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    Alessandro Manzoni

    In morte di Carlo Imbonati

    Versi di Alessandro Manzoni a Giulia Beccaria sua madre
    Ch'ambo i vestigi tuoi cerchiam piangendo.
    Casa, Gennaio 1806


    Se mai più che d’Euterpe il furor santo
    E d’Erato il sospiro, o dolce madre,
    L’amaro ghigno di Talia mi piacque
    Non è consiglio di maligno petto.
    Né del mio secol sozzo io già vorrei
    Rimescolar la fetida belletta,
    Se un raggio in terra di virtù vedessi,
    Cui sacrar la mia rima. A te sovente
    Così diss’io: ma poi che sospirando,
    Come si fa di cosa amata e tolta,
    Narrar t’udia di che virtù fu tempio
    Il casto petto di colui che piangi;
    Sarà, dicea, che di tal merto pera
    Ogni memoria? E da cotanto esemplo
    Nullo conforto il giusto tragga, e nulla
    Vergogna il tristo? Era la notte; e questo
    Pensiero i sensi m’avea presi; quando,
    Le ciglia aprendo, mi parea vederlo
    Dentro limpida luce a me venire,
    A tacit’orma. Qual mentita in tela,
    Per far con gli occhi a l’egra mente inganno,
    Quasi a culto, la miri, era la faccia.
    Come d’infermo, cui feroce e lungo
    Malor discarna, se dal sonno è vinto,
    Che sotto i solchi del dolor, nel volto
    Mostra la calma, era l’aspetto. Aperta
    La fronte, e quale anco gl’ignoti affida:
    Ma ricetto parea d’alti pensieri.
    Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso
    Non difficile il labbro. A me dappresso
    Poi ch’e’ fu fatto, placido del letto
    Su la sponda si pose. Io d’abbracciarlo,
    Di favellare ardea; ma irrigidita
    Da timor da stupor da reverenza
    Stette la lingua; e mi tremò la palma,
    Che a l’amplesso correva. Ei dolcemente
    Incominciò: Quella virtù, che crea
    Di due boni l’amor, che sian tra loro
    Conosciuti di cor, se non di volto,
    A vederti mi tragge. E sai se, quando
    Il mio cor ne le membra ancor battea,
    Di te fu pieno; e quanta parte avesti
    De gli estremi suoi moti. Or poi che dato
    Non m’è, com’io bramava, a passo a passo
    Per man guidarti su la via scoscesa,
    Che anelando ho fornita, e tu cominci,
    Volli almeno una volta confortarti
    Di mia presenza. Io, con sommessa voce,
    Com’uom, che parla al suo maggiore, e pensa
    Ciò che dir debba, e pur dubbiando dice,
    Risposi: Allor ch’io l’amorose e vere
    Note leggea, che a me dettasti prime,
    E novissime furo; e la dolcezza
    De l’esser teco presentia, chi detto
    M’avria che tolto m’eri! E quando in caldo
    Scritto gli affetti del mio cor t’apersi,
    Che non saria da gli occhi tuoi veduto,
    Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo
    Di te nutrissi desiderio, il pensa.
    E come il pellegrin, che d’amor preso
    Di non vista città, ver quella move;
    E quando spera che la meta il paghi
    Del cammin duro e lungo, e fiso osserva
    Se le torri bramate apparir veggia;
    E mira più da presso i fondamenti
    Per crollo di tremuoto in su rivolti,
    E le porte abbattute, e fòri e case
    Tutto in ruina inospital converso;
    E i meschini rimasti interrogando,
    Con pianto ascolta raccontar dei pregi
    E disegnar dei siti; a questo modo
    Io sentia le tue lodi; e qual tu fosti
    Di retto acuto senno, d’incolpato
    Costume, e d’alte voglie, ugual, sincero,
    Non vantator di probità, ma probo:
    Com’oggi al mondo al par di te nessuno
    Gusti il sapor del beneficio, e senta
    Dolor de l’altrui danno. Egli ascoltava
    Con volto né superbo né modesto.
    Io rincorato proseguia: Se cura,
    Se pensier di quaggiù vince l’avello
    Certo so ben che il duol t’aggiunge e il pianto
    Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,
    Te perdendo, ha perduto. E se possanza
    Di pietoso desio t’avrà condotto
    Fra i tuoi cari un istante, avrai veduto
    Grondar la stilla del dolor sul primo
    Bacio materno. Io favellava ancora,
    Quand’ei l’umido ciglio e le man giunte
    Alzando inver lo loco onde a me venne,
    Testamente sorrise, e: Se non fosse
    Ch’io t’amo tanto, io pregherei che ratto
    Quell’anima gentil fuor de le membra
    Prendesse il vol, per chiuder l’ali in grembo
    Di Quei, ch’eterna ciò che a Lui somiglia.
    Ché finch’io non la veggo, e ch’io son certo
    Di mai più non lasciarla, esser felice
    Pienamente non posso. A questi accenti
    Chinammo il volto, e taciti ristemmo:
    Ma per gli occhi d’entrambi il cor parlava.
    Poi che il pianto e i singulti a le parole
    Dieder la via, ripresi: A le sue piaghe
    Sarà dittamo e latte il raccontarle
    Che del tuo dolce aspetto io fui beato,
    E ridirle i tuoi detti. Ora, per lei
    Ten prego, dammi che d’un dubbio fero
    Toglierla io possa. Allor che de la vita
    Fosti al fin presso, o spasimo, o difetto
    Di possanza vital feceti a gli occhi
    Il dardo balenar che ti percosse?
    O pur ti giunse impreveduto e mite?
    Come da sonno, rispondea, si solve
    Uom, che né brama né timor governa,
    Dolcemente così dal mortal carco
    Mi sentii sviluppato; e volto indietro,
    Per cercar lei, che al fianco mio mi stava,
    Più non la vidi. E s’anco avessi innanzi
    Saputo il mio morir, per lei soltanto
    Avrei pianto, e per te: se ciò non era,
    Che dolermi dovea? Forse il partirmi
    Da questa terra, ov’è il ben far portento,
