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    Vincenzo Monti

    Prometeo

    (canto I)

    L'accorto Prometéo, l'inclito figlio
    a cantar di Giapeto il cor mi sprona,
    e quanti sopportò travagli e pene
    per amor de' mortali, e qual raccolse
    di largo beneficio empia mercede,
    se la diva, cui tutta a parte a parte
    la peregrina istoria è manifesta,
    del suo favor m'aita, e non ricusa
    sovra italico labbro alcuna stilla
    d'antica derivar greca dolcezza.

    Ma de' suoi duri memorandi affanni
    qual dapprima dirò? Forse la pena
    del celeste suo furto, e di Pandora
    il fatal vaso e la fatal sembianza
    che di poca favilla al sol rapita
    fe' sopra il rapitor l'alta vendetta?
    O primamente del regal suo padre
    canterem la magnanima caduta
    e con lui tutta del titanio seme
    sterminata la gloria e la speranza,
    quando il forte Giapeto incontro a Giove
    stette e gran pezza del poter di sue
    folgori in cielo dubitar lo fece?
    Certo il grande conflitto, onde prostrata
    giacque d'Uran la generosa prole,
    che di sorte minor ma non d'ardire
    del ciel paterno la ragion perdéo,
    di gran suono potrebbe empir la cetra
    e dar molta al mio crin delfica fronda.
    Ma lunge troppo il canto andrìa; né penne
    per sì gran volo alle mie terga or sento.
    E già sull'erto Caucaso mi chiama
    de' liberi miei carmi disioso
    il solitario Prometéo, che, seco
    le rie vicende nel pensier volgendo
    di sua stirpe infelice, e l'ire ancora
    del superbo oppressor temendo accese
    (ché nel cor de' potenti a lunga prova
    ratto nasce lo sdegno e tardo muore),
    su quell'orride balze sconosciuti
    tragge misero eroe giorni dolenti:
    se non che, quando sotto il sacro velo
    delle tranquille tenebre notturne
    tace del biondo Ipperion la luce,
    ei, sovra il sommo della rupe assiso,
    delle stelle che son lingua del fato
    alle armoniche danze il guardo intende;
    e, con lor ragionando, i vaghi errori
    co' numeri ne frena e le fatiche,
    primo degli astri assalitor felice.
    Felice, se voler d'empio destino
    alla sciagura del suo lungo esiglio
    non aggiungea compagno Epimetéo;
    l'incauto Epimetéo stolto fratello,
    pel cui folle consiglio su la terra
    versò l'uomo ingannato il primo pianto
    e de' morbi sentì la punta acuta.
    Come volgesse un sì gran danno il fato
    ditelo, o sante Muse; e far vi piaccia
    al ver che teme di mostrar la fronte
    de' vostri accenti un verecondo velo.

    Vita vivendo incolta orrenda e dura
    l'umana gente, di pudore in tutto
    d'accorgimento e di ragion spogliata;
    e mal soffrendo del saturnio Giove
    il superbo pensier, che alla tremenda
    sua deità né tempio ancor sorgesse,
    né altar fumasse né suonar s'udisse
    su le labbra terrene il suo gran nome;
    di sé mandar quaggiù prese consiglio
    la conoscenza alfine e la paura,
    e dell'alma del par che delle membra
    le consonanti qualità diverse,
    ond'abito novello e più gentile
    dell'uom vestisse la mortal natura.
    Vols'anco il guardo agli animanti; e manche
    le facoltà veggendone e d'emenda
    necessitose, sì che nulla omai
    differenza avvisar sapea tra loro
    che di membra e di pelo e di figura,
    pietà n'ebbe il gran padre; e di lor pure
    fatto pensoso noverarli a parte
    del nuovo beneficio in cor concluse.

    Agl'imperi di Giove obbediente
    scese adunque Mercurio in aureo vase
    il celeste tesor seco recando,
    e di partirlo fra mortali e bruti
    al saggio Prometéo diè norma e cura
    ed allo stolto Epimetéo; ché tale
    era il senno di Giove ed il consiglio.
    Meravigliò turbossi a quel comando
    il maggior Giapetìda; e, perché tutti
    e di prudenza e di saper vincea,
    arretrarsi modesto ed escusarsi
    e non atto chiamarsi a tanta impresa,
    del cui solo pensiero il cor tremava.
    Ma l'altro, che di senno e d'intelletto
    avea povero il capo e nondimeno
    presuntuosi indocili e superbi
    i pensieri nudrìa (ché d'ignoranza
    ostinato figliuol sempre è l'orgoglio),
    si trasse innanzi baldanzoso, e, nullo
    timor prendendo del fatale incarco,
    sopra l'omero suo l'assunse, e disse:

    - Onorato di Maia egregio figlio,
    all'olimpo ti rendi; e questa reca
    non ingrata novella al tuo signore,
    che del provvido suo supremo cenno
    esecutor lasciasti Epimetéo. -

    Disse: e Mercurio i bei talari aperse,
    caro dono d'Apollo, onde volando
    le preste superava ale de' venti;
    e, della verga da Pluton temuta
    agitando le serpi, in un baleno
    fra le nubi si spinse, e sparve agli occhi.

