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    Giovanni Battista Casti

    Ad un frate cattivo suonatore d'organo

    Secondo San Matteo nel suo Vangelo:
    Quando il prossimo tuo non ara dritto,
    Da buon fratel, con carità, con zelo
    Ammoniscilo ben del suo delitto,
    Non in pubblico già, ma a tu per tu,
    Acciò si emendi, e non lo faccia più.

    Ond’io far deggio a Vostra Reverenza
    Una fraterna e pia correzïone,
    E d’esserne tenuto in coscienza
    Credo con giusta e ferma opinïone,
    Acciocchè in guisa tal vi correggiate,
    S’esser può mai che si corregga un FRATE.

    E or che siam soli, e che nessun ci sente
    Prendete in buona parte il zelo mio,
    Poichè lo fo caritatevolmente;
    Che, grazie al Ciel, non come quei son’io
    Che tuttor fan con voi l’amico e il bello
    E dietro poi vi tagliano il mantello.

    Voi siete un buon vivente, un buon amico,
    Siete un buon religioso ed esemplare,
    Dica chi vuol non me ne importa un fico.
    Io voglio chi lo merita lodare,
    Siete un uom di buon cuor, d’ottima pasta,
    Ma solamente l’ORGANO vi guasta.

    Chè vi si è fitta in testa un insolente
    Idea, che quasi si può dir pazzia,
    Poichè voi vi credete bravamente
    Suonar l’organo al par di chicchessia;
    Ma troppo iniquamente, a dire il vero,
    Strapazzate l’organico mestiero.

    Nel mestier della musica voi siete
    Un pezzo solennissimo di trave,
    Giacchè, poffareddio ! non distinguete
    La sestupla, la tripola, la chiave,
    Il be-molle, il dïesis, il be-quadro:
    Oh che brutto suonar! che suonar ladro!

    Impicciate il bemmì, coll’effautte,
    Ed il delasolrè coll’elafà,
    Fate certe cadenze così brutte,
    Che cartiera o frullon miglior le fa;
    Sbagliate i tempi, confondete i tuoni,
    Nota non accoppiate, che non stuoni.

    Non una voce all’altra corrisponde,
    Non consonanza armonica si sente,
    Ma dissonanti settime, e seconde
    Confuse stridon impetuosamente;
    Calate giù le man sconce e malfatte,
    Bussate sopra, e dove batte batte.

    Fate un rumor quando toccate i bassi,
    Che par mandra di pecore e di becchi,
    Che dall’erboso piano al monte passi,
    E d’ingrato sconcerto empia gli orecchi,
    E per render maggior confusïone
    Vi si aggiunga il campano del montone.

    Sembran gli acuti poi tanti porchetti,
    Allorchè il castrator fa lor la festa,
    Che metton certi stridi maledetti,
    Che assordano ed intronano la testa,
    Sentendosi straziar dalle coltelle,
    E tirar fuori certe bagattelle.

    Con un impeto tal fate su’ tasti
    Cadere a piombo la pesante mano
    Che molle e ferri ne son rotti e guasti,
    E al rumor che se n’ode da lontano
    Sembran nacchere, o sugli intavolati,
    Tacchi di legno e zoccoli di frati.

    Resto a tai chiasso sbalordito a segno
    Che talor penso vi bussiate sopra
    Col cesto in pugno, o col braccial di legno;
    L’un de’ quai si adoprò, l’altro si adopra,
    Quello già nell’olimpica tenzone,
    Oggi questo giuocandosi al pallone.

    Spesso per le indiscrete, aspre percosse
    Le molle fuor de’ propri siti loro
    Restano a forza in giù depresse e smosse,
    Le quali a ciaschedun tubo sonoro
    Or aprono ed or chiudon lo spiracolo,
    E introducono il vento o fangli ostacolo.

    Poichè, il tasto calcandosi, si abbassa
    La molla, e il buco ne riman sturato,
    Onde, spinto dai mantici, vi passa,
    E un fischio fa continuamente, il fiato
    Che penetra nell’intimo del cranio;
    E a tal distuonamento agghiaccio e smanio.

    Così il vento talor dalle fessure,
    O passando pel buco della chiave,
    Se buone non son toppe o serrature,
    Certo sibilo rende acuto e grave,
    Siccome o torto o dritto, or presto or lento,
    Penetra dentro allo spiraglio il vento.

