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    Giovanni Pascoli

    Le Memnonidi

    Ecco apparì l’Aurora che la terra
    nera toccava con le rosee dita.

    I

    Disse: — Uccidesti il figlio dell’Aurora:
    non rivedrai né la sua madre ancora!

    E sì, t’amavo come un suo fratello.
    Tu fulvo, ei nero; nero sì, ma bello:

    tu come rogo che divampa al vento,
    ei come rogo che la pioggia ha spento:

    Memnone amato! E tu dovevi amare
    lui nato in cielo figlio tu del mare!

    L’azzurro mare ama la terra nera;
    il giorno ardente ama l’opaca sera;

    l’opera, il sonno; ama il dolor la morte...
    Va dunque, Achille, alle Sinistre Porte!

    II

    Io sì t’amava, e ti ricordo, molle
    della mia guazza la criniera fulva,
    nella lontana Ftia ricca di zolle:

    nei boschi, invasi dall’odor di lauro,
    del Pelio: lungo lo Sperchèo, tra l’ulva
    pesta dall’ugne del tuo gran Centauro.

    Io ti mostrava là su l’alte nevi
    i foschi lupi che notturni a zonzo
    fiutaron l’antro dove tu giacevi:

    e tu gettavi contro loro incauto
    la voce ch’ora squilla come bronzo,
    allor sonava come lidio flauto.

    Io ti vedeva predatore impube
    correre a piedi, immerso nella tua
    anima azzurra come in una nube;

    io, rosseggiando, e con la bianca falce
    la luna smorta, vedevam laggiù
    correre un uomo dietro una grande alce.

    III

    E meco c’era Memnone, che un urlo
    dal ciel mandava ai piedi tuoi veloci.
    Tu li credevi di laggiù le voci
    forse della palustre oca o del chiurlo.

    Perché t’amava anch’esso, il tuo fratello
    crepuscolare, che poi te protervo
    seduto sopra il boccheggiante cervo,
    circondava de’ suoi strilli d’uccello.

    Or egli è pietra, e ben che nera pietra,
    il figlio dell’Aurora ha le sue pene,
    ché quando io sorgo, e piango, ei dalle vene
    rivibra un pianto come suon di cetra...

    forse sospesa a un ramo, quale io credo
    d’udire ancora, qui tra i pini e i cedri,
    che al primo sbuffo de’ miei due polledri
    vibrò chiamando il suo perduto aedo.

    IV

    E quando io sorgo, le Memnonie gralle
    fanno lor giochi, quali intorno un rogo,
    non come aurighi con Ferèe cavalle
    sbalzanti in alto sotto il lieve giogo,
    con la lucida sferza su le spalle;

    e né come unti lottatori ignudi
    che si serrano a modo di due travi,
    e né come aspri pugili coi crudi
    cesti allacciati intorno ai pugni gravi;
    ma come eroi, con l’aste e con gli scudi.

    Quasi al fuoco d’un rogo, al mio barlume
    ecco ogni eroe contro un eroe si slancia:
    lottano in mezzo alle rosate schiume
    del lago, e il molle becco è la lor lancia,
    e non ferisce sul brocchier di piume.

    Guarda le innocue gralle irrequiete,
    là, con lo scudo ombelicato e il casco!
    negli acquitrini dove voi mietete
    lanuginose canne di falasco,
    per tetto della casa alta, d’abete.

    V

    Ei piange, e vede la mia mano ch’apre
    rosea, di monte in monte, usci e cancelli;
    apre, toccando lieve i chiavistelli,
    alle belanti pecore, alle capre;

    anche al fanciullo che la verga toglie,
    curva, e si lima i cari occhi col dosso
    dell’altra mano: anche al villano scosso
    di mezzo ai sogni dall’industre moglie;

    anche all’auriga che i cavalli aggioga
    al carro asperso ancor del sangue d’ieri,
    mentre l’eroe, già stretti gli stinieri,
    prende lo scudo per l’argentea soga:

    scudo rotondo, di lucente elettro,
    grande, con le città, con le capanne,
    e greggi e mandre, e corbe d’uva e manne
    di spighe, e un re pei solchi, con lo scettro.

    VI

    Ma te non più porterò via, divino
    eroe, sul carro, col rotondo scudo
    ch’ha suon di tibie, e dolce canta, AI LINO:

    dall’altra parte tornerò del cielo,
    a sera, e te con altri ignudi ignudo
    io parerò tenendo un aureo stelo;

    un aureo stelo con in cima un astro;
    e parerò le vostre esili vite,
    come un pastore, con quel mio vincastro:

    un gregge d’ombre, senza i folti velli
    color viola. E per le vie muffite
    v’udrò stridire come vipistrelli.

    La bianca Rupe tu vedrai, dov’ogni
    luce tramonta, tu vedrai le Porte
    del Sole e il muto popolo dei Sogni.

    E giunto alfine sosterai nel Prato
    sparso dei gialli fiori della morte,
    immortalmente, Achille, affaticato.

    VII

    Dove dirai: Fossi lassù garzone,
    in terra altrui, di povero padrone;

    ma pur godessi, al sole ed alla luna,
    la dolce vita che ad ognuno è una;

    e i miei cavalli fossero giovenchi,
    che lustro il pelo, i passi hanno sbilenchi;

    e ritrovassi, nell’uscir dal tetto,
    per asta dalla lunga ombra, il pungetto;

    e rimirassi, nell’uscir dal clatro,
    per carro dal sonante asse, l’aratro:

    l’aratro pio che cigola e lavora
    nella penombra della nuova aurora! —

    Diceva, e già nel cielo era appassita:
    venne il Sole, e s’alzò l’urlo di guerra.


    Poemi conviviali




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