    Ma del fraterno temerario ardire
    dolente Prometéo con amendue
    le man coprissi vergognando il volto;
    e, poiché tanta ad impedir follìa
    opra invan fe' di preghi e di consigli,
    s'involò sospirando; e al ciel converso

    - O Sole, ei disse, o tu che tutte osservi
    maestoso e tranquillo in tua carriera
    de' mortali le cure e de' celesti,
    se nell'ampio tuo corso unqua t'avvegna
    fuggitivo e ramingo in su la terra
    mirar qualcuno di mia stirpe oppressa,
    fammi fede con esso, o Sole amico,
    che niuna colpa nella colpa io m'ebbi
    dell'incauto fratello. Oh aure oh venti
    che dell'etra non pur scorrete i campi
    ma battete le penne anco sotterra
    e le bufere generate in grembo
    del morto regno, se di voi taluno
    là penetrar può dove il mio gran padre
    nel procelloso tartaro profondo
    di non giuste catene avvinto giace,
    a lui portate le mie voci, e conto
    gli fate, o venti, il mio destin crudele:
    ma non gli dite del minor suo figlio
    la demenza fatal; ché acerba al core
    sarìa del prode genitor ferita
    più che il cielo perduto, e sempiterno
    di tristezza argomento e di vergogna. -

    Così dicendo dileguossi; e mesta
    apparve al suo dolor l'aria e la luce.

    Lieto frattanto dell'assunta impresa,
    e dell'alto suo senno persuaso,
    impose mano all'opra Epimetéo.
    E primamente congregati i bruti,
    senza misura liberal fu loro
    dei tesori di Giove, e così larga
    quella sua stolta cortesia, che tutto
    scoperse il vaso in un momento il fondo.
    Dell'uomo allor si risovvenne; e gli occhi
    dentro l'urna ficcando, e sotto e sopra
    scotendola veloce onde un avanzo
    una reliquia ritrovarvi ancora
    della celeste dote, esser del tutto
    già consumata la conobbe alfine.
    A quella vista stupefatto e muto,
    le pupille abbassò; tremògli il core,
    gli tremar le ginocchia, e di man cadde
    il vasello fatal, che cupamente
    risonò rotolando in sul terreno.
    Indi qual meglio seppesi, e dell'uomo
    iniquamente del suo aver frodato
    le rampogne temendo e le querele,
    senza far motto, senza levar ciglio,
    pauroso e confuso allontanossi.
    Come fanciul che, quando manco il teme,
    còlto repente dalla madre in fallo,
    di vergogna s'imporpora, e la mano
    paventando severa che più volte
    gli fe' le orecchie dolorose e rosse
    queto queto s'arretra, e con obliquo
    occhio guatando al rischio suo s'invola:
    d'Epimetéo tal era in quel momento
    il fuggir l'arrossire e la paura.

    Or che farà l'insano? A qual de' numi
    o de' mortali chiederà consiglio,
    e con qual fronte? perocché del pari
    al cielo ei fece ed alla terra oltraggio.
    Misero! non gli avanza in quello stato
    altro più scampo che del buon germano
    implorar la pietà. Deposta adunque
    vergogna e tema (ché nel cor d'un folle
    la tema sempre e la vergogna è breve),
    a lui smarrito appresentossi e mesto;
    ed intero narrando il suo fallire
    - Deh! porgi, disse, all'error mio riparo,
    dolce fratello, se non vuoi che l'ira
    mi percota di Giove e mi distrugga;
    ch'egli ha ben d'onde fulminarmi, e troppo
    abbonda la ragion del mio castigo. -
    Ed in queste parole il delinquente,
    siccome vereconda verginetta,
    singhiozzando e pregando lagrimava.

    A quel pianto commosso, a quella doglia
    il generoso Prometéo rispose:

    - Dura mi chiedi e perigliosa impresa,
    miserando fratello; ed obliasti
    che da gran tempo dell'ingiusto Giove
    il sospetto m'osserva e la vendetta,
    da che spersi noi tutti e fulminati
    e dell'Olimpo eternamente privi
    noi miseri Titani ha quel superbo
    del fulmine signor, che vinti ancora
    tuttavolta ne teme e ne persegue
    iniquamente; perocché spietati
    fa la tema i tiranni, i quai demenza
    estimano l'amor santo del giusto
    e prudenza di regno esser crudeli.
    Quindi il barbaro in me da quel momento
    dell'oppresso Giapeto il sangue aborre,
    e, più che il sangue di Giapeto, il core
    che fermo e puro mi riscalda il seno,
    e l'intelletto di saper nutrito
    ond'anco ai numi m'avvicino e tutta
    senza vel mi si mostra la natura.
    L'invidia, fratel mio, col suo veleno
    assale ancor degl'immortali il petto:
    e dove in trono non s' asside il giusto,
    colpa divien, che mai non si perdona,
    dell'ingegno l'altezza e la virtude,
    e fortunata è l'ignoranza sola.
    Quindi non già tem'io di te, fratello,
    ché te dall'ira del crudel tiranno
    l'insipienza tua pone in sicuro;
    né duolmi no del tuo destin, ché poche
    son le pene ove poco è l'intelletto:
    dell'uom ben duolmi, un infinito a cui
    dannaggio partorì la tua stoltezza,
    sì che fatto è minor del bruto istesso.
    Ed io tel dissi, sconsigliato; e tu,
    e tu fede negasti a mie parole.
    Qual dunque adesso a tanto error salute?
    Poco ti parve agli animai largito
    aver scaltrezza ardir prudenza e senno
    e del futuro il sentimento ancora,
    che il più bello il più grande e prezioso
    hai lor profuso de' celesti doni;
    l'istinto io dico, quel divino occulto
    non mai fallace e sempre vivo istinto,
    che, con tacito cenno imperioso
    ciò che nuoce insegnando e ciò che giova
    dirittamente il bruto alla verace
    sua natural felicità conduce.
    Ciò che ieri gli piacque, anco domani
    gli piacerà. De' suoi pochi desiri
    il termine sta fisso; e ciò ch'ei trova
    il suo bisogno a satisfar bastante,
    sempre buon lo ritrova e sempre bello.
    Fortunato, che l'arte ei non conosce
    funesta e ria di fabbricar sventure,
    l'orribil arte di crear le brame.
    Fortunato, che docile la terra,
    e liberal gli partorisce il cibo,
    né col rastro gli è d'uopo e coll'aratro
    piagar sudando alla ritrosa il seno,
    né della vite spremere i funesti
    dolci veneni ad ammorzar sua sete.
    E fortunato ancor, che contro i nembi
    contro il furor de' verni e l'aspro morso
    dell'algente aquilon né vestimento
    indossar gli è mestieri né la fiamma
    ricercar di Vulcano entro la selce
    e de' lor rami dispogliar le piante.
    A lui spontanee l'erbe e senza l'uopo
    di chimico tormento la segreta
    lor medica virtù fan manifesta.
    A lui la pioggia il vento e la procella
    del lor muto appressar mandano il segno,
    perché cauto ne scampi o se n'allegri;
    e a lui la terra (meraviglia a dirsi!)
    i suoi profondi scuotimenti avvisa,
    quando a darle travaglio alza il tridente
    l'irato Enosigéo. Fuggendo allora
    atterrito per tutta la campagna,
    con fioche voci e con lunghi lamenti
    all'ignaro mortal predice e grida
    il vicin crollo della madre antica,
    ed accorto fa lui del suo periglio,
    dell'uom non meno che di sé pietoso.

    Né la virtù soltanto a lui si svela
    or innocente or ria che nelle fibre
    de' vegetanti imprigionò natura;
    né sol degli elementi ei sente e dice
    i vicini tumulti (ahi nostro danno,
    che il sapiente favellar del bruto
    capir non puote in intelletto umano!):
    ma fra l'immenso popolo diverso
    de' suoi simìli chi nel cuor gli desta
    dell'amico ad un tratto e del nemico
    la conoscenza? E quale iddio lo sforza
    a tremar di paura innanzi a questo,
    e innanzi a quello saltellar di gioia?
    Chi tal gli diede e tanto e sì sublime
    accorgimento, e ne lasciò l'uom privo?
    Fu la tua cieca largitate, o caro
    malaccorto fratello. Ahi che alla mano
    che lo profuse più non torna il dono!
    E taccio che partecipe del lampo
    della diva ragion lo festi ancora;
    la qual se pigra e languida e confusa
    nell'animante scintillar si vede,
    colpa è sol forse di sue membra a cui
    non fu del tatto liberal natura,
    né della lingua all'imperfetto guizzo
    permise la volubile parola.

    Nudo intanto ed inerme e degl'insetti
    al pungolo protervo abbandonato,
    l'uom, de' venti trastullo e delle piogge,
    or tremante di gelo or da' cocenti
    raggi del sole abbrustolato e bruno,
    ovunque fermi ovunque volga il piede,
    sia laddove d'Ammon ferve l'arena
    sia dove ha cuna e dove ha tomba il sole,
    dappertutto di vesti è l'infelice
    il molle corpo a ricoprir dannato;
    furando adesso la sua spoglia al solo
    quadrupedante, per furarla un giorno
    al vermicciuol pur anco ed alla pianta.
    Se talor tanto la gentil sua cute
    tollerando s'indura che gli eterni
    ghiacci pur giunga a sostener d'Arturo,
    e invan la pioggia lo flagelli invano
    d'Orizia il punga l'ispido marito;
    quanto affanno gli val quanto conflitto
    quel penoso trionfo? e quanta insieme
    natìa beltate al suo sembiante è tolta?
    Squallido, bieco, rabbuffato ed irto,
    di fiera il volto ei tien, di fiera il pelo;
    e l'uom nell'uomo tu ricerchi indarno.

