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    Luigi Tansillo

    Il vendemmiatore

    Giovane donne e belle, che sovente
    date ai versi d'amor benigne orecchie;
    perché voi siate alle mie voci intente,
    et io ne gli occhi vostri ognor mi specchie,
    né di cosa ch'io veggia mi sgomente,
    le vostre e mie guerriere orride vecchie
    cacciate, prego, fuor del vostro stuolo,
    o con voi et Amor mi resti solo.

    Gran maraviglia avrete, com'io sia
    fatto di rustico uom culto poeta,
    senza ber di quell'acqua, che solìa
    far l'uom repente diventar profeta.
    Bacco et Amor volgon la lingua mia,
    e fan d'altro liquor la mente lieta:
    o perché 'l mio cantar sia più sublime,
    l'un mi spira il furor, l'altro le rime.

    Voi troverrete nel mio dir senz'arte
    tanto diletto ognor, tanto profitto,
    che più non ne pon dar tutte le carte
    che ornando scrisser mai Grecia et Egitto:
    togliendo del mio dir la minor parte,
    torrete della vita il cammin dritto,
    e voi stesse cangiando, in un momento
    cangerete in piacer vostro tormento.

    Ché troppo (e con ragion, s'io ben discerno)
    s'adira il Ciel con voi, donne superbe,
    che negli orti ond'ei diede a voi 'l governo
    languir lasciate i fiori e morir l'erbe!
    Non vi dovreste lamentar del verno,
    quando voi stesse a voi siete sì acerbe;
    non si doglia d'altrui, né si lamenti
    chi dà cagione ei stesso a' suoi tormenti.


    Tutte le donne che son grate al Cielo,
    e non hanno qual voi rigidi i cuori,
    vivon contente; e poi che neve e gelo
    copron la terra in vece d'erbe e fiori,
    ancor che col piacer cangino il pelo,
    nuovo pensier non han che l'addolori:
    non ha l'agricultor di che si doglia,
    pur ch'al debito tempo il frutto coglia.

    Ma chi, del proprio ben nimica altiera,
    ne mena i giorni sterilmente tutti,
    e passa autunno, e passa primavera
    senza coglier già mai né fior né frutti;
    giunta a' suoi chiari dì l'ultima sera,
    quai penitenze, quai sospir, quai lutti
    pensate ch'assalir debban costei,
    trista dicendo: oimè, quanto perdei!

    Credete a chi n'ha fatto esperimento,
    che fra tutti i martir, donne mie care,
    nessun ve n'è maggior che 'l pentimento,
    poi che 'l passato non si può disfare:
    e ben che ogni pentir porti tormento,
    quel che più fiera piaga ne suol fare,
    ove rimedio alcun sperar non lece,
    è quando un potea molto e nulla fece.

    Potrei narrarvi mille e mille esempi,
    per farvi accorte più degli error vostri,
    o, senza ire a cercar gli antiqui tempi,
    molti ne potrei dir ne' giorni nostri.
    Lasso! io ben so, quai dolorosi scempi,
    ben che il contrario ne la fronte mostri,
    abbia avuto et avrò del pentir mio!
    Intendami chi può, ch'i' m'intend'io.

    Porta dunque il pentir troppo gran pena
    a chi del suo fallir tardi si pente;
    ma quella via, ch'a tanto error vi mena,
    e fa la vita vostra al fin dolente,
    è l'empia ingratitudine, che piena
    v'ha del suo foco la superba mente:
    questo è quel foco, le cui fiamme ingrate
    seccano i fiumi in ciel della pietate.

    E qual ingratitudine si vede,
    o donne, che tra voi non sia maggiore?
    La terra, che a far frutto il Ciel vi diede
    con la pioggia del nostro dolce umore,
    per vostra colpa secca, arida siede,
    e nel suo seno ogn'erba, ogni fior more.
    Oh quanto spiace al donator gentile,
    quando vede i suoi don tener a vile!

