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    Iacopo Vittorelli

    La Nutrice

    Dunque è ver che d’un gentile
    Pargoletto andrai festosa,
    Quando i campi, o bella Sposa,
    Si vedranno rifiorir?

    Mentre l’Are io coronava
    De la pronuba Lucina,
    Una voce repentina
    Mi scoperse l’avvenir.

    Siedi intanto, e a me rivolgi
    Quel tuo sguardo lusinghiero,
    Or che ignoto magistero
    Io ti vengo a dispiegar.

    Siedi, o gemma de le spose
    Amarillide felice,
    Ed impara a qual Nutrice
    Devi il figlio consegnar.

    * * *

    Quando il pigro ottavo mese
    Il suo corso ha già varcato,
    E il bel fianco affaticato
    A sgravarsi è omai vicin;

    Per le selve circostanti
    Manda in traccia d’una bella
    Quadrilustre villanella,
    Che nudrisca il tuo bambin.

    Ecco, mirala. Già spunta
    In cerulea gonnelletta,
    Con un nastro, che le assetta
    Vario-pinto grembïal;

    Sì giuliva nel sembiante,
    Sì composta ne le membra,
    Che al vederla appunto sembra
    L’ innocenza pastoral.

    * * *

    Ah! quell’anima serena,
    Quel modesto e ingenuo ciglio
    Ben sapranno al caro figlio
    Puro latte apparecchiar.

    Amarille, ti conforta:
    Mai non giunse affanno o cura
    La meccanica struttura
    Di quegli organi a turbar.

    Usa a pascersi del grano
    Che il festivo Ottobre miete,
    Usa a spegnere la sete
    Entro l’acque del ruscel;

    Cibo pingue e delicato
    Raro, o mai non le si appresti:
    Son migliori i cibi agresti
    Erbe, poma, e latte, e miel.

    * * *

    Guarda ben che non assorba
    Da le tazze Orïentali
    I pungenti amari sali
    Del volatile Caffè,

    Che infondendosi nel puro
    Tenue latte cristallino,
    Ogni fibra del bambino
    A irritar bastevol è.

    Non accendere la gota
    D’improvviso amabil foco,
    Se il fanciul vagisce un poco,
    O se prende a lagrimar;

    Chè quel tremolo vagito
    Il polmon rassoda intanto,
    E ogni stilla di quel pianto
    Giova il cerebro a purgar.

    * * *

    Meglio torna a ciel sereno,
    Bella Sposa, offrirgli il latte,
    Che tra l’aure rarefatte
    De la stanza signoril.

    Se più vivo in su le mamme
    Un elastico aer prema,
    Forza è ben che il latte gema
    Vie più facile e sottil.

    Nè temer che soffra danno
    Il vezzoso pargoletto,
    Se lo bacia un zeffiretto,
    Che spirando intorno va.

    Bacian l’aure mattutine
    Una rosa, una giunchiglia,
    Nè si turba o si scompiglia
    La lor gracile beltà.

    * * *

    Deh rivolgiti a i pastori,
    E vedrai su quelle irsute
    Brune carni la salute
    Vigorosa tondeggiar.

    Sai perchè? Perchè il felice,
    Che a la greggia, o al campo nasce,
    Incomincia da le fasce
    L’aure schiette a respirar.

    Che se il verno procelloso
    Soffia crudo in ogni lato,
    Nè consente un delicato
    Bambinello a l’aria espor;

    Stanza almeno lo racchiuda
    Ventilata in largo giro.
    Nuoce al sonno ed al respiro
    La nebbiuzza de i vapor.

    * * *

    Quella man, che dee fasciarlo,
    Sia perita, e sia guardinga:
    Lo avviluppi, e non lo stringa,
    Che sarebbe crudeltà.

    Mesto allora il polmoncello
    Si dilata e s’apre a stento;
    E il purissimo alimento
    Chilo impuro allor si fa.

    La pietosa usanza antica
    De le fasce io non condanno.
    Purché involgan senza affanno
    Il lattante prigionier:

    Che disciolto (ahimè!) potrebbe
    Farsi oltraggio al viso, e al petto,
    O, agitando il picciol letto,
    Seminudo rimaner.

    * * *

    Ma la provvida Nutrice
    Sempre il carcere non ami,
    E sviluppi da i legami
    La sua tenera metà.

    Oh! qual giubbilo improvviso
    Tosto avvien che lo sorprenda!
    Guizza, ride, e par che intenda
    Cosa sia la libertà.

    Giunte l’ore destinate
    A la nanna fanciullesca,
    Ella sieda, e non le incresca
    Canticchiare un qualche amor.

    L’ uniforme cantilena
    Spirar suole un lento lento
    Uniforme movimento
    Ne gli spiriti e nel cor.

    * * *

    Quel Boaretti, che sì spesso
    Ama bere al Greco fonte,
    E potrebbe Anacreonte
    Far tra noi ringiovanir,

    Su, prepari a la Nutrice
    Rime, o Sposa, allegre e piane,
    Che di note rusticane
    Essa poi godrà vestir.

    Giova il canto, ma non giova
    L’onda spessa de la culla.
    Ben è ria chi si trastulla
    Volteggiando il fanciullin:

    Poiché il sangue risospinto
    Corre al cerebro geloso,
    Ed affretta impetuoso
    Ogni umore il suo cammin.

    * * *

    Stian le lucide finestre
    Di rimpetto a i negri occhietti,
    Onde entrambo li saetti
    Il vivifico balen:

    Che se in quella e non in questa
    Pupilletta agisce il lume,
    Da la forza e dal costume
    Losco il figlio, oimè! divien.

    Come poi la quarta luna,
    O la quinta il ciel rischiari,
    Fia che a metter si prepari
    Un aguzzo lattajuol:

    Quindi s’agita improvviso
    Il tranquillo pargoletto,
    E si cruccia sdegnosetto
    Fra la collera e fra il duol.

    * * *

    Bianco avorio, igneo corallo
    Di sembianze levigate
    A le mani sprigionate
    Non si nieghi per pietà,

    Con cui l’umida gengiva
    Stroppicciando lievemente,
    Al dentuccio impazïente
    Meglio il varco s’aprirà.

    Fatto adulto e grandicello
    Mutar cibo omai conviene.
    Ei sen duole, e alquanto sviene
    Nel sembiante paffutel.

    Ma la tenera Nutrice
    Non si pieghi a quel lamento,
    E ritorni al patrio armento,
    E ritorni al suo fedel.

    * * *

    Questi, o bella e illustre Sposa,
    Son gli studii di Colei,
    Che prescelsero gli Dei
    Al bambin, tuo dolce amor:

    Al bambin, che andrà crescendo
    Vie più gajo e lieto in viso,
    Se riabbia un tuo sorriso
    Quando il giorno e spunta e muor.

    Che se un dolce interno affetto,
    O Amarille, ti dicesse,
    Porgi, porgi le tue stesse
    Nivee poppe al figliuolin:

    Cedi, o Bella, e avrai dal chiaro1
    Pindemonte in Elicona
    La medesima corona,
    Ch’ei tessè di Dori al crin.

    Note

    1. Vuolsi qui alludere a una bellissima Ode del Cav. Ippolito Pindemonte, illustre Poeta, da lui mandata alla Contessa Teodora Lisca, che allattava il proprio figlio.




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