Library / Literary Works

    Giuseppe Torelli

    Inno a Maria Vergine Nella festività della sua concezione

    Qual sarà mai, Signor, che le tue lodi
    Non prenda oggi a cantar? tu sei l’eterno,
    L’eccelso, il grande, il creator del tutto.
    Eravi nulla, e tu pur eri prima
    Sola sostanza; e in te raccolto e chiuso,
    Di tua natura contemplando i pregi,
    Godei sicuro in sempiterna pace.
    Nè già ti stavi neghittoso, e lento,
    Principio inerte, ma in poter fecondo
    Producevi, intendendo, il divin Verbo,
    E quello amando riamato ardevi,
    In una sola essenza unico e trino.
    Che tal tu sia, e che qual sei pur duri,
    Beato ed immutabile ed eterno,
    Egli è sol necessario: (e come puote
    Cosa mancar, ch’è di se stessa origo,
    Ed in sè vive, e mai non s’abbandona ?)
    Ogn’altra cosa è contingente, e solo,
    Qual ch’ella sia, dal tuo voler dipende.
    Solo fu dunque tua bontà infinita,
    Non già bisogno, od altrui forza, o priego,
    La qual t’indusse a trar del nulla il mondo.
    Questa sola creò da prima i cieli,
    Formò le stelle, e ne l’immenso vano
    Sovra i cardini suoi librò la terra.
    Questa l’ampie campagne, i poggi aprici,
    Gli eccelsi monti, e le profonde valli
    Vestì d’arbor, di fior, d’erbe, di frutti,
    E l’universo empièo d’alme viventi:
    Per le quai cose tutte, e in terra, e in cielo,
    Ne l’ampio mare, e ne’ profondi abissi,
    II tuo spirto, o Signor, penetra e scorre,
    E lor comparte movimento e vita.
    Ma de le tante e sì mirabil’opre
    La mirabile più, la più stupenda,
    Che uscisse di tua man, fu l’uomo istesso:
    E quel misterioso almo riposo,
    In cui cessasti, quasi fabbro stanco,
    Da le fatiche tue, chiaro ne addita
    Che più che in altro, in lui ti compiacesti.
    Tu lo formasti a la tua propria imago,
    Con intelletto, volontate, e amore:
    Con intelletto, che conosca il buono;
    (Non già in se stesso, ma qual ei si mostra
    Diffuso e sparso in le create cose);
    Con volontà, che conosciuto il voglia;
    E con amore, che voluto l’ami;
    In che l’umana libertà si chiude.
    Poscia dentro il terrestre Paradiso,
    Alma contrada, dove sempre verna,
    Abitator felice il collocasti;
    Perchè quanto natura ivi produce,
    Tutto a l’impero suo fosse soggetto.
    Folle! che non contento di sua sorte,
    E più bramando che bramar non lice,
    Al suo stesso Fattor volle agguagliarsi.
    Che colui certamente a Dio s’agguaglia,
    Ed ingiusto s’usurpa i dritti suoi,
    Che discerner presume il bene, e il male.
    Però che tanto è ben, quanto a Dio piace,
    E tanto è mal, quanto dispiace a lui;
    Nè v’ ha, tranne lui sol, ferma natura.
    Per tal follia mortifero veneno
    A le viscere sue tosto s’apprese,
    E per le vene si diffuse e sparse,
    Di sì rea qualità, che con la carne
    Anco lo spirto ne rimase infetto;
    Quasi liquor, che se in corrotto vaso
    S’infonda, perde ogni bontà natia.
    Nè pur ei sol, ma l’ uman germe intero.
    Cadde così del naturai suo stato,
    Che di salire al ciel si rese indegno.
    Sola tu sola rimanesti intatta
    Nel contagio comun, Vergine eccelsa,
    Termine fisso d’ eterno consiglio,
    Cui già fin da principio il divin Padre
    Elesse a ristorar i nostri danni.
    Perchè non uom, non angelo, o cherubo
    O s’altra creatura è più perfetta,
    Era a ciò far possente in modo alcuno;
    S’egli, mosso a pietà del suo lavoro,
    L’unico Figlio non mandava in terra
    A vestir nel tuo sen le nostre spoglie.
    Che perchè l’uomo a Dio potesse alzarsi,
    Ch’egli a lui s’abbassasse era mestieri,
    E a sì gran volo gl’impennasse l’ali;
    E se mestier non era, egli per certo
    Si conveniva. Ed oh quanto sei grande,
    Che chiudesti colui dentro al tuo grembo,
    Cui sono i vasti cicli angusto giro!
    E quanto santa, cui de’ Santi il Santo,
    Ed anzi pur la Santitade istessa
    Non isdegnò di far suo proprio tempio!
    Puro è lo spirto tuo, pura la carne,
    Quasi cristal, cui nulla macchia adombra.
    Messo al tuo paragon l’avorio perde,
    II bianco giglio, e ’l candido ligustro.
    Men bianco è il latte, e men bianca è la neve,
    Che scenda senza vento in giogo alpino.
    Tutta candida sei, tutta sei schietta,
    Nè v’ha candor, che al tuo candor somigli.
    Che di te dirò più? degna onde parli
    Il gran Cantore del Giordano in riva:
    Orfèo non finto, al cui soave canto
    Cariche di stupor traean le belve
    Da i lor covili, e l’alte annose querce
    Piegavan per piacer le frondi, e immoti
    Sovra le piume lor taceansi i venti.




    POTRESTI ANCHE ESSERE INTERESSATO A


    © 1991-2023 The Titi Tudorancea Bulletin | Titi Tudorancea® is a Registered Trademark | Condizioni d'uso
    Contact