    Né de' mali suoi tanti è qui la trista
    serie conclusa. Primamente l'aria
    co' vagiti a ferir l'invia natura
    di tuttequante idee povero e nudo.
    Misero! il solo de' viventi, il solo
    cui d'aita sprovvisto in sul medesmo
    limitar della vita aspra madrigna
    la gran madre abbandona e della Parca
    al severo governo lo rassegna.
    Egro piangente derelitto ei dunque
    né l'alimento suo né la materna
    poppa conosce, a suggere la morte
    pronto al par che la vita. Se vien manco
    l'opra un istante della pia nutrice,
    qual nauseoso miserando obbietto!
    Uopo è dal corpo tenerello e nudo
    degli elementi allontanar l'insulto,
    uopo è il passo insegnargli e la favella.
    Né migliora, crescendo, il suo destino.
    Se vuol la piena traversar d'un fiume,
    pria del nuoto imparar l'arte è costretto.
    Se del ventre i latrati acquetar brama,
    la dolce stilla del materno seno
    mutar gli è forza nel caonio frutto,
    e coll'aspro cinghial nella foresta
    miseramente disputarsi il vitto.

    Verrà poi tempo, è ver (ché l'alma Temi
    delle sorti potente e del futuro
    a me nell'antro del Parnaso il disse,
    e molte rivelò meravigliose
    dell'oscuro avvenir tarde vicende),
    tempo verrà che Cerere divina,
    delle provvide leggi ispiratrice,
    dal ciel recando una gentil sua pianta,
    cortese ne farà dono alla terra;
    e dagli alati suoi serpenti addotto
    Trittolemo inviando, un cotal figlio
    di Metanira, a propagarne il seme
    e l'uso ad insegnar del curvo aratro,
    farà col senno e l'arte e la pietade
    all'uom corretto abbandonar le querce
    ed abborrir dell'irte fiere il cibo.
    Ma parergli ben caro un sì bel dono
    gli farà di Giunon l'aspro marito:
    perocché dio severo, i petti umani
    sollecitando con pungenti cure,
    comanderà di tutte l'erbe inique
    l'empio parto alla terra, onde penoso
    del frutto cereal venga l'acquisto.
    Di triboli e di felce orridi i campi
    si vedran largamente. Aspra boscaglia,
    l'ispido cardo e la sdegnosa ortica
    abbonderà per tutto; e dei sudati
    nitidi cólti si faran tiranni
    l'ostinata gramigna il maledetto
    loglio e le vote detestate avene;
    le quai proterve alla divina pianta
    il delicato corpo soffocando
    e involando l'umor del pio terreno,
    ingiusta le daran morte crudele.
    Né fian già questi gli avversari soli.
    Che palpitar di tema e di sospetto
    il faticoso agricoltor faranno.
    Allorché volte al rapitor cornuto
    dell'agenorea figlia il sol le terga
    de' fratelli Ledéi la spera infiamma,
    e susurrando la matura spiga
    le bionde chiome inchina e chiamar sembra
    l'operoso villano a corne il frutto,
    ecco nuovi terrori all'infelice,
    ecco nuovi perigli e nuovi affanni.
    La saltante gragnuola il caldo vento
    i torrenti le selve e le voraci
    torme pennute gli saran sovente
    di lagrime cagione e di sospiri.

    So ben che, quando di Dodona il vitto
    in altro vitto cangeran le genti,
    nuove sembianze ancora e nuovo rito
    prenderà l'universo. All'auree stelle
    darà figura allor sentiero e nome
    l'audace navigante. Allor recise
    dai patrii gioghi scenderan le querce,
    che su i flutti volando andran superbe
    co' venti a rinnovar la lite antica
    e in remote a portar barbare terre
    merci a vicenda e, più d'assai che merci,
    costumanze e follie, morbi ed errori.
    In uso volgerà dell'uomo allora
    i suoi fuochi Vulcan, de' quai nascose
    l'invido Giove nella fredda selce
    gli elementi immortali. Le sue care
    forme divine scoprirà natura;
    germoglieran gli affetti e tutte insomma
    si schiuderanno del desir le fonti,
    che dovran l'uman cuore impetuose
    irrigar sempre e non sbramarlo mai.
    Generato il desir, tosto pur fia
    generato il bisogno. E questo sozzo
    mostro ingegnoso, col dolore al fianco
    che acuto il punge, e col piacer da fronte
    che dolce il chiama e l'aspra via gl'infiora,
    s'ammoglierà non pigro alla malvagia,
    che tutto vince, indomita fatica;
    e con vile connubio alle pudiche
    arti darà la prima vita, all'arti
    di turpe genitor figlie vezzose.