    Il candido ligustro, il bel iacinto,
    e tanti vaghi fior cari tra noi
    come aprile ornerian, s'a l'uno estinto
    non succedesse l'altro? Così, poi
    che 'l bel ch'avete fia da gli anni vinto,
    il mondo, che s'adorna oggi di voi,
    chi l'ornerà, s'ognuna steril more
    senza far del suo volto il successore?

    Non vi maravigliate, che parlando
    di voi, donne leggiadre e valorose,
    vada vostre bellezze somigliando
    ad erbe e fior, vie più ch'ad altre cose:
    quai fior vostre bellezze van mancando,
    o son quai fior suave e dilettose;
    da l'erbe o da' bei for nascono i frutti,
    e da voi, donne mie, noi siam produtti.

    Erbe son dunque e fior vostre bellezze,
    e primavera gli anni che menate;
    voi siete gli orti, che le lor vaghezze
    ne' dolci grembi vostri riserbate,
    acciò ch'ogn'uom vi brami, ogn'uom vi apprezze;
    e perché ne l'autunno o nella state
    suo convenevol frutto ogni fior porti,
    noi semo gli ortolan, voi sete gli orti.

    Questi son que' begli orti, e questi fôro,
    che raccontano i vecchi, ombrando il vero,
    cho gli arbor carchi avean di poma d'oro,
    e che le donne, che n'avean l'impero,
    acciò ch'uom non cogliessi i frutti loro,
    vi tenean chiuso un drago orrido e fero,
    che qualunque d'entrarvi s'arrischiava,
    o 'l ponea ratto in fuga, o 'l divorava

    e che per forza poi vi venne a entrare
    un uom di valor pieno e di fortezza
    (Ercole, credo, si facea nomare),
    che 'l drago uccise, e tolse ogni ricchezza.
    Lo poma d'or son le belleze care,
    donne, che avete, il drago è la fierezza,
    che dentro a' vostri cuor chiusa dimora,
    et ogni bel piacer caccia o divora.

    Prima che 'l tempo, vie più d'Ercol forte,
    uccida i pensier vostri, e la beltade
    ne porti via per farne dono a Morte,
    cogliete i frutti de la verde etade;
    aprite ai bei desir le chiuse porte,
    cacciandone di fuor la crudeltade,
    che le vostre bellezze in guardia tiene,
    e non vi fa gioir di tanto bene!

    Se mentre il corpo è vivo non godete,
    sperato di goder quando gl'è morto?
    Quel paradiso, che bramar solete,
    che pensate che sia, altro che un orto?
    E se quest'orto in grembo voi tenete,
    perché non vi pigliate indi diporto?
    A che loco cercar da voi diviso,
    se in voi stesse trovate il paradiso?

    Se non togliete il ben che vi è da presso,
    come torrete quel che sta lontano?
    Spregiar il vostro mi par fallo espresso,
    e bramar quel che sta ne l'altrui mano!
    Voi sete quel che abbandonò se stesso,
    la sua sembianza desiando invano;
    voi sete il veltro che nel rio trabocca,
    mentre l'ombra desia di quel che ha in bocca.

    Lassate l'ombre, et abracciate il vero,
    non cangiate il presente pel futuro
    anch'io d'andare in ciel già non dispero,
    ma per viver più lieto e più securo,
    godo il presente, e del futuro spero,
    così doppia dolcezza mi procuro;
    ch'avviso non saria d'uom saggio e scaltro
    perdere un ben per aspettarne un altro.

    Anzi, chi perde l'un mentre è nel mondo
    non speri dopo morte l'altro bene,
    perché si sdegna il Ciel dare il secondo
    a chi 'l primiero don caro non tiene;
    così, credendo alzarvi, gite al fondo,
    et ai piacer togliendovi, alle pene
    vi condennate, e con inganno eterno,
    bramando il ciel, vi state ne l'inferno.

