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    Silvio Pellico

    Lodovico de Breme

    Non obliviscaris amici tui in animo tuo.
    (Eccli. 37. 6).


    Dacchè miei ceppi hai franto, e il subalpino
    Aere di novo, o sommo Iddio, respiro,
    Piena d’incanti è al guardo mio Taurino;
    Ma un caro ch’io v’avea cerco e sospiro.

    Qui Lodovico nacque, e parte visse
    De’ diletti suoi giorni, e qui patìo,
    E presso a morte qui le ciglia affisse
    L’ultima volta sul sembiante mio.

    E m’indicò le vie dov’ei solea
    Trar verso sera i solitarii passi,
    E il loco della chiesa ov’ei porgea
    Preci, me lunge, perchè a lui tornassi.

    Sì ch’ogni giorno or qua or là lo veggio
    Smorto ed infermo, e pien di lena sempre,
    Ed in ispirto al fianco suo passeggio,
    E parmi che sua voce il cor mi tempre.

    Negli estremi suoi dì quanto, o Signore,
    Altamente parlommi ei del Vangelo!
    Come esclamò che il rimordeano l’ore
    A gioie, a larve, e non sacrate al cielo!

    Ah, que’ detti m’affidano, e m’affida
    La tua clemenza, e lui beato io spero!
    Ma se ancor dolorasse, odi mie grida,
    Aprigli i gaudii del tuo santo impero.

    Debitor fui di molto a Lodovico:
    Sprone agli studii miei si fea novello;
    Ai dolci amici suoi mi volle amico,
    E più al suo prediletto Emmanuello.

    Ma in ver di Lodovico io l’amicizia
    Ingratamente troppo rimertai,
    Fera in quegli anni m’opprimea mestizia,
    Nè a lui la vita abbellir seppi io mai.

    Con indulgenza infaticata il pondo
    Ei reggea di mia trista alma inquïeta,
    E spesse volte da dolor profondo
    A sorriso traeami e ad alta meta.

    Per forte impulso de’ suoi cari accenti
    Energìa forse conseguii più bella:
    Quell’energia perch’uomo infra i tormenti
    Soffoca i lagni, e indomito s’appella.

    La facondia, l’amor, la pöesia
    Perscrutante e gentil de’ suoi pensieri
    Luce nova sovente all’alma mia
    Davan cercando i sempiterni veri.

    Quante fïate a’ gravi dubbii miei
    Mosse amichevol, generosa guerra,
    E me dai libri tracotanti e rei
    Svelse di lor, cui senza Dio è la terra!

    Se arditi di sua mente erano i voli
    Quando la mente ei di Platon seguiva,
    Pur temev’anco di ragione i dòli,
    Ed a’ piè dell’altar si rifuggiva.

    Te sorpreso di morte sì precoce,
    Deh! amico, non avesse il fero artiglio!
    Più fido mi vedresti ora alla Croce,
    Più concorde or sarìa nostro consiglio.

    E tu stesso maestri avendo gli anni,
    Con più sicura man rigetteresti
    Del secol nostro gli abbaglianti inganni,
    E tutti i lumi tuoi foran celesti.

    Ma fu per te misericordia certo,
    Che tu morissi pria dell’ora, in cui
    Trassi prigione in bolgie, ove deserto
    In grandi strazi per due lustri io fui.

    Le ambasce mie, le ambasce d’altri amici
    Troppo avrian tua pietosa alma squarciata:
    Chi vive sulla terra a’ dì infelici,
    Troppo ne’ danni i soli danni guata.

    Invece, assunto, come spero, al loco
    Ove in tutte sue parti il ver risplende,
    Veduto avrai che di sventura il foco
    Talor sana gli spirti a cui s’apprende.

    Veduto avrai siccome io, debol tanto
    Quando i miei dì fulgean più dilettosi,
    Nel supremo dolor contenni il pianto,
    E mia fiducia nell’Eterno posi.

    Veduto avrai siccome, fatto io preda
    Di lunghe dubitanze sciagurate,
    Solo in carcer la diva afferrai teda,
    Che mie maggiori tenebre ha sgombrate.

    Veduto avrai, dentr’anime più pure,
    Che non era la mia, nel duol costrette,
    Stimol gagliardo farsi le sciagure
    A volontà più fervide e più elette.

    Commiserato avrai noi doloranti,
    E reso grazie a Dio, tutti scernendo
    Dell’oprar suo sublime i fini santi,
    Pur quando sovra l’uom tuona tremendo.

    Tu mel dicevi un giorno, ed io superbo
    Crederlo non potea! Tu mel dicevi:
    « Dio non si mostra a sua fattura acerbo,
    Se non perchè l’amata a lui s’elèvi ».

    Non tutte sue fatture hann’uopo eguale
    Di venir da procella aspra battute,
    Ma tai ve n’ha che senza orrendo strale
    In fiacca letargìa sarian cadute.

    Nondimen di mia forza ancor non posso,
    No, glorïarmi, e spesse volte ancora
    Son da tristezza e da pietà commosso,
    E con suoi lumi Iddio non mi ristora.

    In quell’ore fantastiche di pena
    Godo passar dinanzi alle tue porte,
    E il core allor secreto pianto sfrena,
    Inconsolabil di tua infausta morte.

    Ma poi le tue sentenze generose
    Mi tornan nella mente, e il tuo sorriso;
    E m’inondano il sen dolcezze ascose,
    Ed anelo abbracciarti in Paradiso.

    Prego che tu vi sia! prego che appresso
    Al nostro Volta, ad ambiduo sì caro,
    Con lui mi guardi, e m’impetriate accesso
    Laddove col desìo già mi riparo!

    Dio, salvator di molti amici miei,
    Ch’a te in vita e più in morte alzaro il core,
    Di te indegno e di loro io mi rendei;
    A farmi degno, ti domando amore!




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