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    Ippolito Nievo

    Nella Pineta di Belvedere

    Tutto ora è pace. Nell’azzurro cielo
    grandeggia nera dei pini la chioma;
    diafana fugge la lunata costa,
    e si dilegua

    in un vivace tremolio d’argento,
    tra i giunchi verdi ed il falasgo bruno,
    che, attorto in funi, alle gradensi antenne
    fermò le vele.

    Le vele gaie di rosso e di giallo
    dei Gradenighi, dei Brandochieli
    sul remo saldi, dei Bolani e Balbi
    latino sangue

    venuto a questa imperial dimora
    aquileiense, a questa nuova Roma,
    armata contro il secolare assalto
    dell’orïente.

    Tutta di marmi risplendente e d’oro
    s’offriva al sole la città latina,
    a lei propizio risplendeva il sole
    nume indigete.

    Ma, nuovo pegno di salvezza, stava
    su lei la croce, allor che la selvaggia
    furia degli Unni, ed Attila con essi,
    tutto travolse.

    O triste notte, quando a lume spento
    cercò, fuggendo, il popolo sul mare
    scampo alla morte. A lui restavan solo
    al pianto gli occhi,

    in cuor la speme, e grande e salda in petto
    la fede! Il mare ne fremette, e cinti
    del suo possente amplesso i derelitti
    figli di Roma:

    Altra e maggior della perduta, disse,
    patria vi dono. Con la vela e il remo
    l’animo forte verso me lanciate
    e sarò vostro.

    E tutta intorno la foresta sacra
    d’ascio e martelli risonò. Le piatte
    cimbre volaro fra le malsicure
    velme sabbiose;

    fra tronchi pini le panciute vele
    fremeron tese ad insaccare il vento
    grosso del mare. Aspra è la vita e grama?
    Libera vita

    solo si chiede. Con la prima luce
    salpan le prore e quando cade il sole,
    e par di fuoco la laguna e pare
    di fuoco il cielo,

    vengon da Equilio, vengon da Eraclea,
    da Rivoalto e da Torcello a proda
    le rosse vele dei tribuni. Attento
    siede l’arengo

    in riva al mare a ragionar del mare.
    Getta sovr’esso di sue quattro braccia
    l’ombra solenne la triastata croce
    patriarchina.

    Poi nella notte, sopra il remo curvi,
    vanno i tribuni, perchè la dimane
    d’opre feconda sorga alle lor genti,
    salmodiando:

    «Noi pescadori ve preghemo vu,
    San Piero, che peschevi come nu,
    e ve preghemo pescaor Gesù,
    noi pescadori.»

    Rigan le stelle la laguna nera
    di lor postille tremule, fra i giunchi
    eternamente irrequieto il mare
    par che risponda.

    Ma o come vivo dal cielo sereno
    sfolgorò il sole sopra le lagune,
    come nell’aria luminosa i canti
    pieni saliro,

    quando a Lesína e a Curzola l’insegna
    patriarcale si gettò trionfante
    sui Narentani, ed era Orseolo doge
    primo all’assalto.

    Ma o come il mare si levò alla prora
    dogale incontro allor che di Venezia
    fu, e fin che splenda su Venezia il sole,
    sacrato sposo.


    Canti del Friuli

    Nota

    Grandenighi, Brandochieli, detti poi Bredani, Balbi, Bolani antiche famiglie gradesi venute da Aquileia. I Balbi discendevano dalla Romana gente Balbina, i Bolani provenivano dai Vetii.

    Orseolo II°, doge, preparò l’armata per scovare e combattere i corsari Narentani, che rendevano mal sicuro l’Adriatico. In Grado dal Patriarca Vitale ricevette in consegna lo stendardo dei Santi Ermacora e Fortunato. Assalì e vinse i nemici a Lesina e Curzola. Ritornato nelle lagune istituì la festa dello Sposalizio del Mare, la quale ogni anno doveva ripetersi, per affermare il conquistato dominio dei Veneti su l’Adriatico, e per commemorare tutti coloro che, per la grandezza della patria, avevan trovato sepoltura nelle onde.




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