    Voi sete al mondo e a Dio, chi ben misura,
    e non il tempo, le nimiche vere;
    il tempo torna al mondo ciò che fura,
    quel che furate voi non può riavere:
    quanto amar più che voi deve Natura
    gli augelli i pesci, gli animai le fere;
    né questi pur, ma più che voi le piante,
    che eterne servan le sue leggi sante!

    Co' fidi amanti lor volan gioconde
    le semplici colombe, in ciò ben sagge;
    segue l'accesa femina per l'onde
    il maschio pesce, e al suo piacer la tragge;
    mugge la vacca, e al suo torel risponde,
    che lei cercando va per boschi e piagge;
    l'empia leonza al suo leon si piega;
    e voi più dure sete a chi più prega!

    Ciò che d'intorno a noi, donne, miriamo
    par che l'esempio del suo amor n'additi.
    A che le selve, il cielo e 'l mar cerchiamo?
    Risguardate questi olmi e queste viti,
    che noi degli onor lor lieti spogliamo,
    come, tacendo, ognun par che ne inviti
    a quella vera gioia, a quel diporto,
    dov'io co' le mie voci oggi vi esorto!

    S'a l'acqua, che dal ciel per grazia viene,
    la terra il grembo suo sempre chiudesse,
    quest'olmo, che nell'aria oggi mi tiene,
    converria che seccando giù cadesse;
    o se l'amata vite, ch'ei sostiene,
    nelle sue braccia notte e dì non stesse,
    questo bel frutto o nulla o tal serìa,
    che di corlo ogni man si sdegneria.

    Così, se i dolci grembi non spiegate
    all'acqua che d'Amor piove e discende,
    cader vedrete a terra la beltate,
    che superbe nel ciel v'alza e suspende;
    e s'alle braccia altrui non v'appoggiate,
    frutto nessun da voi gentil s'attende:
    sien di nostre acque i vostri grembi colmi,
    siate le viti voi, noi siamo gli olmi.

    Questi arbor carchi, che s'inchinan tutti,
    quasi la terra ringraziando e 'l cielo,
    che gli han col tempo a tanto onor condutti,
    se, offesi in sul fiorir da nebbia o gelo,
    appresso ai fior non produceano i frutti,
    che preggio avrian? Tal ha colei che 'l zelo
    d'Amor non sente ne l'età sua verde,
    e senza frutto il fior degli anni perde.

    Non siate, donne, ingrate o neghittose,
    dove cortese e presto il Ciel v'è stato!
    Se siete del ben vostro desiose,
    fuggite l'uno e l'altro empio peccato!
    Già le campagne omai son tutte erbose;
    trovi ciascuna al suo giardin beato
    chi notte e dì s'ingegni e s'affatighi,
    il terreno lavori, e l'erbe irrighi.

    Et io, come un di quei che di quest'arte
    da che nacqui fui vago, o sono ognora,
    e come usar si debba, a parte a parte,
    a qual guisa, a qual loco et a qual ora,
    per prova so, non per voltar di carte,
    e che per vostro amor contento fôra
    andar, s'uopo vi fusse, al regno stigio;
    a voi m'offero sempre a tal servigio.

    E benché all'uom che pregio et onor brama
    di se stesso parlar molto sconvegna,
    perché la lingua, ove 'l cor teme et ama,
    non è nel suo parlar di fede degna;
    l'esser precone all'uom della sua fama
    pur qualche volta par che si convegna,
    quando vien a parlar per un di dui:
    per fuggir biasmo, o per giovar altrui.

    Per giovar dunque a voi, la cui salute
    vie più che 'l proprio ben, donne, desio,
    io stesso canterò la mia virtute,
    senza che tema biasmo il canto mio;
    e forse, poi che 'ntese o conosciute
    le forze avrete e le prodezze, ond'io
    mi do più ch'altri vanto ai tempi nostri,
    torrete a grazia avermi agl'orti vostri.

