Library / Literary Works

    Diodata Saluzzo

    L'estro

    PIEMONTESE
    I N M O R T E
    D E L L A C O N T E S S A
    ENRICHETTA TAPARELLI BALBO


    O tu, che pasci di suave pianto
    L’eccelso spirto, che s’annida in petto,
    Musa, che pingi con possente incanto
    Smaniante dolor, perduto affetto;
    Deh tu m’ispira lagrimevol canto,
    Che teco sospirar è mio diletto;
    L’alma t’aspetta, e a te pianger t’invita
    Il danno, ohimè! d’una fatal partita.

    Dove, ah! dove fuggì la tua consorte
    Giusta, e sola cagion del tuo dolore,
    Prospero? ahi quanto t’involò la sorte,
    Virtù, beltà, di gioventù sul fiore!
    Oh qual ferita mai spietata morte
    Cruda t’aperse nel sensibil core!
    Odi almeno far eco a’ tuoi lamenti
    Cetra, che suona sol dogliosi accenti.

    Che doloroso ben diviene il giorno
    A chi riman d’ogni speranza orbato:
    Metilde il sa, che un dì scherzare intorno
    Si vide Enrica al tempo suo beato:
    Misera madre! al caro sen ritorno
    Più non farà pur troppo! il pegno amato:
    E tu lo sai, che sull’albor degli anni
    La vedesti soffrir acerbi affanni.

    Ma ti consoli che sull’alte sfere
    Il padre amante se l’accolse in seno,
    E librando nel ciel l’ali leggiere
    Puro spirto divin or vive appieno.
    Ad essa è dato il disprezzar le nere
    Onde di Lete, e suo mortal veneno.
    Ah sento, che dell’etra, ove t’affidi,
    Bell’alma, tu sola m’ispiri, e guidi.

    Sopra remota sconosciuta riva
    Avvi sacrata stanza a forte nume,
    Qui sol eterno irraggia, e il vago avviva
    Felice suol, che irriga un ampio fiume;
    Qui velenosa mai pianta furtiva
    Non s’erge sotto al fecondante lume;
    Qui sol v’han colti ed odorosi fiori
    De’ zeffiretti fortunati amori.

    Autor d’ogni magnanimo pensiero
    Di queste terre l’adorato Dio
    Estro si chiama, che gentil sentiero
    Schiude a quel Vate, che non pave obblìo.
    Tal solca l’onde intrepido nocchierom
    Ch’all’incognite genti il varco aprio,
    Ed a’ penati suoi dal lido adusto
    Ritorna un dì di gran tesori onusto.

    Qui pur madre d’onor saggia fatica
    Fuga il vil ozio dal superno chiostro;
    Qui bell’alma talor di gloria amica
    Sparge grato sudor sul dotto inchiostro;
    Qui Diva annida, che d’Italia antica
    Cinse il superbo crin d’alloro, e d’ostro;
    Fama s’appella, e di seguir le piace
    Nel fortunato suol l’Estro vivace.

    Già ’l primo albor, che l’alte cime indora
    Agli oggetti infondea colore, e vita,
    Ma qui lenta spuntar parea l’aurora
    Tacitamente dubbia e scolorita,
    Mentr’al tempio ove ’l Dio regna, e s’adora
    Orme incerte segnando io gìa smarrita
    Sperando, ch’anco un cuor d’affanni oppresso
    Talor trovi conforto al nume appresso.

    Quel, ch’allora s’offerse agli occhi miei,
    Soggiorno augusto d’immutabil pace,
    Cinti il crine d’eterni allori ascrei
    Abitan vincitor del tempo edace
    D’eroi sommi cantori, e degli Dei;
    Qui fantasia securamente audace
    Guidarli gode fra quell’alme antiche
    Di virtù non mentita altere amiche.

    Intorno al tempio non caduche rose
    Schiudono l’odorate intatte foglie,
    E sussurrando tra le frondi ombrose
    Cerchia fresco ruscel l’eterne foglie:
    Siedon sù lidi suoi schiere vezzose,
    E lusinghiero canto all’aure scioglie
    Stuolo di Vati, cui più dolce stella
    Più tenera dettò colta favella.

    Da vista troppo lieta il cuore offeso
    D’amaro pianto questi lumi aspergo,
    E oppressa l’alma da insoffribil peso
    L’allegre stanze io già mi lascio a tergo.
    Sommo poter dal volgo non inteso
    Guidò miei passi a più rimoto albergo,
    Tristi, e pinte di duol meste campagne,
    Dove ognor si sospira, ognor si piagne.

    Quivi non chiari verdeggianti prati,
    Non dolce sussurrar di limpid’onde,
    Ma rocche sol, ma sol monti gelati,
    Cui l’alte vette bigia nube asconde,
    Solinghi campi di cipressi ombrati,
    Tetro silenzio tra deserte sponde,
    Turbato sol sulle dogliose corde
    Da mesti carmi spinti all’aure sorde.

