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    Mario Rapisardi

    In vigilia nativitatis Domini

    ESSI son là, seduti in giro al verde
    Tappeto; in man le carte
    Ha Crispo, il baro gentiluom che perde
    Il primo giorno ad arte.

    Di contro a lui Mena sbuffante e rosso
    Squadra la faccia arcigna;
    L’audace seduttor Celio a ridosso
    Fuma l’avana, e ghigna.

    Fonde Miron la facultà sua nova,
    E con gentil contegno
    I baffi arriccia, e dà publica prova
    Che del suo stato è degno.

    La nuova sposa intanto a un nuovo damo
    Uccella, e cauta il piglia
    Al cubàttolo, e aggiunge qualche ramo
    A l’alber di famiglia.

    Sgrana Clodio il cisposo occhio, ed ammicca
    Al sozio, chè con frasche
    Accorte fra di lor Livio si ficca
    Visitator di tasche.

    Nè Fulvio manca il nobile bardassa
    Dal medicato crine,
    Che l’oro vinto rastellando ammassa
    Con le rosee manine;

    Mentre il rubesto Lio, mèsso a le strette
    Per angustia del loco,
    Gli si cuce a le groppe ritondette,
    Pensando a un altro gioco.

    Qui il baronetto da l’ambigua razza
    Pallido ride e scocca
    Arguzie, ed a supplir quel che biscazza
    Altr’oro a Taide scrocca.

    Bieco troneggia a canto a lui maestro
    Sosia, l’ingentilito
    Sensal, che perde men, benchè mal destro,
    Di quanto ha il dì rapito.

    Là il vecchio Grifio da la spelacchiata
    Zucca ritinta e da la
    Barba verdastra la sua posta guata,
    E se perde s’ammala.

    E intorno intorno, sporgendo il sembiante
    Ebete, la moneta
    Trepido gitta e mormora il galante
    Armento analfabeta.

    Nè perchè per le folte sale prave
    Stagnino l’aure, e i lumi
    Rossi usurpino l’aria ultima, grave
    Di rei flati e di fumi,

    O per la notte in nero agguato a l’uscio
    Sotto il nevoso azzurro
    Li abbranchi, ad onta del velloso guscio,
    Il frigido cimurro,

    Men protraggono il ludo arduo. Non vide
    La Patria, è ver, nei suoi
    Trionfi e ne le sue fortune infide
    Questa matta d’eroi;

    Non però de la Patria essa è men degna,
    Men generosa e forte,
    Se in altri campi e sotto ad altra insegna
    Sa dispregiar la morte.

    Oh viva! E tu fra tanto a la gentile
    Ammassa oro, e con epa
    Digiuna su’l piccone e su’l badile,
    Sozza canaglia, crepa.

    O, se l’ora notturna ozio concede
    A le tue membra fiacche,
    Corri a mugghiar del vecchio nume al piede
    Le tue preci vigliacche.

    Ma non più, ma non più nascer vedrai
    Su’l consueto strame
    Il novo Dio: troppo ha sofferto omai
    Dal freddo e da la fame;

    Troppo del Fariseo tristo il flagello
    Esercitò le prone
    Spalle. Ei rinasce: il mansueto agnello
    Tramutasi in leone;

    E rugge e lascia il nero antro. I palagi
    Tremano a’ suoi ruggiti,
    E quei che nuotan fra delizie ed agi
    Guatansi inorriditi;

    Guatansi. Da le rie mani a costoro
    Cadono le segnate
    Carte; le granfie gittano su l’oro...
    Qui, qui da le sudate

    Officine, da’ campi a voi fecondi
    Di triboli e di fame,
    Larghi d’ozj e d’amori inverecondi
    A l’aureo vulgo infame;

    Dal famelico mar, da’ covi in cui
    Co’ figli e la consorte
    Marcite, da le grotte ove ad altrui
    Scavate oro, a voi morte,

    Qui, qui irrompete, o tristi greggie umane,
    O vecchi, o spose, o madri,
    O bimbi senza vesti e senza pane,
    Ai ladri, ai ladri, ai ladri!


    Giustizia, 1883




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