    Ma se, per mia fortuna iniqua e fera,
    a tanto onor voi non mi degnerete,
    pur di quest'arte la dottrina vera
    nelle parole mie coglier potrete;
    e fia 'l vostro piacer più che non era,
    quando i begli orti a cultivar darete,
    sapendo che bisogna ai buon cultori,
    per far vostri terren vie più migliori.

    Io dico, che convien primieramente
    a chi quest'inclit'arte oprar desia,
    che d'ogni tempo et abondevolmente
    degli strumenti suoi provisto sia;
    ché 'n altra guisa il faticar sovente
    poco profitto al bel terren daria:
    zappa, vomero e pal sodi e securi,
    che quanto più s'adopran più stien duri.

    Chiunque brama con quest'arme oprarsi
    convien che i membri abbia robusti e sani;
    che per spesso chinar, per spesso alzarsi
    stanco dal bel lavor non s'allontani;
    e, perché possa ovunque vuol girarsi,
    il corpo abbia leggier, destre le mani;
    colme medolle abbia di caldo umore,
    acciò che sudar possa a tutte l'ore.

    Di queste e d'altre cose s'io n'abbondo,
    non credete a mia lingua, ma a vostr'occhi;
    e se 'l veder non basta, i' vi rispondo,
    che m'offro a far che 'l ver con man si tocchi.
    E cose troverrete rare al mondo;
    non facciate l'error, che fan gli sciocchi,
    in rimaner contente del pensiero!
    L'esperïenza è il paragon del vero.

    Fortunato il terren c'ha 'l mio governo!
    Ché più che 'l dì v'intendo ancor la notte;
    né per molto zappar, la state e 'l verno,
    l'invitte forze mie son sceme o rotte.
    Quei che tormenton l'alme ne l'inferno
    non dan con tal poter qual io le botte;
    tal, che non pure il ferro a dentro caccio,
    ma vi caccio anco l'asta infino al braccio.

    Con tanta agevolezza il palo adopro,
    che un sol sospir di bocca non esalo.
    Pria, con la falce in man, la terra scopro,
    indi nel grembo suo lieto mi calo,
    e col mio corpo tutta la ricuopro,
    piantando nel bel sen tutto il buon palo;
    cava, né mai dal suo cavar si tolle,
    fin che col mio sudor fo il fosso molle.

    E se di sete avvien ch'io m'arda e strugga,
    per soverchio sudor che dal corpo esca,
    non vi crediate ch'al fiascon rifugga,
    o m'attuffi nell'acqua pura e fresca!
    Un sol ciriegio, che premendo io sugga,
    o un pomo all'opra ratto mi rinfresca!
    addolcisce la sete, e non l'ammorza,
    e i miglior membri tutti mi rinforza.

    Rigido, acuto, grosso, duro e tondo
    è, donne, il pal ch'i' pianto nella terra,
    e di tanta lunghezza o di tal pondo,
    quanto par si richieda a simil guerra:
    finché la punta sua non preme il fondo
    mai non s'arresta di passar sotterra;
    e mentre in su e 'n giù cade e risorge,
    quanto più fiere, più dolcezza porge.

    Tanto talvolta nel cavar m'accendo,
    che trasformarmi in pal tutto vorrei;
    e tal piacer ne la fatica prendo,
    ch'altro riposo mai non chiederei:
    né, vinto dal sudor, stanco mi rendo
    per aver fatto cinque cave o sei;
    anzi, s'avien che buon terren ritrove,
    a sette passo, e non mi resto a nove.

    Ma se m'incontro a terren duro et aspro,
    non mi vergogno d'adoprar l'aratro;
    se fusse vie più duro che 'l dïaspro,
    tutto, qual fragil vetro, il rompo e squatro;
    e quanto più il fo molle, più m'inaspro,
    o ben che soglion dir, che 'l terren atro
    sia più fecondo dove il seme cada,
    il bianco a me vie più che 'l negro aggrada.

