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    Francesco Petrarca

    Triumphus Fame

    (Trionfo della fama)

    Capitolo I

    Da poi che Morte triunfò nel volto
    che di me stesso triunfar solea,
    e fu del nostro mondo il suo sol tolto,
    partissi quella dispietata e rea,
    pallida in vista, orribile e superba
    che ’l lume di beltate spento avea:
    quando, mirando intorno su per l’erba,
    vidi da l’altra parte giugner quella
    che trae l’uom del sepolcro e ’n vita il serba.
    Quale in sul giorno un’amorosa stella
    suol venir d’orïente inanzi al sole
    che s’accompagna volentier con ella,
    cotal venia; et oh! di quali scole
    verrà ’l maestro che descriva a pieno
    quel ch’io vo’ dir in semplici parole?
    Era d’intorno il ciel tanto sereno,
    che per tutto ’l desir ch’ardea nel core
    l’occhio mio non potea non venir meno.
    Scolpito per le fronti era il valore
    de l’onorata gente, dov’io scorsi
    molti di quei che legar vidi Amore.
    Da man destra, ove gli occhi in prima porsi,
    la bella donna avea Cesare e Scipio,
    ma qual più presso a gran pena m’accorsi:
    l’un di vertute, e non d’Amor mancipio,
    l’altro d’entrambi. E poi mi fu mostrata,
    dopo sì glorïoso e bel principio,
    gente di ferro e di valore armata;
    siccome in Campidoglio al tempo antico
    talora o per Via Sacra o per Via Lata,
    venian tutti in quell’ordine ch’i’ dico,
    e leggeasi a ciascuno intorno al ciglio
    il nome al mondo più di gloria amico.
    Io era intento al nobile pispiglio,
    ai volti, agli atti: ed ecco, i primi due,
    l’un seguiva il nipote e l’altro il figlio,
    che sol senz’alcun pari al mondo fue;
    e quei che volser a’ nemici armati
    chiudere il passo co le membra sue,
    duo padri da tre figli accompagnati:
    l’un giva inanzi e due venian dopo,
    e l’ultimo era il primo fra’ laudati.
    Poi fiammeggiava a guisa d’un piropo
    colui che col consiglio e co la mano
    a tutta Italia giunse al maggior uopo:
    di Claudio dico, che notturno e piano,
    come il Metauro vide, a purgar venne
    di ria semenza il buon campo romano.
    Egli ebbe occhi a vedere, a volar penne;
    et un gran vecchio il secondava appresso,
    che con arte Anibàle a bada tenne.
    Duo altri Fabii e duo Caton con esso,
    duo Pauli, duo Bruti e duo Marcelli,
    un Regol ch’amò Roma e non se stesso,
    un Curio ed un Fabrizio, assai più belli
    con la lor povertà che Mida o Crasso
    con l’oro onde a virtù furon rebelli;
    Cincinnato e Serran, che solo un passo
    senza costor non vanno, e ’l gran Camillo
    di viver prima che di ben far lasso,
    perch’a sì alto grado il ciel sortillo
    che sua virtute chiara il ricondusse
    onde altrui cieca rabbia dipartillo.
    Poi quel Torquato che ’l figliuol percusse,