    Dall'antico suo stato a mano a mano
    dunque l'uom tolto, ed innocente in prima
    nelle selve gli augei nell'onde i pesci
    insidiando; e poi fidando avaro
    il frumento alla terra, al mar la vita;
    reggitor della sua, poscia di molte
    congregate famiglie; indi le mura
    e le leggi ponendo in sua difesa;
    indi in sen di natura in sen di Giove
    spingendo il guardo, e all'un strappando e all'altra
    l'oscuro vel che li tenea nascosi;
    alfin dal seggio, in che gli avea locati
    il suo primo timor, cacciando i numi,
    e sé stesso mettendo in quella vece
    dalla forza protetto e dal terrore;
    l'uom, dico, a tanta di pensieri altezza
    e delle cose alla cagion salito,
    sé stesso, ahi folle! estimerà felice:
    e misero più fia, quanto più lunge
    l'arte vedrassi allontanar natura.

    Sorgeran le città, si cangeranno
    in superbi palagi le divelte
    rupi, e morbide coltri e aurate travi
    difenderanno de' mortali il sonno.
    Più lauto il cibo più gentil la veste
    troveranno le membra, e su le labbra
    verrà d'amico più frequente il nome,
    e più stretti gli amplessi e più soavi
    faransi i modi e più cortesi i detti:
    ma più bugiardo batterà nel petto
    il cor pur anco, e latreran più vivi
    i suoi rimorsi; più fugaci i sonni,
    più fugace la vita; e con avaro
    confin divisi si vedranno i campi,
    e risonar la barbara parola
    s'udrà del tuo del mio. Sovra le mense
    manderan l'erbe i lor veleni, e colme
    delle madrigne ne saran le tazze
    e le tazze de' regi. Infame ordigno
    diverranno di morte il bronzo e il ferro;
    e, più del ferro e più del bronzo infame,
    l'oro esecrato a tutte colpe il varco
    spalancherà, poiché divelto un giorno
    un rio demon l'avrà dal violato
    sen della terra, che il chiudea gelosa,
    del suo parto fatal forse pentita.
    Di Temide per lui calcata e franta
    si vedrà la bilancia, ed il delitto
    lieto esultar dell'innocenza oppressa:
    per lui mendica la virtù, per lui
    ricco–vestita l'ignoranza, mute
    d'onor le leggi, e con nefandi incensi
    adorata la colpa e il ciel tradito.

    Luogo sarà nelle cittadi impuro,
    d'ogni vizio sentina, a cui di corte
    daran nome i mortai, d'abisso i numi.
    Quell'avversaria d'ogni patto, e d'ogni
    scelleranza maestra e consigliera,
    Ambizion vi sederà reina:
    né in veruna così, siccome io veggo
    nella man di costei, fabbro di mali
    sarà l'empio metallo, onde la cruda
    non pur la terra comprerà ma il cielo.
    Quindi (iniquo mercato!) alla superba
    l'amico un giorno venderà l'amico,
    la consorte il marito, e la sua patria
    sacrilego ed infame il cittadino;
    a lei spergiuro le battaglie e il sangue
    de' suoi prodi guerrieri il capitano;
    a lei le ròcche il traditor custode,
    e la voce de' numi il sacerdote.
    E per lei nelle fervide fucine
    suda Vulcano, in omicidi arnesi
    le pacifiche falci figurando
    e i vomeri innocenti: e Marte intanto
    lo scudo imbraccia e la grave asta impugna,
    e l'ugna de' cavalli procellosi
    sanguinando per tutta la campagna,
    di pianti allaga e di delitti il mondo.

    Oh Marte! oh guerra! orribil mostro, nato
    (chi 'l crederia?) nel cielo; ove d'olimpo
    i cardini scuotesti, e colla tua
    sanguigna face violasti il puro
    delle vergini stelle almo candore,
    e le prime saette in man ponesti
    contro Saturno di Saturno al figlio;
    oh guerra! oh delle Furie la più ria,
    la più ria delle Furie e la più antica!
    Al tremendo tuo nome il ciel si turba
    per la memoria della prisca offesa,
    e sbigottita palpita natura.
    D'amor di caritate i santi nodi
    tu rompesti primiera, e contro i padri
    i figli armasti ambiziosi e crudi,
    e i fratelli azzuffasti co' fratelli.
    Le sitibonde glebe e ber sol use
    le lagrime dell'alba tu con altre
    stille disseti, e con allegro piede
    squarciate membra calpestando e bocche
    spiranti e petti palpitanti ancora
    in tiepida di sangue atra laguna,
    con fiera gioia a quell'orror sorridi,
    crudele!, e l'inno di vittoria intuoni;
    mentre sulla tua gota a calde gocce
    gronda sangue l'allòr che ti corona.
    Ahi! che tu sulle stesse are de' numi
    sovente arruoti i tuoi pugnali, ed osi
    santificar le colpe e temeraria
    la vendetta arrogarti anco del cielo,
    del ciel che tutta a sé serbolla ed alto
    all'uom gridò - Mortal, perdona ed ama. -
    E l'uom, sordo a quel grido e dai sonori
    serpi d'Aletto flagellato e spinto,
    l'un si squarcia coll'altro, e la più bella
    a struggere dell'opre s'affatica
    in che tanto pensier pose natura.
    Sangue corrono i campi, e sangue i fiumi;
    sangue si vende, oh dio!, sangue si compra,
    e tradimento e forza a piè del trono
    fan l'orrendo contratto. Occulta intanto
    e d'atro velo ricoperta il viso,
    la celeste pietà di porta in porta
    va, delle spose scapigliate e degli
    orfani figli e de' padri cadenti
    asciugando le lagrime furtive;
    furtive, e agli occhi e al mesto cor sol note,
    poiché aperto dolor già fatto è colpa.
    Deh, santissima dea! se chiusi in terra
    sono i cuor de' tiranni alle tue voci,
    se dei traditi vacillanti troni
    ferma è pur la ragion, che d'altre piaghe
    solcar si debba dell'Europa il petto,
    perché tutto nell'angliche catene
    gema Nettuno e fornicar si vegga
    con peggior drudi l'agenorea figlia,
    deh! tu squarcia le nuvole, e passaggio
    dell'oppresso universo apri alle grida.
    L'ale impenna ai sospiri, e nell'orecchio
    del maggior nume come tuon li spingi.
    Destalo: ed egli le saette impugni
    già troppo neghittose, e sul tonante
    carro immortal di sua giustizia assiso,
    della terra, che tutta peccatrice
    furiando delira e si distrugge,
    la gran contesa a giudicar discenda. -