    Con un vomero tal la terra sveno,
    che ugual nel grembo Cerere non folce;
    tal che, contenta quando il tien nel seno,
    nol vorria mai lasciar, tanto gli è dolce.
    Piaga rigidamente il bel terreno,
    e con la stessa piaga il placa e molce;
    quanto più il solco fa profondo e largo,
    tanto più dolce il seme entro vi spargo.

    I buoi che dànno al vomero vigore
    stan notte e giorno sotto il giogo a prova;
    né, per soverchio sparger di sudore,
    ne la lor pelle piaga unqua si trova:
    anzi, il trar dell'aratro a tutte l'ore
    tanto invaghisce lor, tanto lor giova,
    che vorrian tutti entrar col vomer dentro,
    e passar della terra infino al centro.

    De' giorni più miglior, de le stagioni
    ch'arar si debba o seminar la terra,
    varie son più che ' fior l'oppinïoni;
    chi giugne al ver, chi si dilunga et erra.
    Io, che cercar non vo' tante ragioni,
    dico, che d'ogni tempo de' far guerra
    l'uom con quel loco onde lor frutto brama;
    e però quel terren campo si chiama.

    Ogn'opra, ogni fatica, ove s'accende
    l'agricoltor fie nulla al suo disegno,
    senza quell'acqua, che la terra rende
    et umida e feconda, e dà sostegno
    a l'erbe che son nate, e le distende.
    Onde a parlar di lei lieto ne vegno,
    e vo' che 'l modo ver, donne, si mostri,
    come irrigar si debbin gli orti vostri.

    Più che mel dolce, e più che latte pura,
    è l'acqua che spargemo agl'orti noi;
    e perché il buon terren presto s'indura,
    cavar si debbe prima, e bagnar poi:
    e acciò che l'acqua corra con misura,
    mando per canal dritto i rivi suoi;
    e tanto più profitto al terren lassa,
    quanto più a dentro penetrando passa.

    Dalla lingua de' vecchi empia o profana
    non si lasci ingannar donna gentile;
    che si bagnino gl'orti a settimana,
    dicono, e non d'agosto, ma d'aprile:
    fallace è lor sentenzia, iniqua e vana,
    convenïente ad uom debole e vile;
    spargasi l'acqua agl'orti entro e d'intorno
    al men tre volte, fra la notte e il giorno.

    Chi non fa questo iniquamente pecca,
    o puossi dir ministro del suo danno;
    ché l'erba verde al miglior tempo secca,
    né frutto alcun promette al fin dell'anno.
    Mirate, come sugge, e come lecca
    quell'umore il terren, quando altri il dànno!
    Di qua veder si può con chiara prova,
    che l'uom che più lo bagna più gli giova.

    L'ore dell'irrigar ben che alcun volle
    che la sera e 'l mattin sian le migliori,
    ché più per tempo o tardi l'acqua bolle,
    et arde l'erbe coi scaldati umori;
    Io vo' che 'l mio giardin stia sempre molle,
    senza dar tante leggi a' miei sudori:
    giova a tutte ore, acciò che l'erba cresca,
    far che la terra sia bagnata e fresca.

    Deh, se quell'acqua, di che lieto ognora
    bagno la terra ov'io vo' far semenza,
    provaste, care donne, una sol'ora,
    forse vi doleria di starne senza!
    Voi del mio dir tutte ridete; anc'ora
    ne brameresti far l'esperïenza?
    Oh, se la fate, un'acqua proverete,
    che quanto più si bee, più doppia sete!