    e viver orbo per amor sofferse
    de la milizia perché orba non fusse;
    l’un Decio e l’altro, che col petto aperse
    le schiere de’ nemici: o fiero voto,
    che ’l padre e ’l figlio ad una morte offerse!
    Curzio venia con lor, non men devoto,
    che di sé e de l’arme empié lo speco
    in mezzo il Foro orribilmente voto;
    Mummio, Levino, Attilio; et era seco
    Tito Flamminio che con forza vinse,
    ma vie più con pietate, il popol greco.
    Eravi quei che ’l re di Siria cinse
    d’un magnanimo cerchio, e co la fronte
    e co la lingua a sua voglia lo strinse;
    e quel ch’armato, sol, difese un monte,
    onde poi fu sospinto; e quel che solo
    contra tutta Toscana tenne un ponte;
    e quel che in mezzo del nemico stuolo
    mosse la mano indarno, e poscia l’arse,
    sì seco irato che non sentì il duolo;
    e chi ’n mar prima vincitor apparse
    contra’ Cartaginesi, e chi lor navi
    fra Cicilia e Sardigna ruppe e sparse.
    Appio conobbi agli occhi, e’ suoi, che gravi
    furon sempre e molesti a l’umil plebe.
    Poi vidi un grande con atti soavi,
    e se non che ’l suo lume a lo stremo ebe,
    forse era il primo, e certo fu fra noi
    qual Bacco, Alcid’e Epaminonda a Tebe;
    ma ’l peggio è viver troppo. E vidi poi
    quel che da l’esser suo destro e leggero
    ebbe nome, e fu ’l fior degli anni suoi;
    e quanto in arme fu crudo e severo,
    tanto quei che ’l seguia, Corvo, benigno,
    non so se miglior duce o cavaliero.
    Poi venia que’ che livido maligno
    tumor di sangue, bene oprando, oppresse,
    nobil Volumnio e d’alta laude digno;
    Cosso e Filon, Rutilio, e da le spesse
    luci in disparte tre soli ir vedeva,
    rotti i membri e smagliate l’arme e fesse:
    Lucio Dentato e Marco Sergio e Sceva,
    que’ tre folgori e tre scogli di guerra,
    ma l’un rio successor di fama leva;
    Mario poi, che Jugurta e’ Cimbri atterra
    e ’l tedesco furore, e Fulvio Flacco,
    ch’a l’ingrati troncar a bel studio erra,
    et il più nobil Fulvio, e solo un Gracco
    di quel gran nido garrulo inquïeto
    che fe’ il popol roman più volte stracco,
    e quel che parve altrui beato e lieto,
    non dico fu, ché non chiaro si vede
    un chiuso cor profondo in suo secreto:
    Metello dico, e suo padre, e suo’ rede,
    che già di Macedonia e de’ Numidi
    e di Creta e di Spagna addusser prede.
    Poscia Vespasïan col figlio vidi,
    il buono e bello, non già il bello e rio,
    e ’l buon Nerva, e Traian, principi fidi,
    Elio Adriano e ’l suo Antonin Pio,
    bella successïone infino a Marco,
    ché bono a buono ha natural desio.
    Mentre che vago oltre cogli occhi varco,
    vidi il gran fondatore e i regi cinque;
    l’altro era in terra di mal peso carco,
    come adiven a chi virtù relinque.

