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    Giovanni Pascoli

    La cetra d'Achille

    I

    I re, le genti degli Achei vestiti
    di bronzo, tutti, sì, dormian domati
    dal molle sonno, e i lor cavalli sciolti
    dal giogo, avvinti con le briglie ai carri,
    pascean, soffiando, il bianco orzo e la spelta.
    Dormivano i custodi anche de’ fuochi,
    abbandonato il capo sugli scudi
    lustri, rotondi, presso i fuochi accesi,
    al cui guizzare balenava il rame
    dell’armi, come nuvolaglia a notte,
    prima d’un nembo. Domator di tutto
    teneva il sonno i Panachei chiomanti,
    mirabilmente, nella notte ch’era
    l’ultima notte del Pelide Achille;
    e in cuore ognuno lo sapea, nel cielo
    e nella terra, e tutti ora sbuffando
    dalle narici il rauco sonno, in sogno
    lo vedean fare un grande arco cadendo,
    e sollevare un vortice di fumo;
    ma in sogno senza altro fragor cadeva,
    simile ad ombra; e senza suono a un tratto,
    i cavalli e gli eroi misero un ringhio
    acuto, i carri scosser via gli aurighi,
    mentre laggiù, sotto Ilio, alta e feroce
    la bronzea voce si frangea, d'Achille.

    II

    Dormian, sì, tutti; e tra il lor muto sonno
    giungeva un vasto singhiozzar dal mare.
    Piangean le figlie del verace Mare,
    nel nero Ponto, l’ancor vivo Achille,
    lontane, ch’egli non ne udisse il pianto.
    Ed altre, sì, con improvviso scroscio
    ululando montavano alla spiaggia,
    per dirgli il fato o trarlo a sé; ma in vano:
    fuggian con grida e gemiti e singhiozzi
    lasciando le lor bianche orme di schiuma.
    Ma non le udiva, benché desto, Achille,
    desto sol esso; ch’egli empiva intanto
    a sé l’orecchio con la cetra arguta,
    dedalea cetra, scelta dalle prede
    di Thebe sacra ch’egli avea distrutta.
    Or, pieno il cuore di quei chiari squilli,
    non udiva su lui piangere il mare,
    e non udiva il suo vocale Xantho
    parlar com’uomo all’inclito fratello,
    Folgore, che gli rispondea nitrendo.
    L’eroe cantava i morti eroi, cantava
    sé, su la cetra già da lui predata.
    Avea la spoglia, su le membra ignude,
    d’un lion rosso già da lui raggiunto,
    irsuta, lunga sino ai pie’ veloci.

    III

    Così le glorie degli eroi consunti
    dal rogo, e sé con lor cantava Achille,
    desto sol esso degli Achei chiomanti:
    ecco, avanti gli stette uno, canuto,
    simile in vista a vecchio dio ramingo.
    E gli fu presso e gli baciò le mani
    terribili. Sbalzò attonito Achille
    su, dal suo seggio, e il morto lion rosso
    gli raspò con le curve unghie i garretti.
    E gli volgeva le parole alate:
    Vecchio, chi sei? donde venuto? Sembri,
    sì, nell’aspetto Priamo re, ma regio
    non è il mantello che ti para il vento.
    Chi ti fu guida nella notte oscura?
    Parla, e per filo il tutto narra, o vecchio.
    E gli parlava rispondendo il vecchio:
    No, non ti sono io re, splendido Achille;
    un dio felice non mi fu l’auriga:
    io da me venni. Tutti, anche i custodi
    dormono presso il crepitar dei fuochi.
    Tu solo vegli; e non udii, venendo,
    ch’esili stridi dagli eroi sopiti,
    e che un sommesso brulichio dai morti.
    E nella sacra notte a me fu guida
    un suono, il suono d’una cetra, Achille.