    Oltre la zappa, il pal, l'aratro e l'acque,
    e le stagion d'oprarli, e 'l modo, e l'ora,
    de' quali il men si disse e 'l più si tacque,
    s'i' vi vo' dir tutte quell'arti ancora
    ch'usar si ponno, e da qual d'esse nacque
    più dolcezza al terreno e a chi 'l lavora,
    e parlar d'ogni pianta oggi a bastanza,
    vie più de l'opra che del tempo avanza.

    Ma perché rade volte uman desio
    di molto suo sperar buon frutto prende,
    senza soccorso d'alcun nume pio,
    che 'l ben ch'egli desia dona o contende,
    onde ciascun fa maggior preghi al dio
    c'ha più poter ne l'opra ov'egli 'ntende;
    indi nacquero i tempî e i sacerdoti,
    l'offrir de gli olocausti e 'l dar de' voti.

    Perché nel campo suo buon frutto mieta,
    L'avido agricoltor, dubio del vero,
    Cerere onora; Apollo il buon poeta
    prega perché dipinga il suo pensiero;
    chiama con voce or tempestosa or queta
    Nettunno il marinar, Marte il guerriero,
    Cupido l'amator, Febo il non sano,
    e 'l nero fabro adora il suo Vulcano.

    Così molti altri e molti adora il mondo
    numi benigni e presti ai desir nostri:
    a chi più porge et a chi men, secondo
    ciascun più largo altrui per che si mostri.
    Acciò che, donne mie, frutto giocondo
    il soave lavor de' terren vostri,
    dopo tanti sudori, a noi riporti,
    bisogna ch'onoriate il dio de gli orti.

    Alla madre d'Amor, Venere bella,
    la tutela de gli orti il mondo diede,
    e non senza cagion, sì come quella
    onde il principio d'ogni ben procede:
    ma poi che questa dea, già nuova stella,
    se ne portò nel ciel sua ricca sede;
    perché non fusse in ciò dai ladri offesa,
    lasciò de gli orti al figlio la difesa.

    Non già ad Amor, come credete voi,
    ancor che senza lui cosa nessuna
    né nascer può, né viver qui tra noi;
    ma a quel, che dalle fasce e da la cuna
    ella amò più che tutti i figli suoi:
    il qual, senza cercar maggior fortuna,
    nato si giace ove nascendo giacque,
    vago sol di morir là dov'ei nacque.

    Ella il produsse, e Bacco generollo,
    onde spesso da lui toglie 'l vigore;
    Priapo il nominò chi pria chiamollo,
    ben che 'n più voci il mondo ancor l'onore:
    non arco in mano, né faretra al collo
    porta, come il crudel germano Amore;
    con una falce in man finger si suole,
    ma l'arme con che nacque adopra sole.

    Non Flora, né Pomona, ma Priapo
    bisogna che da voi dunque s'onori!
    Cingete il sacro e venerabil capo
    di liete e dolci erbette e di bei fiori:
    non di ruta, o d'assenzio o di senapo,
    ma di quell'erbe, c'han miglior sapori,
    et ai vostri giardin nascon d'intorno,
    fate ghirlande a lui di giorno in giorno.

    Se così pie, religïose e sante
    a questo dolce dio vi mostrerete,
    oh che bell'erbe, oh che leggiadre piante
    ne' ben colti terren surger vedrete,
    che nascer già non vi poteano innante!
    Così, cangiando stil, donne, farete,
    acciò ch'uom mai di voi non si lamenti,
    gli orti fecondi e gli ortolan contenti.

    Potrammi qualche pura verginella,
    che senza prova ad ascoltar ne vegna,
    qual pianta domandar, qual erba è quella,
    ch'a gli orti vostri meglio ci convegna,
    o seminar si possa, che sia bella
    e vie maggior virtù seco ritegna:
    dirovvi, di qual pianta e di qual erbe
    vo' che 'l vostro terren s'adorni e 'nerbe.