    Capitolo II

    Pien d’infinita e nobil meraviglia
    presa a mirar il buon popol di Marte,
    ch’al mondo non fu mai simil famiglia,
    giungea la vista con l’antiche carte
    ove son gli alti nomi e’ sommi pregi,
    e sentiv’ al mio dir mancar gran parte;
    ma disviarmi i pellegrini egregi,
    Anibal primo, e quel cantato in versi
    Achille, che di fama ebbe gran fregi,
    i duo chiari Troiani e’ duo gran Persi,
    Filippo e ’l figlio, che da Pella agl’lndi
    correndo vinse paesi diversi.
    Vidi l’altro Alessandro non lunge indi
    non già correr così, ch’ebbe altro intoppo
    (quanto del vero onor, Fortuna, scindi!);
    i tre Teban ch’ i’ dissi, in un bel groppo;
    ne l’altro, Aiace, Diomede e Ulisse
    che desiò del mondo veder troppo;
    Nestor che tanto seppe e tanto visse;
    Agamenón e Menelao, che ’n spose
    poco felici al mondo fer gran risse;
    Leonida, ch’ a’ suoi lieto propose
    un duro prandio, una terribil cena,
    e ’n poca piazza fe’ mirabil cose;
    et Alcibiade, che sì spesso Atena
    come fu suo piacer volse e rivolse
    con dolce lingua e con fronte serena;
    Milziade che ’l gran gioco a Grecia tolse,
    e ’l buon figliuol che con pietà perfetta
    legò sé vivo e ’l padre morto sciolse;
    Teseo, Temistoclès con questa setta,
    Aristidès che fu un greco Fabrizio:
    a tutti fu crudelmente interdetta
    la patria sepoltura, e l’altrui vizio
    illustra lor, ché nulla meglio scopre
    contrari due com ’piccolo interstizio.
    Focïon va con questi tre di sopre,
    che di sua terra fu scacciato morto;
    molto diverso il guidardon da l’opre!
    Com’io mi volsi, il buon Pirro ebbi scorto,
    e ’l buon re Massinissa, e gli era avviso
    d’esser senza i Roman ricever torto.
    Con lui, mirando quinci e quindi fiso,
    Jero siracusan conobbi, e ’l crudo
    Amilcare da lor molto diviso.
    Vidi, qual uscì già del foco, ignudo
    il re di Lidia, manifesto esempio
    che poco val contra Fortuna scudo.
    Vidi Siface pari a simil scempio;
    Brenno, sotto cui cadde gente molta,
    e poi cadde ei sotto il delfico tempio.
    In abito diversa, in popol folta
    fu quella schiera; e mentre gli occhi alti ergo,
    vidi una parte tutta in sé raccolta,
    e quel che volse a Dio far grande albergo
    per abitar fra gli uomini, era il primo;
    ma chi fe’ l’opra gli venia da tergo:
    a lui fu destinato, onde da imo
    produsse al sommo l’edificio santo,
    non tal dentro architetto, com’io stimo.
    Poi quel ch’a Dio familïar fu tanto
    in grazia, a parlar seco a faccia a faccia,
    che nessun altro se ne può dar vanto;
    e quel che, come un animal s’allaccia,
    co la lingua possente legò ’l sole,
    per giugner de’ nemici suoi la traccia.
    O fidanza gentil! chi Dio ben cole,
    quanto Dio ha creato aver suggetto,
    e ’l ciel tener con semplici parole!
    Poi vidi ’l padre nostro, a cui fu detto
    ch’uscisse di sua terra e gisse al loco
    ch’a l’umana salute era già eletto;
    seco il figlio e ’l nipote, a cui fu il gioco
    fatto de le due spose; e ’l saggio e casto
    Joseph dal padre lontanarsi un poco.
    Poi stendendo la vista quant’io basto,
    colui vidi oltra il qual occhio non varca,
    la cui inobedienza ha il mondo guasto.
    Di qua da lui, chi fece la grande arca,
    e quei che cominciò poi la gran torre
    che fu sì di peccato e d’error carca;
