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    Giuseppe Parini

    La magistratura

    Per Cammillo Gritti Pretore di Vicenza nel 1787


    Se robustezza ed oro
    Utili a far cammino il ciel mi desse,
    Vedriansi l’orme impresse
    De le rote, che lievi al par di Coro
    Me porterebbon, senza
    Giammai posarsi, a la gentil Vicenza:

    Onde arguta mi viene
    E penetrante al cor voce di donna,
    Che vaga e bella in gonna,
    Dell’altro sesso anco le glorie ottiene;
    Fra le Muse immortali
    Con fortunato ardir spiegando l’ali.

    E da gli occhi di lei
    Oltre lo ingegno mio fatto possente,
    Rapido da la mente
    Accesa il desïato Inno trarrei,
    Colui ponendo segno
    Che de gli onori tuoi, Vicenza, è degno.

    Che dissi? Abbian vigore
    Di membra quei che morir denno ignoti;
    E sordidi nipoti
    Spargan d’avi lodati aureo splendore.
    Noi delicati, e nudi
    Di tesor, che nascemmo ai sacri studj,

    Noi, quale in un momento
    Da mosso speglio il suo chiaror traduce
    Riverberata luce,
    Senza fatica in cento parti e in cento,
    Noi per monti e per piani
    L’agile fantasìa porta lontani.

    Salute a te, salute
    Città, cui da la Berica pendice
    Scende la copia, altrice
    De’ popoli, coperta di lanute
    Pelli e di sete bionde,
    Cingendo al crin con spiche uve gioconde.

    A te d’aere vivace
    A te il ciel di salubri acque fe’ dono.
    Caro tuo pregio sono
    Leggiadre donne, e giovani a cui piace
    Ad ogni opra gentile
    L’animo esercitar pronto e sottile.

    Il verde piano e il monte,
    Onde sì ricca sei, caccian la infame
    Necessità, che brame
    Cova malvage sotto al tetro fronte;
    Mentre tu l’arti opponi
    All’ozio vil corrompitor de’ buoni.

    E lungi da feroce
    Licenza e in un da servitude abbietta,
    Ne vai per la diletta
    Strada di libertà dietro a la voce,
    Onde te stessa reggi,
    De’ bei costumi tuoi, de le tue leggi.

    Leggi, che fin dagli anni
    Prischi non tolse il domator Romano;
    Nè cancellàr con mano
    Sanguinolenta i posteri tiranni;
    Fin che il Lione altero
    Te amica aggiunse al suo pacato impero.

    E quei mutar non gode
    Il consueto a te ordin vetusto;
    Ma generoso e giusto
    Vuol che ne venga vindice e custode
    Al varïar de’ lustri
    Fresco valor degli ottimati illustri.

    Ahi! quale a me di bocca
    Fugge parlar, che te nel cor percote,
    A cui già su le gote
    Con le lagrime sparso il duol trabocca,
    E par che solo un danno
    Cotanti beni tuoi volga in affanno!

    Lassa! davanti al tempio
    Che sul tuo colle tanti gradi sale,
    Supplicavi che uguale
    A un secol fosse con novello esempio
    Il quinquennio sperato
    Quando l’inclito GRITTI a te fu dato.

    Ed ecco, a pena lieto
    Sopra l’aureo sentier battea le penne,
    A fulminarlo venne
    Repentino cadendo alto decreto,
    Che, quasi al vento foglie,
    Ogni speranza tua dissipa e toglie.

    E qual dall’anelante
    Suo sen divelto innanzi tempo vede
    Lungi volgere il piede
    Nova tenera sposa il caro amante,
    Che tromba e gloria avita
    Per la patria salute altronde invita:

    Così l’eroe tu miri
    Da te partirsi: e di te stessa in bando,
    Vedova afflitta errando
    E di querele empiendo e di sospiri
    I fori ed i teatri
    E le vie già sì belle e i ponti e gli atrj

    E i templi a le divine
    Cure sagrati, che di te sì degni,
    De’ tuoi famosi ingegni
    Ahimè! l’arte non pose a questo fine,
    Altro più ben non godi
    Che tra gli affanni tuoi cantar sue lodi.

    Non già perch’ei non porse
    Le mani a l’oro o a le lusinghe il petto;
    Nè sopra l’equo e il retto
    Con l’arbitro voler giammai non sorse;
    Nè le fidate a lui
    Spada o lanci detorse in danno altrui.

    Vile dell’uomo è pregio
    Non esser reo. Costui da i chiari apprese
    Atavi donde scese,
    D’alte glorie a infiammar l’animo egregio,
    E a gir dovunque in forme
    Più insigni de’ miglior splendano l’orme.

    Chi sì benigno e forte
    Di Temide impugnò l’util flagello?
    O chi pudor sì bello
    Diede all’augusta autorità consorte?
    O con sì lene ciglio
    Fe’ l’imperio di lei parer consiglio?

    Davanti a più maturo
    Giudizio le civili andar fortune,
    O starsene il comune
    Censo in maggior frugalità securo
    Quando giammai si vide
    Ovunque il giusto le sue norme incide?

    Ei, se il dover lo impose,
    Al veder linee, al provveder fu pardo;
    Ei del popolo al guardo
    Gli arcani altrui, non sè medesmo ascose;
    Nè occulto orecchio sciolse,
    Ma solenne tra i fasci il vero accolse.

    Ei gli audaci repressi
    Tenne con l’alma dignità del viso;
    Ei con dolce sorriso,
    Poi che del grado a sollevar gli oppressi
    Tutto il poter consunse,
    A la giustizia i beneficj aggiunse.

    E tal suo zelo sparse,
    Che grande a i grandi, al cittadino pari,
    Uom comune ai volgari,
    Rettor, giudice, padre, a tutti apparse;
    Destando in tutti, estreme
    Cose, amicizia e riverenza insieme.

    Ben chiamarsi beata
    Può fra povere balze e ghiacci e brume,
    Gente cui sia dal nume
    Simil virtude a preseder mandata.
    Or qual fu tua ventura,
    Città, cui tanto il ciel ride e natura!

    Ma balsamo, che tolto
    Vien di sotterra, e s’apre al chiaro giorno,
    Subitamente intorno
    Con eterea fragranza erra disciolto;
    Tal che il senso lo ammira,
    E ognun di possederne arde e sospira.

    Quale stupor, se brama
    Del nobil figlio al gran Senato nacque;
    E repente, fra l’acque
    Onde lungi provvede, a sè il richiama?
    Di tanto senno ai raggi
    Voti non sorser mai, altro che saggi.

    Non vedi quanti aduna
    Ferri e fochi su l’onda e su la terra
    Vasto mostro di guerra,
    Che tre Imperi commette a la Fortuna;
    E con terribil faccia
    Anco l’altrui securità minaccia?

    Or convien che s’affretti,
    Cotanto a le superbe ire vicina,
    Del mar l’alta Regina
    Il suo fianco a munir d’uomini eletti,
    Ov’ardan le sublimi
    Anime di color che opposer primi

    Al rio furore esterno
    Il valor la modestia ed i consigli;
    E dai miseri esigli
    Fecer l’Adria innalzarsi a soglio eterno;
    E sonar con preclare
    Opre del nome lor la terra e il mare.

    Godi, Vicenza mia,
    Che il GRITTI a fin sì glorïoso or vola:
    E il tuo dolor consola,
    Mirando qual segnò splendida via
    Co’ brevi esempi suoi
    Alla virtù di chi verrà da poi.




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