    L'amàraco, che odora, il buon serpillo,
    che con picciole braccia stringer suole
    la madre che benigna partorillo,
    l'aspra borrago e le crespe scarole,
    la calda eruca e 'l freddo petrosillo,
    che ciascuna di voi tanto ama e cole,
    e le molte altre, ch'usa il viver nostro,
    non ponno aver radice al terren vostro.

    Eretti gigli e flessuosi acanti,
    vermiglie rose e pallide vïole,
    e narcisso, e iacinto, e croco, e quanti
    fior generò mai ne la terra il sole
    quando di varî odor, di color tanti
    lieta nel volto ella si pinge et ole;
    ben che ogni loco faccin vago e bello,
    non giovano al giardin di ch'io favello.

    Un'erba sola è quella che de' porre
    ogni giovane donna al suo bell'orto;
    i frutti che da lei si soglion côrre
    avanzan tutti gli altri di conforto;
    ma il sugo, che premendola ne scorre,
    potria quasi dar vita a un corpo morto;
    sanar vid'io sovente con quest'erba
    donne ch'eron già presso a morte acerba.

    L'erba che nasce nell'Egitto, e porta
    oblio d'ogni tristezza nelle foglie;
    quella che spezza il ferro, apre ogni porta,
    e dai laghi e dai fiumi l'acque toglie;
    quella ch'asciuga il sangue e 'l riconforta,
    e qualunque erba oggi fra noi si coglie,
    o si colse già mai nel tempo antico,
    non si pareggia all'erba di ch'io dico.

    Voi non la troverrete, donne, in tasca
    d'erbaiuol, per esperto che si mostri;
    non crediate, che generi, o che nasca
    in altra parte, che negli orti vostri,
    da noi si mangi, o d'animal si pasca,
    come si fa de l'erbe ai lidi nostri;
    anzi ell'è tal, che non può donna alcuna
    tenerne a un tempo al suo giardin più ch'una.

    Quando la notte cresce e 'l giorno manca,
    et ogni pianta le sue foglie perde,
    quando s'apre il terren, quando s'imbianca,
    sempre quest'erba si sta intera e verde;
    o, se divien talor languida e manca,
    si ristora in un punto e si rinverde;
    quant'ombra più l'adugge e calor preme,
    tanto più spiega i fiori, e addoppia il seme.

    Donzella, che solinga abbia paura
    di notturno fantasma o sogno, o d'ombra,
    o di streghe, o di magica fattura;
    quando l'oscura notte il ciel più adombra,
    tenga quest'erba in seno, e stia sicura:
    a chi tanta tristezza il petto ingombra,
    che la trae quasi di se stessa fuore,
    mangi quest'erba che rallegra il core.

    E se stomaco avesse freddo e stanco,
    lo scalda, e lo rinforza al digerire;
    a chi rinchiuso umor noiasse il fianco,
    il sugo di quest'erba ne 'l fa uscire;
    feconde fa le sterili, empie il manco,
    e fa brutte subito abbellire:
    ma quel che più mi sembra cosa nuova,
    che tanto a fredde quant'a calde giova.

    Chi gli occhi avesse molli e 'l viso smorto,
    questa rasciuga il pianto, e l'incolora;
    chi piangess'il marito, absente o morto,
    questa lo trae d'ogni cordoglio fora.
    A che via nel parlar più mi trasporto,
    per dir quanta virtude in lei dimora?
    Il mondo tutto, e ciò che in sé riserba,
    spento in breve serìa senza quest'erba.

    M'accorgo nel mirar, ch'ognuna brama
    saper quest'erba, che cotanto io lodo:
    dirollo, per saziar l'ardente brama
    e dalle dubbie menti sciorvi il nodo.
    Quella non mi sovien come si chiama
    dagli ortolan di Roma, a un certo modo
    che vuol dir menta piccola tra noi,
    è l'erba, donne mie, degna di voi.

