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    Giovanni Pascoli

    Il cieco di Chio

    O Deliàs, o gracile rampollo
    di palma, ai piedi sorto su del Cyntho,
    alla corrente del canoro Inopo;
    figlia di Palma; di qual dono io mai
    posso bearti il giovanetto cuore?
    Ché all’invito de’ giovani scotendo
    gl’indifferenti riccioli del capo,
    gioia t’hai fatto del vegliardo grigio
    cui poter falla e desiderio avanza.
    E lui su le tue lievi orme adducevi
    all’opaca radura ed al giaciglio
    delle stridule foglie, in mezzo ai pini
    sonanti un fresco brulichìo di pioggia
    presso la salsa musica del mare.
    Nè già la bianca tua beltà celasti
    a gli occhi della sua memore mano:
    non vista ad altri, che a lui cieco e, forse,
    al solitario tacito alcïone.

    O Deliàs, e già finì la gara
    de’ tunicati Iàoni: già tace
    il vostro coro, grande meraviglia,
    in cui nessuna di te meglio scosse
    i procellosi crotali d’argento.
    Ed il nocchiero su la nave nera
    l’albero drizza, ed in su trae le pietre,
    le gravi pietre su cui dondolando
    dorme la nave nel loquace porto.
    Ora un nocchiero addimandai: Nocchiero,
    vago per l’onde come smergo ombroso,
    dài ch’alla nave il pio cantore ascenda?
    cieco uomo, e vive nella scabra Chio.
    Così te veda un ospite all’approdo.
    Tanto io gli dissi. Egli assentì; chè grande
    è del cantore, ben che nudo e cieco,
    la grazia in uno ardor di venti, in una
    ai cuori alati ritrosia di calma.

    E di qual dono, o Deliàs, partendo,
    né so per dove, su la nave nera,
    posso bearti il giovanetto cuore?
    Chè non possiedo, fuor della bisaccia
    lacera, nulla, e dell’eburnea cetra.
    E il canto, industre che pur sia, non m’offre
    se non un colmo calice ed un tocco
    di pingue verro e, terminato il canto,
    una lunga nel cuore eco di gioia.
    Io cieco vo lungo l’alterna voce
    del grigio mare; sotto un pino io dormo,
    dai pomi avari: se non se talora
    m’annunzïò, per luoghi soli, stalle
    di mandrïani un subito latrato;
    o, mentre erravo tra la neve e il vento,
    la vampa da un aperto uscio improvvisa
    nella sua casa mi svelò la donna
    che fila nel chiaror del focolare.

    Pur non già nulla dar non può, sì molto,
    il cieco aedo; e quale a me tu dono,
    negato a tutti, della tua bellezza,
    offristi, donna; né maggior potevi;
    tale a te l’offro, né potrei maggiore.
    Cieco non ero, e ciò pascea con gli occhi,
    che rumino ora bove pazïente;
    e il fior coglievo delle cose, ch’ora
    nella silenzïosa ombra mi odora.
    Era per aspri gioghi il mio cammino,
    degli uomini vetusti, antelunari.
    Nacquero sopra le montagne nere,
    che ancor la luna non correa su quelle:
    nacque dopo essi, e palpitò per loro
    gemiti strani. Era un meriggio estivo:
    io sentiva negli occhi arsi il barbaglio
    della via bianca, e nell’orecchio un vasto
    tintinnìo di cicale ebbre di sole.

    Ed ecco io vidi alla mia destra un folto
    bosco d’antiche roveri, che al giogo
    parea del monte salir su, cantando
    a quando a quando con un improvviso
    lancio discorde delle mille braccia.
    Entrai nel bosco abbrividendo, e molto
    con muto labbro venerai le ninfe,
    non forse audace violassi il musco
    molle, lambito da’ lor molli piedi.
    E giunsi a un fonte che gemea solingo
    sotto un gran leccio, dentro una sonora
    conca di scabra pomice; che il pianto
    già pianto urgea con grappoli di stille
    nuove, caduchi, e ne traeva un canto
    dolce, infinito. Io là m’assisi, al rezzo.
    Poi, non so come, un dio mi vinse: presi
    l’eburnea cetra e lungamente, a prova
    col sacro fonte, pizzicai le corde.

    Così scoppiò nel tremulo meriggio
    il vario squillo d’un’aerea rissa:
    e grande lo stupore era de’ lecci,
    ché grande e chiaro tra la cetra arguta
    era l’agone, e la vocal fontana.
    Ogni voce del fonte, ogni tintinno,
    la cava cetra ripetea com’eco;
    e due diceva in cuore suo le polle
    forse il pastore che pascea non lungi.
    Ma tardo, al fine, m’incantai sul giogo
    d’oro, con gli occhi, e su le corde mosse
    come da un breve anelito; e li chiusi,
    vinto; e sentii come il frusciare in tanto
    di mille cetre, che piovea nell’ombra;
    e sentii come lontanar tra quello
    la meraviglia di dedalee storie,
    simili a bianche e lunghe vie, fuggenti
    all’ombra d’olmi e di tremuli pioppi.

    Allora io vidi, o Deliàs, con gli occhi,
    l’ultima volta. O Deliàs, la dea
    vidi, e la cetra della dea: con fila
    sottili e lunghe come strie di pioggia
    tessuta in cielo; iridescenti al sole.
    E mi parlò, grave, e mi disse: Infante!
    qual dio nemico a gareggiar ti spinse,
    uomo con dea? Chi con gli dei contese,
    non s’ode ai piedi il balbettìo dei bimbi,
    reduce. Or va, però che mite ho il cuore:
    voglio che il male ti germogli un bene.
    Sarai felice di sentir tu solo,
    tremando in cuore, nella sacra notte,
    parole degne de’ silenzi opachi.
    Sarai felice di veder tu solo,
    non ciò che il volgo vìola con gli occhi,
    ma delle cose l’ombra lunga, immensa,
    nel tuo segreto pallido tramonto.

    Disse, e disparve; e, per tentar che feci
    le irrequïete palpebre, più nulla
    io vidi delle cose altro che l’ombra,
    pago, finché non m’apparisti al raggio
    della tua voce limpida, o fanciulla
    di Delo, o palma del canoro Inopo,
    sola tu del mio sogno anche più bella,
    maggior dell’ombra che di te serpeggia
    nel mio segreto pallido tramonto.
    Ora a te sola ridirò le storie
    meravigliose, che sentii quel giorno
    come vie bianche lontanar tra i pioppi.
    E quale il tuo, che non maggior potevi,
    tale il mio dono, né potrei maggiore;
    ché il bene in te qui lascerò, come ape
    che punge, e il male resterà più grave,
    grave sol ora, al tuo cantor, cui diede
    la Musa un bene e, Deliàs, un male!


    Poemi conviviali




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