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    Giuseppe Parini

    La laurea

    Quell’ospite è gentil, che tiene ascoso
    Ai molti bevitori
    Entro ai dogli paterni il vino annoso
    Frutto de’ suoi sudori;
    E liberale allora
    Sul desco il reca di bei fiori adorno,
    Quando i Lari di lui ridenti intorno
    Degno straniere onora:
    E versata in cristalli empie la stanza
    Insolita di Bacco alma fragranza.

    Tal io la copia che de i versi accolgo
    Entro a la mente, sordo
    Niego a le brame dispensar del volgo,
    Che vien di fama ingordo.
    In van l’uomo, che splende
    Di beata ricchezza, in van mi tenta
    Sì che il bel suono de le lodi ei senta,
    Che dolce al cor discende:
    E in van de’ grandi la potenza e l’ombra
    Di facili speranze il sen m’ingombra.

    Ma quando poi sopra il cammin dei buoni
    Mi comparisce innanti
    Alma, che ornata di suoi propri doni
    Merta l’onor dei canti,
    Allor da le segrete
    Sedi del mio pensiero escono i versi,
    Atti a volar di viva gloria aspersi
    Del tempo oltra le mete:
    E donator di lode accorto e saggio
    Io ne rendo al valor debito omaggio.

    Ed or che la risorta insubre Atene,
    Con strana meraviglia,
    Le lunghe trecce a coronar ti viene
    O di Pallade figlia,
    Io rapito al tuo merto
    Fra i portici solenni e l’alte menti
    M’innoltro, e spargo di perenni unguenti
    Il nobile tuo serto:
    Nè mi curo se ai plausi, onde vai nota,
    Finge ingenuo rossor tua casta gota.

    Ben so, che donne valorose e belle
    A tutte l’altre esempio
    Veggon splender lor nomi a par di stelle
    D’eternità nel tempio:
    E so ben che il tuo sesso
    Tra gli ufizi a noi cari e l’umil’ arte
    Puote innalzarsi; e ne le dotte carte
    Immortalar sè stesso.
    Ma tu gisti colà, Vergin preclara,
    Ove di molle piè l’orma è più rara.

    Sovra salde colonne antica mole
    Sorge augusta e superba,
    Sacra a colei, che dell’umana prole,
    Frenando, i dritti serba.
    Ivi la Dea si asside
    Custodendo del vero il puro foco;
    Ivi breve sul marmo in alto loco
    Il suo volere incide:
    E già da quello stile aureo, sincero
    Apprendea la giustizia il mondo intero.

    Ma d’ignari cultor turbe nemiche
    Con temerario piede
    Osàro entrar ne le campagne apriche,
    Ove il gran tempio siede:
    E la serena piaggia
    Occuparon così di spini e bronchi,
    Che fra i rami intricati e i folti tronchi
    A pena il sol vi raggia;
    E l’aere inerte per le fronde crebre
    V’alza dense all’intorno atre tenèbre.

    Ben tu di Saffo e di Corinna al pari,
    O donne altre famose,
    Per li colli di Pindo ameni e vari
    Potevi coglier rose:
    Ma tua virtù s’irrìta
    Ove sforzo virile a pena basta;
    E nell’aspro sentier, che al piè contrasta,
    Ti cimentasti ardita
    Qual già vide ai perigli espor la fronte
    Fiere vergini armate il Termodonte.

    Or poi, tornando dall’eccelsa impresa,
    Quì sul dotto Tesino
    Scoti la face al sacro foco accesa
    Del bel tempio divino:
    E dall’arguta voce
    Tal di raro saper versi torrente,
    Che il corso a seguitar de la tua mente
    Vien l’applauso veloce,
    Abbagliando al fulgor de’ raggi tui
    La invidia, che suol sempre andar con lui.

    Chi può narrar qual dal soave aspetto
    E da’ verginei labri
    Piove ignoto finora almo diletto
    Su i temi ingrati e scabri?
    Ecco la folta schiera
    De’ giovani vivaci a te rivolta
    Vede sparger di fior, mentre t’ascolta,
    Sua nobile carriera:
    E al novo esempio de la tua tenzone
    Sente aggiugnersi al fianco acuto sprone.

    Ai detti al volto a la grand’alma espressa
    Ne’ fulgid’ occhi tuoi
    Ognun ti crederìa Temide stessa,
    Che rieda oggi fra noi:
    Se non che Oneglia, altrice
    Nel fertil suolo di palladj ulivi,
    Alza ai trionfi tuoi gridi giulivi;
    E fortunata dice:
    Dopo il gran Doria, a cui died’ io la culla,
    È il mio secondo sol questa fanciulla.

    E il buon parente, che su l’alte cime
    Di gloria oggi ti mira,
    A forza i moti del suo cor comprime,
    E pur con sè s’adira,
    Ma poi cotanto è grande
    La piena del piacer, che in sen gli abbonda,
    Che l’argin di modestia alfine innonda,
    E fuor trabocca e spande:
    E anch’ei col pianto, che celar desìa,
    Grida tacendo: questa figlia è mia.

    Ma dal cimento glorïoso e bello
    Tanto stupore è nato,
    Che già reca per te premio novello
    L’erudito Senato.
    Già vien su le tue chiome
    Di lauro a serpeggiar fronda immortale:
    E fra lieto tumulto in alto sale
    Strepitoso il tuo nome;
    E il tuo sesso leggiadro a te dà lode
    De’ novi onori, onde superbo ei gode.

    Oh amabil sesso, che su l’alme regni
    Con sì possente incanto,
    Qual’ alma generosa è che si sdegni
    Del novello tuo vanto?
    La tirannìa virile
    Frema, e ti miri a gli onorati seggi
    Salir togato, e de le sacre leggi
    Interprete gentile,
    Or che d’Europa ai popoli soggetti
    Fin dall’alto dei troni anco le detti.

    Tu sei, che di ragione il dolce freno
    Sul forte Russo estendi;
    Tu che del chiaro Lusitan nel seno
    L’antico spirto accendi.
    Per te Insubria beata,
    Per te Germania è gloriosa e forte;
    Tal che al favor de le tue leggi accorte
    Spero veder tornata
    L’età dell’oro, e il viver suo giocondo,
    Se tu governi, ed ammaestri il mondo.

    E l’albero medesmo, onde fu colto
    Il ramoscel, che ombreggia
    A la dotta Donzella il nobil volto,
    Convien che a te si deggia.
    In esso alta Regina
    Tien conversi dal trono i suoi bei rai;
    Tal che lieto rinverde, e più che mai
    Al cielo s’avvicina.
    Quanto è bello a veder che il grato alloro
    Doni al sesso di lei pompa, e decoro!

    Ma già la Fama all’impaziente Oneglia
    Le rapid’ ali affretta;
    E gridando le dice: olà, ti sveglia;
    E la tua luce aspetta.
    Insubria, onde romore
    Va per mense ospitali ed atti amici,
    Sa gli stranieri ancor render felici
    Nel calle dell’onore.
    Or quai, Vergine illustre, allegri giorni
    Ti prepara la patria allor che torni?

    Pari alla gloria tua per certo a pena
    Fu quella, onde si cinse
    Colà d’Olimpia nell’ardente arena,
    Il lottator che vinse;
    Quando tra i lieti gridi
    Il guadagnato serto al crin ponea;
    E col premio d’onor, che l’uomo bea,
    Tornava ai patrj lidi;
    E scotendo le corde amiche ai vati
    Pindaro lo seguìa con gl’Inni alati.




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