    Così parlava il ben veggente e giusto
    delle caucasee rupi abitatore;
    e, tutto foco i rai, foco le gote,
    del remoto futuro entro gli abissi
    spingea le luci, che l'antica Temi
    lunga stagion gli avea nella divina
    grand'arte de' profeti esercitate.
    E in quel sacro furor l'alma rapito
    che i secoli sormonta e tutto al guardo
    il turbine veloce e la ruina
    dell'umane vicende sottomette,
    mentre signor del fato e del suo libro
    col più tardo avvenir parla il pensiero,
    vedea quel saggio fra tempeste e nembi
    sopra libere penne al ciel levarsi
    della terra i sospiri, e seguitarli
    con obliqui occhi e con incerto passo
    (quali il greco cantor poscia le vide)
    le dolorose ed umili Preghiere,
    di lagrime per via bagnando il viso
    e tutto alla pietà movendo il cielo.
    Abbracciar le ginocchia le vedea
    d'un dio maggior di Giove, a cui salire
    distinto non sapeva il suo concetto
    né nomarlo il suo labbro; e questo dio
    stender la destra alle dolenti dive,
    ed inchinar sovr'esse i maestosi
    suoi neri sopraccigli, onde le chiome
    d'ambrosia rugiadose tremolando
    sulla fronte immortal diero una scossa
    che tutto fece traballar l'olimpo.
    Poi dalla grande orribile farètra,
    che Morte ed Ira sue ministre al piede
    rinfrescando gli vanno e mai non votasi,
    il fulmine prendea, con cui tremendo
    ai mortali ragiona il suo disdegno.
    E tosto innanzi un giovinetto eroe
    gli comparìa, che il gesto e il portamento
    avea di Marte, e Marte egli non era.
    Tricolor cinto gli fasciava il fianco
    superbamente, e tricolor cimiero
    gli ondeggiava sul capo. La sua fronte,
    di cortesia temprata e di fierezza,
    profondi palesava alti pensieri;
    alla fronte di Giove simigliante,
    quando Pallade ancor non partorita
    gli affaticava l'immortal cerébro.
    L'ineffabile nume onnipossente
    a lui quindi facea queste parole:

    - Prendi, invitto guerrier, prendi securo
    la folgore di Dio. Per me la vibra
    su gli ostinati troni, omai di troppo
    sangue vermigli; col mio strale in pugno,
    a chieder pace a supplicar gli sforza;
    e finisca per te del mondo il pianto. -
    Così dicendo, il fulmine supremo
    gli consegnò; né della man mutata
    accorgersi parea l'arme divina,
    ma più terribil anzi e più sdegnosa
    guizzar nel pugno del novello erede.
    Ed ei con braccio vigoroso e saldo
    su i germanici campi la vibrava
    fieramente. Al nitrito al calpestìo
    de' gallici cavalli risonavano
    le retiche montagne, e attrita e pesta
    sotto l'ugne ferrate si scaldava
    la vindelica neve. Non potea
    stupefatto raggiungere il pensiero
    di sue vittorie il volo, e non ardìa
    darle tutte la Fama alla sua tromba,
    paventando bugiarda esser tenuta.
    Al fragor de' suoi tuoni, al truce lampo
    de' tremendi suoi sguardi e di sua spada,
    ivan l'onde dell'Istro impaurite,
    e con volo di timida colomba
    fuggia scema dell'ali e degli artigli
    la bellicosa degli augei reina.
    Tremava tutta e si battea la guancia,
    del contumace suo furor pentita,
    la superba Lamagna; e del suo sangue
    tinto e satollo alfin sorgea l'olivo.
    All'apparir che fea sulle gelate
    noriche vette l'arbore divina
    esultava la terra, e rispettosi
    a baciarla venieno a carezzarla
    con molli penne d'ogni parte i venti.
    Sulle pannonie rupi alto sferzando
    i destrier rugiadosi in sul mattino
    la salutava il Sole, e con soave
    riso di luce dal mortal suo sonno
    tutto svegliava a nuova vita il mondo.
    Riconducean secure al pasco antico
    l'allegre pastorelle i cari armenti.
    Affilava cantando il villan duro
    il curvo dente di Saturno, e lieto
    l'ore affrettava di troncar la spica;
    ché d'oltraggio guerrier più non temea.
    Qua stringesi una madre al seno il figlio
    cui già spento piangea, né al ciel si sente
    più lamentarse del fecondo grembo.
    Là del salvo marito al collo gitta
    una tenera sposa ambe le braccia,
    e, sull'adusto affaticato petto
    le ferite cercando, con pietosa
    bocca le bacia, e colla man le tenta
    ripugnante d'orror. Odesi altrove
    risonar d'inni il tempio e, sciolte in fumo
    van l'odorate lagrime sabée
    lassù le nari a rallegrar de' numi.
    E per le piazze intanto e per le vie
    un trambusto di danze e di guerrieri
    cantici e ludi; un esclamar per tutto,
    un abbracciarsi, un fremere di gioia,
    che di dolce follìa l'alme rapisce.
    E in cotanta esultanza ecco novello
    di letizia argomento; ecco Minerva
    che la sazia di sangue pesante asta
    depon placata, e ne' cecropii prati
    le vergini cavalle a pascer manda
    il trifoglio divin, mentre lo scudo
    stan nel fiume a lavar d'Argo le figlie.
    Ed essa la gran dea per l'ampie sale
    de' peripati l'attiche lucerne
    raccende, in nembo d'erudita polve
    strascinando il regal paludamento.
    Riviver liete d'ogni parte vedi
    d'Academo le selve, e in gran frequenza
    correr l'Arti a sudar nei sacri arringhi.
    Quindi un picchio incessante un cigolìo
    di scalpelli e di marmi, un mescolarsi
    di colori e pennelli onde operose
    prendon le tele sentimento e vita;
    poi di cetre un fragor, che vario e dolce
    scorre sull'alme e giù dal balzo arriva
    del beato Elicona. Ivi seduto
    fra le pudiche aganippee fanciulle
    lo stesso di Latona inclito figlio
    di quel famoso giovinetto i forti
    fatti cantava e le fatiche e l'ira,
    con questo carme innamorando il cielo.

    - Chi è colui che rapido qual folgore
    scende dal monte, e sguardi formidabili
    vibra in sembianze giovanili e tenere?
    Lo precorre Bellona; e sotto il fervido
    calpestar dei fumanti atri cornipedi
    tremano l'Alpi, e su le porte cozie
    l'italo genio spaventato affacciasi,
    memore ancor dell'ardimento punico.
    Oh del primo maggior secondo Annibale,
    pochi sono i tuoi forti, e non si coprono
    di ferro il petto né l'aìta affidali
    di numidi elefanti, ma del gallico
    valor l'usbergo portano sull'anima,
    e l'arte sanno di morire o vincere.
    Oh val di Dego orrenda! oh gioghi indomiti
    di Montenotte! oh re de' fiumi Erìdano!
    E tu Mincio fatal, che di cadaveri
    le tue lagune già vedesti crescere
    e dal nido natìo smarrita e pallida
    l'ombra involarsi del cantor di Mantova;
    e voi dell'Adda iniqui ponti, e d'Arcoli
    ostinate pianure; e voi di Rezia
    fieri dirupi, e dell'estremo Norico
    risonanti fucine ove fa gemere
    Vulcano a Marte la tedesca incudine;
    dove son, rispondete, i vostri eserciti?
    Dove i duci i cavalli e i tuoni e i fulmini
    de' vostri bronzi? e il fior più scelto e vivido
    della bionda Lamagna? Ohimè! l'italico
    campo del sangue di quei prodi impinguasi,
    e vagar l'insepolte ombre si veggono
    sdegnosamente e fremere sull'Adige
    di germanica strage ingombro e turgido.
    Salve, o madre d'eroi, salve, terribile
    francese Libertà! salve, magnanimo
    campion che chiudi in fior di membra altissimo
    vigor di senno! A te dinanzi attonita
    tace la terra: ma dolente mòstrati
    le non ben rotte sue catene Ausonia,
    e di spezzarle interamente prégati.
    Deh l'ascolta per dio! deh forte avvolgile
    la man nel crine venerando, e salvala;
    ch'ella t'è madre, e le materne lagrime
    al cor d'un figlio la pietà comandano.
    Poi sull'olimpo che t'aspetta il nèttare
    vien co' numi a libar fra Giove ed Ercole. -