    IV

    Lo guardò scuro e gli rispose Achille:
    Tu non m’hai detto il caro nome, e donde
    vieni e perché. Non forse tu notturno
    vieni, alle navi degli Achei ricurve,
    per dono grande, ad esplorare, o vecchio?
    E gli parlava rispondendo il vecchio:
    Io sono aedo, o pieveloce Achille,
    caro ai guerrieri, non guerriero io stesso.
    Io nacqui sotto la selvosa Placo,
    in Thebe sacra, già da te distrutta.
    Da te non vengo a liberarmi un figlio
    cui lecchi il sangue un vigile tuo cane;
    il figlio, no; recando qui sul forte
    plaustro mulare tripodi e lebeti
    e pepli e manti e molto oro nell’arca.
    Non a me copia, non a te n’è d’uopo;
    ché tu sei già del tuo destino, e tutti
    lo sanno, il cielo, l’infinito mare,
    la nera terra, e lo sai tu ch’hai dato
    ai cari amici le tue prede e i doni
    splendidi; ansati tripodi, cavalli,
    muli, lustranti buoi, donne ben cinte,
    e grigio ferro, e reso Ettore al padre
    e la tua vita al suo dovere... Oh! rendi
    dunque all’aedo la sua cetra, Achille!

    V

    Disse, e sporgea la mano alla sua cetra
    bella, dedalea, ma l’argenteo giogo
    era dai peli del lion coperto.
    E il cuor d’Achille, mareggiava, come
    il mare in dubbio di spezzar la nave,
    piccola, curva. E poi parlava, e disse:
    TE’; riporgendo al pio cantor la cetra;
    non sì che, urtando nel pulito seggio,
    non mettesse, tremando, ella uno squillo.
    Poi tacque, in mano dell’aedo, anch’ella.
    Allora, stando, il pari a un dio Pelide
    udì ringhiare i suoi grandi cavalli,
    intese Xantho favellar com’uomo,
    e parlar della sua morte al fratello,
    Folgore, che gli rispondea nitrendo.
    Allora udì su lui piangere il mare,
    pianger le figlie del verace Mare,
    lui, così bello, lui così nel fiore;
    e molte con un improvviso scroscio
    venir per trarlo via con sé; ma in vano.
    E vide nella sacra notte il fato
    suo, che aspettava alle Sinistre Porte,
    come l’auriga asceso già sul carro,
    la sferza in pugno, che all’eroe si volge,
    sopragiungente nel fulgor dell’armi.

    VI

    E il vecchio disse le parole alate:
    Lascia ch’io vada senz’indugio, e porti
    meco la cetra, che non forse il cuore
    nero t’inviti a piangere, su questa
    cetra di glorie, l’ancor vivo Achille.
    Lascia che pianga e mare e terra e cielo;
    tu no. Non devi inebbriar di canto
    tu, divo Achille, l’animo sereno
    che sa, non devi a te celare il fato,
    non che ti volle ma che tu volesti.
    Restaci grande, o Peleìade Achille!
    Noi, canteremo. Noi di te diremo
    che, sì, piangevi, ma lontano e solo,
    e che dicevi il tuo dolore all’onde
    del mare ed alle nuvole del cielo.
    E noi diremo che una dea non vista
    a frenar la tua fosca ira veniva,
    e ti prendea per la criniera rossa,
    rossa criniera che così sconvolta
    poi ti lisciava un’altra dea non vista,
    nel tuo dolore; e che obbedivi a voci
    dell’infinito o cielo o mare: avanti,
    spingendo con un grande urlo d’auriga
    verso la morte l’immortal tuo Xantho.
    Disse e disparve nell’ambrosia notte.

    VII

    E stette Achille ad ascoltare i ringhi
    de’ suoi cavalli, e più lontano il pianto
    delle Nereidi, e dentro i lor singhiozzi
    sentì più trista, sì ma più sommessa,
    la voce della sua cerulea madre.
    Anche sentì tra il sonno alto del campo
    passar con chiaro tintinnìo la cetra,
    di cui tentava il pio cantor le corde;
    mentre i cavalli sospendean, fremendo,
    di dirompere il bianco orzo e la spelta.
    Passava il canto tra la morte e il sogno:
    qualche avvoltoio, sorto su dai morti,
    gli eroi viventi ventilava in fronte.
    Lontanò ella sotto il cielo azzurro,
    e poi vanì. Nè più la intese Achille.
    Nè gli restava, oltre i cavalli e il carro
    da guerra e le stellanti armi, più nulla,
    se non montare sopra i due cavalli,
    fulgido, in armi, come Sole, andando
    al suo tramonto. Quando udì vicino
    un singulto: Briseide su la soglia
    stava, e piangeva, la sua dolce schiava.
    Ed egli allora si corcò tenendo
    lei tra le braccia, con su lor la pelle
    del lion rosso; ed aspettò l’aurora.


    Poemi conviviali




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