che non perdesse e non cedesse intutto
    al pasto del pastor la forza e’l vanto:
    licore insidioso, esca fallace,
    dolce velen ch’uccide e non dispiace.
    Nel giardin del Piacer le poma colse
    Clizio amoroso e quindi il vino espresse,
    ond’ebro in seno il giovinetto accolse
    fiamme sottili, indi s’accese in esse.
    Non però le conobbe e non si dolse,
    ché, finch’uopo non fu, giacquer soppresse,
    qual serpe ascosa in agghiacciata falda,
    che non prende vigor se non si scalda.
    Sente un novo desir ch’al cor gli scende
    e serpendo gli va per entro il petto;
    ama né sa d’amar, né ben intende
    quel suo dolce d’amor non noto affetto;
    ben crede e vuole amar, ma non comprende
    qual esser deggia poi l’amato oggetto
    e pria si sente incenerito il core
    che s’accorga il suo male essere amore.
    Amor ch’alzò la vela e mosse i remi
    quando pria tragittollo al bel paese,
    va sotto l’ali fomentando i semi
    dela fiamma ch’ancor non è palese.
    Fa su la mensa intanto addur gli estremi
    dela vivanda il contadin cortese;
    Adon solve il digiuno e i vasi liba,
    e quei segue il parlar mentr’ei si ciba
    - Signor, tu vedi il sol ch’aventa i rai
    di mezzo l’arco, onde saetta il giorno;
    però qui riposar meco potrai
    tanto che’l novo dì faccia ritorno.
    Ben da sincero cor, prometto, avrai
    in albergo villan lieto soggiorno;
    avrai con parca mensa e rozzo letto
    accoglienze cortesi e puro affetto.
    Tosto che sussurrar tra’l mirto e’l faggio
    io sentirò l’auretta mattutina,
    teco risorgerò per far passaggio
    ala casa d’Amor ch’è qui vicina.
    Tu poi quindi prendendo altro viaggio,
    potrai forse saldar l’alta ruina,
    conosciuto che sii l’unico e vero
    successor dela reggia e del’impero. -
    Benché non tema il folgorar del sole,
    tra fatiche e disagi Adon nutrito,
    di quell’oste gentil non però vole
    sprezzar l’offerta o ricusar l’invito.
    Risposto al grato dir grate parole,
    quivi di dimorar prende partito
    e ringrazia il destin che, lasso e rotto,
    a sì cara magion l’abbia condotto.
    Sceso intanto nel mar Febo a corcarsi
    lasciò le piagge scolorite e meste
    e, pascendo i destrier fumanti ed arsi
    nel presepe del ciel biada celeste,
    di sudore e di foco umidi e sparsi
    nel vicino Ocean lavar le teste;
    e l’un e l’altro sol stanco si giacque,
    Adon tra’ fiori, Apollo in grembo al’acque.




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