    poi quel buon Juda a cui nessun può torre
    le sue leggi paterne, invitto e franco
    com’uom che per giustizia a morte corre.
    Già era il mio desio presso che stanco,
    quando mi fece una leggiadra vista
    più vago di mirar ch’i’ ne fossi anco.
    I’ vidi alquante donne ad una lista:
    Antiope ed Oritia armata e bella,
    Ippolita del figlio afflitta e trista,
    e Menalippe, e ciascuna sì snella
    che vincerle fu gloria al grande Alcide:
    e’ l’una ebbe, e Teseo l’altra sorella;
    la vedova che sì secura vide
    morto ’l figliolo, e tal vendetta feo
    ch’uccise Ciro et or sua fama uccide,
    però che, udendo ancora il suo fin reo,
    par che di novo a sua gran colpa moia,
    tanto quel dì del suo nome perdeo.
    Poi vidi quella che mal vide Troia,
    e fra queste una vergine latina
    ch’in Italia a’ Troian fe’ molta noia.
    Poi vidi la magnanima reina:
    con una treccia avolta e l’altra sparsa
    corse alla babilonica rapina;
    poi Cleopatra, e l’un’e l’altra er’ arsa
    d’indegno foco; e vidi in quella tresca
    Zenobia del suo onor assai più scarsa.
    Bella era, e ne l’età fiorita e fresca;
    quanto in più gioventute e ’n più bellezza,
    tanto par ch’onestà sua laude accresca;
    nel cor femineo fu sì gran fermezza,
    che col bel viso e co l’armata coma
    fece temer chi per natura sprezza:
    io parlo de l’imperio alto di Roma,
    che con arme assalìo; ben ch’a l’estremo
    fusse al nostro trionfo ricca soma.
    Fra’ nomi che in dir breve ascondo e premo,
    non fia Judith, la vedovetta ardita,
    che fe’ il folle amador del capo scemo.
    Ma Nino ond’ogni istoria umana è ordita,
    dove lasc’io e ’l suo gran successore
    che superbia condusse a bestial vita?
    Belo dove riman, fonte d’errore
    non per sua colpa? Dov’è Zoroastro,
    che fu de l’arti magiche inventore?
    E chi de’ nostri dogi che ’n duro astro
    passar l’Eufrate fece il mal governo,
    a l’italiche doglie fiero impiastro?
    Ov’è ’l gran Mitridate, quello eterno
    nemico de’ Roman che sì ramingo
    fuggì dinanzi a lor la state e ’l verno?
    Molte gran cose in picciol fascio stringo:
    ov’è un re Arturo, e tre Cesari Augusti,
    un d’Affrica, un di Spagna, un Lottoringo?
    Cingean costu’ i suoi dodici robusti;
    poi venia solo il buon duce Goffrido
    che fe’ l’impresa santa e’ passi giusti.
    Questo, di ch’io mi sdegno e ’ndarno grido,
    fece in Jerusalem co le sue mani
    il mal guardato e già negletto nido.
    Gite superbi, o miseri Cristiani,
    consumando l’un l’altro, e non vi caglia
    che ’l sepolcro di Cristo è in man de’ cani!
    Raro o nessun che ’n alta fama saglia
    vidi dopo costui, s’io non m’inganno,
    o per arte di pace o di battaglia.
    Pur, come uomini eletti ultimi vanno,
    vidi verso la fine il Saracino
    che fece a’ nostri assai vergogna e danno;
    quel di Lurìa seguiva il Saladino,
    poi il duca di Lancastro, che pur dianzi
    era al regno de’ Franchi aspro vicino.
    Miro, come uom che volentier s’avanzi,
    s’alcuno ivi vedessi qual egli era
    altrove agli occhi miei veduto inanzi;
    e vidi duo che si partir iersera
    di questa nostra etate e del paese;
    costor chiudean quella onorata schiera:
    il buon re cicilian che ’n alto intese
    e lunge vide e fu veramente Argo;
    da l’altra parte il mio gran Colonnese,
    magnanimo, gentil, constante e largo.