    Questi accenti sposava alla sua cetra
    il signor delle Muse; e, mentre i boschi
    di Pindo e Citeron molce il suo canto,
    tacciono i sacri ruscelletti, e l'aure
    non osano di far rissa e bisbiglio.
    Stillavan tutti liquida fragranza
    i suoi biondi capelli, e all'agitarsi
    della testa immortal quante sul suolo
    cadean le gocce del licor celeste
    tante nascean viole ed asfodilli.
    Poi, finito il cantar, dell'aurea fronte
    toglieasi Febo il suo bel lauro istesso,
    di poeti superbia e di guerrieri,
    e dell'invitto lo ponea sul crine.
    Allor dal volto dell'eroe partissi
    tal di raggi e di lampi un largo nembo
    che tutta di sua luce empiea la terra;
    non da quella diversa che Minerva
    sul capo accese del divino Achille
    e tremenda a toccar gli astri giungea,
    quando apparve de' Teucri all'improvviso
    sul terribile fosso, e alla sua vista
    si rovesciar cavalli e cavalieri
    confusamente, e salva si sottrasse
    dall'ettoreo furor la combattuta
    esangue spoglia del diletto amico.
    Tal era lo splendor che dalle care
    fiere sembianze del guerriero uscìa.
    Tergea l'Europa, in lui mirando, il pianto,
    e, il suo possente salvator da lungi
    colla manca accennando alle sorelle,
    porgea lor colla destra il ramoscello
    del sacro olivo, e promettea che presto
    colla vindice man tolte le avrìa
    dell'anglico ladrone alle catene.
    Carco d'odii frattanto e di delitti,
    con mozzi artigli e dischiomata giuba,
    agonizzar dell'Adria si vedea
    l'orgoglioso decrepito lione:
    e all'avara del Tebro meretrice
    dai scettrati suoi drudi abbandonata
    cadean guaste dagli anni e vilipese
    le tre corone al crin lascivo avvinte.

    D'arcano velo circondati e chiusi
    eran questi i portenti che per entro
    la sacra notte del futur vedea
    l'indovino Titano: e preso intanto
    di stupor di rispetto e di paura
    non alitava non battea palpèbra
    a quell'alte parole Epimetéo.
    E come, quando ne' Carpazii flutti
    che avea turbati l'aquilon, se chiude
    l'enfiata bocca l'iperboreo dio
    e gli muor la procella in su le labbra,
    a poco a poco quetasi pur anco
    la discordia dell'onde, e al sol che torna
    leggiadramente tremolar le vedi;
    allor la rete il pescator ripiglia,
    ed allegro il nocchier, lasciando il porto
    e spiegando la vela, al mar di nuovo
    le sue speranze crede e la sua vita:
    non altrimenti di Giapeto al figlio,
    poiché lo spirto racquetossi e il petto
    dal profetico ardor sconvolto e scosso,
    il primo volto venne il color primo.
    E calmato e sereno - Or via, fratello,
    datti pace, soggiunse: al tuo fallire
    non disperar salute: io te n'affido,
    sorgerà l'uomo dal suo basso stato,
    e tanto al ciel si leverà sublime
    che d'invidia n'andran pur tocchi i numi. -

    Disse: e, nel cor magnanimo premendo
    il suo disegno, e dal disìo soltanto
    di liberar le sue promesse acceso,
    verso la sacra argolica contrada
    per molta terra e molto mar divisa,
    come del fato lo spingea la forza,
    senza più dubitar prese la via.
    E doloroso di lasciar l'antico
    dolce ricetto - Addio, sclamava, addio,
    care selve beate, che ramingo
    nel vostro sen mi riceveste il giorno
    che mal del cielo disputò l'impero
    il misero mio padre, e voi pietose
    agli strali di Giove in quel periglio
    mi nascondeste, né veruno il seppe
    de' mortali gran tempo e de' celesti.
    Salve, rupe sublime, ov'io solea
    nei sacri della notte alti silenzi
    interrogar le stelle e in quei lucenti
    volti del fato esaminar le vie;
    mentre queti d'intorno e rispettosi
    tacean sul monte e nella selva i venti,
    e sol nell'ombra mormorar da lunge
    quinci il Caspio s'udìa quindi l'Eusino.
    Addio, sonante Arrago; addio, veloce
    onda del Gerro, alle cui fonti assiso
    io salutava in oriente il sole,
    e contemplar godea come all'aspetto
    dell'immortal sua lampa genitrice
    rivestivansi allegre e rugiadose
    del deposto color l'erbette e i fiori
    e tutta dal suo sonno uscìa la terra.
    Voi dunque di mie veglie e di mie pene
    confidenti pietosi, o boschi, o fiumi,
    o spelonche, o dirupi, ricevete
    del fido vostro solitario amico
    i dolenti congedi. Io v'abbandono:
    ma il cor che spesso l'avvenir segreto
    co' suoi palpiti avvisa, il cor mi viene
    significando occultamente in petto
    che tornerò pur anco al vostro seno,
    ed illustre darò perpetua fama
    con più grandi sventure a queste rupi.

    Note

    Vincenzo Monti fece pubblicare questo primo canto a Bologna nel 1797. Il secondo e terzo canto non vennero invece pubblicati, e uscirono postumi.




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