    E somma lode il non aver peccato?
    Dove il pensier da la parola è sempre
    Altro, e virtù per ogni labbro ad alta
    Voce lodata, ma nei cor derisa;
    Dov’è spento il pudor; dove sagace
    Usura è fatto il beneficio, e brutta
    Lussuria amor; dove sol reo si stima
    Chi non compie il delitto; ove il delitto
    Turpe non è, se fortunato; dove
    Sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.
    Dura è pel giusto solitario, il credi,
    Dura, e pur troppo disegual, la guerra
    Contra i perversi affratellati e molti.
    Tu, cui non piacque su la via più trita
    La folla urtar che dietro al piacer corre
    E a l’onor vano e al lucro; e de le sale
    Al gracchiar voto, e del censito volgo
    Al petulante cinquettio, d’amici
    Ceto preponi intemerati e pochi,
    E la pacata compagnia di quelli
    Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,
    Segui tua strada; e dal viril proposto
    Non ti partir, se sai. Questa, risposi,
    Qualsia favilla, che mia mente alluma,
    Custodii, com’io valgo, e tenni viva
    Finor. Né ti dirò com’io, nodrito
    In sozzo ovil di mercenario armento,
    Gli aridi bronchi fastidendo e il pasto
    De l’insipida stoppia, il viso torsi
    Da la fetente mangiatoia; e franco
    M’addussi al sorso de l’Ascrea fontana.
    Come talor, discepolo di tale,
    Cui mi saria vergogna esser maestro,
    Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui preso
    Di tanto amor, che mi parea vederli
    Veracemente, e ragionar con loro.
    Né l’orecchio tuo santo io vo’ del nome
    Macchiar de’ vili, che oziosi sempre,
    Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro
    L’operosa calunnia. A le lor grida
    Silenzio opposi, e a l’odio lor disprezzo.
    Qual merti l’ira mia fra lor non veggio;
    Ond’io lieve men vado a mia salita,
    Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,
    Se di te vero udii che la divina
    De le Muse armonia poco curasti.
    Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque
    Di chiaro esempio, o di veraci carte
    Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
    In onor sommo. E venerando il nome
    Fummi di lui, che ne le reggie primo
    l'orma stampò de l'italo coturno:
    E l'aureo manto lacerato ai grandi,
    Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
    E di quel, che sul plettro immacolato
    Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.
    Cui, di maestro a me poi fatto amico,
    Con reverente affetto ammirai sempre
    Scola e palestra di virtù. Ma sdegno
    Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
    Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
    L'immondizia del trivio e l'arroganza
    E i vizj lor; che di perduta fama
    Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
    Far di lodi mercato e di strapazzi.
    Stolti! Non ombra di possente amico,
    Né lodator comprati avea quel sommo
    D'occhi cieco, e divin raggio di mente,
    Che per la Grecia mendicò cantando.
    Solo d'Ascra venian le fide amiche
    Esulando con esso, e la mal certa
    Con le destre vocali orma reggendo:
    Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,
    E Rodi a Smirna cittadin contende:
    E patria ei non conosce altra che il cielo.
    Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
    Sopravissuti, oscura e disonesta
    Canizie attende. E tacque; e scosso il capo,
    E sporto il labbro, amaramente il torse,
    Com'uom cui cosa appare ond'egli ha schifo.
    Gioja il suo dir mi porse, e non ignota
    Bile destommi; e replicai: Deh! vogli
    La via segnarmi, onde toccar la cima
    Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,
    Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.
    Sentir, riprese, e meditar: di poco
    Esser contento: da la meta mai
    Non torcer gli occhi: conservar la mano
    Pura e la mente: de le umane cose
    Tanto sperimentar, quanto ti basti
    Per non curarle: non ti far mai servo:
    Non far tregua coi vili: il santo Vero
    Mai non tradir: né proferir mai verbo,
    Che plauda al vizio, o la virtù derida.
    O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
    Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
    Non mi sia spento; a governar rimani
    Me, cui natura e gioventù fa cieco
    L'ingegno, e serva la ragion del core.
    Così parlava e lagrimava: al mio
    Pianto ei compianse, e: Non è questa, disse,
    Quella città, dove sarem compagni
    Eternamente. Ora colei, cui figlio
    Se' per natura, e per eletta amico,
    Ama ed ascolta, e di filial dolcezza
    L'intensa amaritudine le molci.
    Dille ch'io so, ch'ella sol cerca il piede
    Metter su l'orme mie; dille che i fiori,
    Che sul mio cener spande, io gli raccolgo
    E gli rendo immortali; e tal ne tesso
    Serto, che sol non temerà né bruma,
    Ch'io stesso in fronte riporrolle, ancora
    De le sue belle lagrime irrorato.
    Dolce tristezza, amor, d'affetti mille
    Turba m'assalse; e da seder levato,
    Ambo le braccia con voler tendea
    A la cara cervice. A quella scossa,
    Quasi al partir di sonno io mi rimasi;
    E con l'acume del veder tentando
    E con la man, solo mi vidi; e calda
    Mi ritrovai la lacrima sul ciglio.




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