    L’occhio tra fronda, e fronda un debol mira
    Fosco chiaror di non sereno raggio:
    Grosso torrente romoreggia, e gira
    Rabbiosamente per lo suol selvaggio:
    Lamentevole gufo alto sospira
    Tra foglia, e foglia d’un annoso faggio,
    E folto nembo tien la luminosa
    Faccia del Sol perpetuamente ascosa.

    Primo sedeva su la nuda terra
    Anglico vate, che tra tomba, e tomba
    Affannoso i suoi dì racchiude, e serra
    Nobil signor d’un onorata tromba;
    Seco è colui, per cui l’accesa guerra
    D’afflitto cuor cotanto ancor rimbomba,
    Che fe’ chiaro Avignon, e l’alta donna
    Di candida onestà salda colonna.

    Dogliosa in vista tra di lor sedea
    Lacero il crin ch’un nero vel coprìa,
    Ancor non so capir se donna, o dea
    Tanta mesce grandezza, e leggiadrìa!
    Afflitta ahi quanto all’occhio mio parea!
    Quanti ardenti sospiri al cielo invia!
    Pescara invoca, ed a tornare invita
    Lui, che in morte adorò, non men ch’in vita.

    Pietà, speranza quell’amara vista
    Destò nel cuor, nè mi fermò la pena.
    Alta ammirazion di timor mista
    Ogni sospiro in sul mio labbro affrena
    A lei vicin sommessamente trista
    Sento il sangue gelar di vena in vena;
    Treman le labbra, mi s’offusca il ciglio
    E di parlare invan formo consiglio.

    Ripieno ancor di mia crudel sciagura
    Non di scoprirsi fu il mio cor possente,
    Opra di non caduca alta natura
    E sovrana virtù vedea dolente,
    Virtù, ch’umanità non fa secura,
    Nè salva dal soffrir alma innocente,
    Ch’ebbe Enrica non meno, ahi mio dolore!
    Angelici costumi e brevi l’ore.

    Mi volse alfin il languidetto sguardo
    La saggia donna, ed i begli occhi chiari
    Sfavillaron così, che assai men tardo
    Restò lo spirto ne’ pensieri amari:
    Or gelo agli atti suoi, or fremo, ed ardo,
    E sospirando su’ miei fati avari
    Io dico a lei, gli occhi stemprando in pianto,
    Soffri, o donna, ch’a te qui pianga accanto.

    Per girne al cielo alteramente il volo
    Bell’alma scioglie sopra vanni ardenti,
    Ed eterna cagion del nostro duolo
    Lasciò sul primo fiore i giorni spenti;
    Ah! prima avventuroso or tristo suolo
    Spoglia di fior le rive tue dolenti,
    Tuo primo amor a noi si fura, e cela,
    E nel suo grembo eternitade il vela.

    Oh della morte i sanguinosi artigli
    Perchè sì presto han dal suo vel disciolta
    Sposa sì cara? a’ pargoletti figli
    Chi può render colei che lor fu tolta?
    Veduto avesse almen pe’ suoi consigli
    Sull’orme lor felicità rivolta;
    Veduto avesse almen passato in loro
    De’ suoi pregi con gli anni il bel tesoro.

    Ma non lo vedrà più! dove si chiude
    Il solo e caro onor di nostre arene,
    Cui non volse purissima virtude,
    Misera! per fuggire acerbe pene?
    A che serve il tesor di gioventude
    Se son brevi così l’ore serene?
    Sentimi, o tu, che gelid’urna serra,
    Scuoti ’l sonno feral, t’ergi da terra.

    Tu di questo mio cuor perduta cura
    Rammenta almen, che rammentar li puoi,
    Gli anni primier, che semplice natura
    Con innocenza godè dare a noi.
    Rammenta almen come tranquilla e pura
    Ravvivava la gioia i giochi tuoi:
    Scorre così lontan dall’aure estive
    Ruscel d’argento su fiorite rive.

    Ben della Dora il fa quella pendice,
    E ’l bel terreno, e le leggiadre piante
    Che insiem ci accolser nell’età felice:
    Ben quivi il sa la vario-pinta errante
    Vaga farfalla; all’aura allettatrice,
    Tu la seguisti pur meco scherzante,
    E meco pur talora in dolce usanza
    Corsier spingesti, od intrecciasti danza.

    In quelle, agli avi tuoi dolce ricetto,
    Antiche mura, sulle corde d’oro
    Ben mi sovviene ancor con qual diletto
    Schiudevi d’armonia dolce tesoro;
    Semplicette talor con quanto affetto
    Ne’ carmi cercavam grato ristoro:
    Oh bell’età! Oh bell’Enrica! obblio
    Non mai vi coprirà dentro ’l cuor mio.

    Questa è colei, per cui mi struggo in pianti,
    O donna eccelsa, il duro incarco, e greve
    Di sì gran duolo almeno in dolci canti
    Sfogar potessi, e al cuor render più leve;
    Cantar l’anima pura, e gli atti santi,
    E la recisa etate, ahi troppo breve!
    Pinger sacra onestate, e lagrimando
    Di sua partenza dir e ’l come e ’l quando.