    De’ tuoni in somma il bestïal sconcerto
    E de’ tasti il flagel duro e perenne,
    E ognor di qualche canna il buco aperto
    Per far confusïone più solenne,
    Danno all’orecchio un sì crudel tormento,
    Come vespe o moscon vi fischin drento.

    L’aria commossa dallo sregolato
    Tasteggiamento delle false note
    Forma un fracasso estremamente ingrato,
    Che dell’orecchio il timpano percote,
    E fa doler la testa, ed in quel mentre
    Mi si solleva il volvulo nel ventre.

    Forse meno importun ronza il moscone,
    E più soave è il raglio del somaro,
    Forse più dolcemente il calascione
    Suona lo scamiciato montanaro,
    Che allegro e canta e suona per le strade,
    Mentre a maremma va a falciar le biade.

    Vi fu un pastore tremilanni fa
    Di tal follìa nel suono e presunzione,
    Ch’ebbe perfino la temerità
    Di porsi con Apollo al paragone
    Onde qual uomo d’intelletto privo
    Fu poscia in pena scorticato vivo.

    Io non v’auguro già cotanto male,
    Che siate, come Marsia, scorticato,
    Benchè dovrebbe esser la pena eguale,
    Dove eguale ritrovasi il peccato:
    Lo dico solo acciò voi conosciate
    Che d’esser scorticato meritate.

    Itene a fare il mastro di cappella
    Laddove son del Nil le cateratte,
    Ov’è inutil la voce e la favella,
    E son l’orecchie ad ascoltar non atte,
    Chè il fiume col fragor di sua caduta
    Fa divenir la gente e sorda e muta.

    Là potreste suonar gighe e furlane,
    Là far trilli, passaggi e ricercate,
    Che quelle nazïon catadupane
    Non udirebber le vostre suonate,
    Nè potrebbe distinguersi tra’ sordi
    Il vostro suon se accordi o se discordi.

    Ma qui tra noi nella canora Italia,
    Ove armonica abbiam l’anima e i sensi,
    E dove appena usciti siam di balia
    Par che cantori a divenir si pensi;
    Un falso tuon dà più fastidio e smania
    Che un febril parosismo, un’emicrania.

    Cosa il vostro guardian, cosa diria,
    Se in cattedra montar volesse il cuoco,
    E ai novizi spiegar teologia,
    La pentola e il paiol lasciato al fuoco,
    E in vece di trattar la cazzaruola,
    Far pretendesse il baccelliere in scuola?

    E pure a un cuoco accorderei piuttosto
    Che in cattedra dicesse uno sproposito,
    Che in cucina sciupar lesso ed arrosto,
    Ed intingoli far malapproposito;
    Più gravemente assai mi par che pecchi,
    Se alcun ci strazia l’anima e gli orecchi.

    Il confuso rumor di fuse e crome,
    Il disgustoso orribile frastuono,
    La dissonanza irregolar, cui nome
    Usate dar di musica e di suono,
    Con tal forza il cervel mi urta e mi pesta,
    Che per gran tempo mi rimbomba in testa.

    Cosi chi lungamente andò per barca,
    Ed il contrasto udì d’Affrico e Noto,
    E poi sul patrio lido appena sbarca,
    Per grazia ricevuta appende il voto;
    O dorma solo o colla sposa insieme
    Sempre gli sembra udire il mar che freme.

    La musica, che ha origine celeste
    Ed è sì bella e dilettevol cosa,
    Deforme in guisa tal voi la rendeste,
    Che in vostre mani è divenuta esosa;
    Le avete tolta e grazia e leggiadria,
    E non si sa che diavolo si sia.

    Mi ricordo aver letto in un autore,
    Che, se Alessandro Magno il suono udìa,
    Montava in tanta collera e furore
    Che dava sempre in qualche frenesia:
    L’ira che in lui destava il suono, or voi
    Col vostro suono la destate in noi.

    Che se non fosse pel timor d’Iddio
    E per riguardo alle genti del mondo,
    Quando vi odo suonar non so quel ch’io
    Farei spinto da strano estro iracondo;
    So ben che faccio ogni sforzo che posso
    Per non mettervi fin le mani addosso.

    Ed io potrei provar con più d’un passo
    E cogli esempli tratti dal Vangelo,
    Che per toglier lo scandalo ed il chiasso,
    Non saria riprobabile tai zelo,
    Chè talor la mia testa entusïastica
    Si picca anche di storia ecelesïastica.