    Capitolo III

    Io non sapea da tal vista levarme,
    quand’io udi’: - Pon mente a l’altro lato
    ché s’acquista ben pregio altro che d’arme. -
    Volsimi da man manca, e vidi Plato
    che ’n quella schiera andò più presso al segno
    al qual aggiunge cui dal Cielo è dato,
    Aristotele poi, pien d’alto ingegno,
    Pitagora che primo umilemente
    filosofia chiamò per nome degno,
    Socrate e Senofonte, e quello ardente
    vecchio a cui fur le Muse tanto amiche
    ch’Argo e Micena e Troia se ne sente;
    questo cantò gli errori e le fatiche
    del figliuol di Laerte e d’una diva,
    primo pintor delle memorie antiche.
    A man a man con lui cantando giva
    il Mantovan che di par seco giostra,
    ed un al cui passar l’erba fioriva:
    questo è quel Marco Tullio in cui si mostra
    chiaro quanti eloquenzia ha frutti e fiori;
    questi son gli occhi de la lingua nostra.
    Dopo venia Demostene che fori
    è di speranza omai del primo loco,
    non ben contento de’ secondi onori;
    un gran folgór parea tutto di foco:
    Eschine il dica che ’l poteo sentire
    quando presso al suo tuon parve già fioco.
    Io non posso per ordine ridire
    questo o quel dove mi vedessi o quando,
    e qual andare inanzi e qual seguire;
    ché, cose innumerabili pensando
    e mirando la turba tale e tanta,
    1’occhio e ’l pensier m’andava disviando.
    Vidi Solon, di cui fu l’util pianta
    che, se mal colta è, mal frutto produce,
    cogli altri sei di che Grecia si vanta.
    Qui vid’io nostra gente aver per duce
    Varrone, il terzo gran lume romano,
    che quando il miri più tanto più luce;
    Crispo Sallustio, e seco a mano a mano
    un che già l’ebbe a schifo e ’l vide torto,
    cioè ’l gran Tito Livio padovano.
    Mentr’io ’l mirava, subito ebbi scorto
    quel Plinio veronese suo vicino,
    a scriver molto, a morir poco accorto.
    Poi vidi il gran platonico Plotino,
    che, credendosi in ozio viver salvo,
    prevento fu dal suo fero destino,
    il qual seco venia dal materno alvo,
    e però providenzia ivi non valse;
    poi Crasso, Antonio, Ortensio, Galba, e Calvo
    con Pollïon, che ’n tal superbia salse,
    che contra quel d’Arpino armar le lingue
    cercando ambeduo fame indegne e false.
    Tucidide vid’io, che ben distingue
    i tempi e ’luoghi e l’opere leggiadre
    e di che sangue qual campo s’impingue;
    Erodoto di greca istoria padre
    vidi, e dipinto il nobil geometra
    di triangoli e tondi e forme quadre;
    e quel che ’nver di noi divenne petra,
    Porfirio, che d’acuti silogismi
    empié la dïalettica faretra
    facendo contra ’l vero arme i sofismi;
    e quel di Coo che fe’ vie miglior l’opra,
    se bene intesi fusser gli aforismi.
    Apollo et Esculapio gli son sopra,
    chiusi ch’a pena il viso gli comprende,
    sì par che i nomi il tempo limi e copra.
    Un di Pergamo il segue, e in lui pende
    l’arte guasta fra noi, allor non vile,
    ma breve e ’scura; e’ la dichiara e stende.
    Vidi Anasarco intrepido e virile,
    e Senocrate più saldo ch’un sasso
    che nulla forza volse ad atto vile;
    vidi Archimede star col viso basso
    e Democrito andar tutto pensoso
    per suo voler di lume e d’oro casso;
    vidi Ippia, il vecchiarel che già fu oso
    dir: - Io so tutto, - e poi di nulla certo
    ma d’ogni cosa Archesilao dubbioso;
    vidi in suoi detti Eraclito coverto,
    e Dïogene cinico in suo’ fatti,
    assai più che non vuol vergogna, aperto;
    e quel che lieto i suoi campi disfatti
    vide e deserti, d’altre merci carco,
    credendo averne invidïosi patti.
    Ivi era il curïoso Dicearco,
    ed in suo’ magisteri assai dispari
    Quintilïano e Seneca e Plutarco.
    Vidivi alquanti ch’han turbati i mari
    con venti avversi e con ingegni vaghi,
    non per saver ma per contender chiari,
    urtar come leoni, e come draghi
    colle code avvinghiarsi. Or che è questo,
    ch’ognun del suo saver par che s’appaghi?
    Carneade vidi in suo’ studi sì desto
    che, parlando egli, il vero e ’l falso a pena
    si discernea, così nel dir fu presto;
    la lunga vita e la sua larga vena
    d’ingegno pose in accordar le parti
    che ’l furor litterato a guerra mena;
    né ’l poteo far, ché come crebber l’arti
    crebbe l’invidia, e col savere inseme
    ne’ cori enfiati i suo’ veneni ha sparti.
    Contra ’l buon Siro, che l’umana speme
    alzò ponendo l’anima immortale,
    s’armò Epicuro, onde sua fama geme,
    ardito a dir ch’ella non fusse tale;
    così al lume fu fumoso e lippo
    co la brigata al suo maestro eguale:
    di Metrodoro parlo e d’Aristippo.
    Poi con gran subbio e con mirabil fuso
    vidi tela sottil ordir Crisippo.
    Degli Stoici ’l padre, alzato in suso
    per far chiaro suo dir, vidi, Zenone,
    mostrar la palma aperta e ’l pugno chiuso;
    e per fermar sua bella intenzïone,
    [la sua tela gentil tesser Cleante,]
    che tira al ver la vaga opinïone.
    [Qui lascio, e più di lor non dico avante.]




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