    Dimandate a color, che nelle scole
    tormentano i fanciul con penne e carte,
    e sanno il sugo trar delle parole,
    sì come voi dell'erbe, a parte a parte:
    quest'erba, che così nomar si suole,
    è cosa buona o rea nella nostr'arte?
    Essi 'l diranno; ma, per farvi liete,
    i' ve la mostrerrò, se voi volete.

    Ogn'alma trista col mirar rallegra,
    et ogni infermo corpo al gusto sana;
    s'alcuna tra voi, donne, vi fuss'egra,
    subito con quest'erba ella fia sana:
    lo stipe ha rosso, la radice ha negra;
    non la spregiate come cosa vana!
    Se non avesse in sé molta vaghezza,
    attendete il valor, non la bellezza.

    Il disio non s'appaga col parlare,
    per quant'i' scorgo: orsù, sciogliasi il laccio
    di quella tasca ove si suol serbare!
    Mentre, per trarla fuor, l'apro e dislaccio,
    se vi volete più maravigliare,
    una di voi dentro vi metta il braccio;
    ché, da lei tocca, in un momento cresce,
    e latte e mel della sua cima n'esce.

    Donne gentil, voi rivolgete il viso,
    chiaro mostrando, che 'l mio dir vi spiace.
    S'i' vo' mostrarvi il vostro paradiso,
    perché 'l mirar qual prima or non vi piace?
    Chi con le fronde il volto copre e 'l riso,
    chi si fa indietro, e chi ridendo tace:
    or non siate sì schive e vergognose,
    ché il fin s'attende ne l'umane cose.

    Deh, quanto errai nel cominciar del canto,
    giovane a chi 'l mio dir vo' sol che piaccia!
    Quando le vecchie vi levai da canto,
    deh, perché non vi tolsi ancor di faccia
    questa, che, avvolta di sanguigno manto,
    vi batte ne le guancie, e vi minaccia,
    e, per far onta a voi, gioia alle vecchie,
    a me chiude la bocca, a voi l'orecchie?

    Vattene via, Vergogna, vatten via,
    ch'altro color che 'l tuo vo' che ne copra!
    Seguite il suon dell'alta voce mia,
    voi che di Bacco esercitate l'opra:
    cacciam da noi questa malvagia e ria,
    che i vostri e i mie' tesor non vuol ch'io scopra!
    Vattene via, Vergogna aspra e severa,
    cagion ch'ogni piacer nel mondo pèra!

    Vergognar tu, Vergogna, ti dovresti
    d'apparir qui tra noi nel tempo quando
    le parole e i pensier gravi et onesti
    son da noi rilegati e posti in bando.
    Dovevi udir, se non sei sorda, questi,
    che ti van con lor grida discacciando;
    né puoi scusar, che 'l grido non s'intende,
    ch'ognun per farsi udir nell'aria pende.

    I tanti tuoi timor, tanti rispetti
    ai giorni sacri, e non a questi, serba:
    or con lascive voci, or con bei detti
    ognun le sue fatiche disacerba.
    Trova dunque, Vergogna, altri ricetti,
    mentre, per addolcir la pena acerba,
    colman de le lor grazie il nostro sacco,
    non Giove o Palla, ma Venere e Bacco.

    Poi che andar non sen vuol questa importuna,
    che partir si dovria, partendo il giorno,
    sì come quella, ch'a splendor di luna
    raro suole apparir né far soggiorno;
    e perché credo, oltra di ciò, che ognuna
    di voi voglia al suo albergo far ritorno,
    salvo chi restar meco desiasse,
    per veder se al mio dir l'opra aguagliasse:

    Itene in pace; e quei piacer, che l'ora
    n'ha tolti e la vergogna oggi dai petti,
    io prego Amor, dove ogni ben dimora,
    che gli riponga tutti ai vostri letti.
    Tosto ch'aprirà il ciel la bella Aurora,
    qualunque trae dolcezza de' miei detti
    di sfacciata prontezza il petto s'armi,
    e torni un'altra volta ad ascoltarmi.




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