    E so che Cristo colla sferza in mano
    Cacciò dal Tempio, a forza di frustate,
    Color che vi facevano il baccano
    Vendendo alle persone ivi adunate
    Di polleria venale ampio apparato,
    Come alla fiera stessero o al mercato.

    E forse Egli provò con questo esempio,
    Che color che vi fan confusïone
    Si devono cacciar fuori del Tempio
    A forza anche di frusta e di bastone:
    Or dunque giudicar lascio a voi stesso
    Se trattarvi del par non sia permesso.

    Se suonate un’antifona, un mottetto,
    Un vespero, una messa, un tantum ergo,
    Si suscita uno strepito ed un ghetto
    Nel luogo sacro e d’orazione albergo,
    Che la chiesa si cangia in sinagoga.
    Onde in risa ed in beffe ognun si sfoga.

    Credea talun che l’armonie celesti
    Che con i moti lor fanno le sfere,
    Modello sian dell’armonia di questi
    Terrestri accordi che ci dan piacere;
    Ma quel vostro suonar sì bestïale,
    È d’un gusto diabolico e infernale.

    Quando un tempo a suon d’organo e di cetra
    Intuonava i suoi cantici il Salmista,
    In cui talor da Dio perdono impetra,
    E s’allegra talor, talor s’attrista,
    Con armonico suono e dolce canto
    Destava in Israello or gaudio or pianto.

    E se laudate eum cymbalis dicea,
    Dicea bene sonantibus ancora,
    E con ciò chiaramente dir solea,
    Che nella chiesa, ove il gran Dio si adora,
    Non si deve far strepito insolente,
    Ma si deve suonar soavemente.

    E nel dì della gran dedicazione
    Un grato suono d’organi s’udìa
    Nel tempio risuonar di Salomone,
    Che l’aere intorno di dolcezza empìa,
    E il popol rispondea in varii modi,
    Lieto cantando del gran Dio le lodi.

    E in vero quando è il suon soave e grato
    Cagiona inesplicabile dolcezza,
    E un sentimento molle e delicato,
    Ed un moto nel cuor di tenerezza;
    Ma se il suono non è grato e perfetto
    Sollecita la collera e il dispetto.

    Quindi se in chiesa qualche sinfonia
    Coll’organo suonate, io fo scommessa
    Che per la rabbia il popolo va via,
    E perde bisognando anche la messa;
    Onde il suon ch’eccitar dovrebbe al bene
    Occasïon di scandalo diviene.

    Talora alla campagna il villanelle
    d’un campanaccio al suon raccoglie e chiama,
    Al solito alveare od al coppello
    Qualche sbandato stuol d’api che sciama;
    Ma voi col suon dell’organo fugate
    Le genti nelle chiese radunate.

    Che se smania sì strana e insuperabile
    Desta l’organo in voi, perchè piuttosto
    Non vi comprate un organin portabile?
    Che non potrebbe incomodarvi il costo,
    E, sempre che si vuol, suona qualora
    Si giri un certo manico di fuora.

    Con tal organo in collo il vagabondo
    Terrazzan di Germania e di Savoia
    Assai sovente errando va pel mondo;
    Con quello voi minor fastidio e noia
    Almen dareste agli uditor profani,
    Saltimbanchi imitando e ciarlatani.

    Rammentar col vostr’ organo mi fate
    d’Astolfo il corno, che quando s’udìa
    Fuggivano le genti spaventate,
    E i cuori più costanti intimorìa,
    Ed ognuno a quel suon fuggìa veloce
    Come i diavoli fuggono la croce.

    Ma innoltre il vostro suon fastidio apporta
    Ai bruti, e in lor produce effetti strani,
    Chè al liminar della sacrata porta
    Spesso quando suonate urlano i cani,
    Come sogliono fare allorchè tuona,
    O loro altro rumor l’orecchia introna.

    Se suonando la cetera Anfione
    Corse il tonno ad udir, corse il deIfino;
    Se colla lira Orfeo calmò Plutone,
    E addormentò il trifauce mastino,
    Il vostro organo dà tali molestie
    Che fa lungi fuggire uomini e bestie.

    Risoluzione adunque, e fate voto
    Non esser più coll’organo molesto,
    E non turbare il popolo devoto;
    Ed agli altri tre voti unite questo;
    Ma vorrei, per parlar tra voi e me,
    Che l’osservaste più degli altri tre.




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