    Dirti vorrei qual d’amorosa madre
    Per l’evento crudel fu ’l cuor trafitto,
    Dir come fosse dell’estinto padre
    La dolce cura infino al gran tragitto,
    Dir che furono in lei grazie leggiadre,
    E pensier sempre volti al cammin dritto:
    Dir che tenera moglie e genitrice
    E sposo e prole essa rendea felice.

    Ma per cantar di lei in colte rime
    Troppo è l’ingegno mio debole e corto:
    Deh ripiglia tu pur le voglie prime,
    E pietosa mi reca alcun conforto,
    Bella Pescara, ch’all’Aonie cime
    Nome immortal soavemente hai scorto:
    Puote d’eternitate andar secura
    Affidata a te sol la nobil cura.

    I’ tacqui, e con dolcissima pietate,
    La bellissima donna a me si volse,
    E disse: allor che somma feritate
    La metà di mia vita a me ritolse
    E’ ver che in rime pure ed onorate
    Il mio povero cuor al ciel si dolse,
    Ma è vero ancor che d’Acheronte appresso
    Nuovi carmi formar non è concesso.

    Ben ti compiango io sì, ben io compiango
    Di cotanta virtude orbato il mondo,
    Ma ohimè! che un sol estinto adoro e piango,
    Nè celebrar m’è dato altro secondo:
    Che desolata mentre io qui rimango
    Più non ha possa il genio un dì fecondo
    E a nobil crin più le Febee corone
    Tesser non posso in immortal canzone.

    Ma vedesti pur tu gli atti soavi,
    E la salita in ciel donna gentile:
    I canti sai quanto sacrar sian gravi
    A tal oggetto sopra cetra umile.
    Tu nol potrai! ma ben potrai se amavi,
    Di pianto a questo mio fiume simile,
    Versar sull’urna che la chiude, e almeno
    Serbar eterna sua memoria in seno.

    Così parlava; ad ascoltarla intenta
    Tutta l’anima mia m’era sul volto
    Desìo d’udirla il mio respiro allenta,
    Rapito l’occhio all’occhio suo rivolto
    Cosa celeste e non mortal presenta,
    Se le parlo, la miro, oppur l’ascolto,
    Par che leggiadra men, par che men bella
    Apparisca nel ciel l’alba novella.

    Tal se tacitamente i passi affretta
    In cupa notte a sua capanna amica
    La timidetta e stanca forosetta
    Mira scherzar in sulla riva aprica
    Fuoco notturno ch’il suo guardo alletta,
    Obbliando la meta a sua fatica
    Coll’occhio par ch’i dolci error ne segua
    Mentr’ ei scherza coll’aure, e si dilegua.

    Pari in colei sono i miei spirti attenti
    Mentre a un solo pensier io m’abbandono.
    Ma strisciano pel ciel folgori ardenti
    E rauco intorno romoreggia il tuono;
    Nell’aer cieco trascorrendo i venti
    Rendono sibitando acuto suono,
    E densa polve sollevata in giro
    Fa ch’ora invan cupido il guardo aggiro.

    Non più vegg’io quelle leggiadre forme
    Uniche di beltà, di grazia sole:
    Stampando sul terreno incerte l’orme
    Invano la ricerco, e al cuor ne duole.
    Strano pensiero al mio stato conforme
    Sì m’ingombrò, che sol tronche parole
    Sciolti dal labbro, e sbigottita, e smorta,
    Ove son io, gridai, chi fammi scorta?

    M’apparve allor nel suo lucente aspetto.
    Il nume che là regna e tien sua corte;
    E scior l’udii dal generoso petto
    Queste parole in tuon severo e forte:
    Al ciel non meno ch’ad Enrica è accetto
    Lo zelo tuo: ciò basti; e ti conforte,
    Ma coglier serto d’onorate fronde
    Ancor ti nega il fato in queste sponde.

    A pochi è dato il penetrar le arcane
    Soglie, alla cui custodia io stesso veglio,
    E ad immaturo piè l’orme profane
    Porvi non lice, e ’l non osarlo è meglio.
    Tempra per ora le tue brame insane,
    E la ruina altrui ti sia di speglio:
    Tempo e fatica un dì forse matura
    Far ti potranno a così nobil cura.

    Tace, e ritorna l’aer cieco, e fosco,
    Mentr’ei s’avvolge nel suo vivo lume.
    Ma, ohimè! non scorgo io più l’annoso bosco
    L’ombra soave, e ’l sacro argenteo fiume,
    Sopra il patrio terren mi riconosco,
    Nè da spiegar al ciel trovo le piume,
    Che a questo cuore travagliato e stanco
    Manca il coraggio, e manca forza al fianco.

    O salita nel ciel, che a te s’apria,
    Anima d’immortal somma bellezza,
    Dall’ore corte, in cui l’età fioria,
    Tu la nostra misura alta amarezza;
    Mentre calchi stellata eterea via,
    Se del più puro amore hai tu vaghezza,
    Ben consolar tu puoi l’acerba doglia
    D’umanità, sol che dall’alto il voglia.




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