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    Ludovico Ariosto

    Satira II

    A Messer Galasso Ariosto, suo fratello.


    Perc’ho molto bisogno, più che voglia,
    d’esser in Roma, or che li cardinali
    a guisa de le serpi mutan spoglia;

    or che son men pericolosi i mali
    a’ corpi, ancor che maggior peste affliga
    le travagliate menti de’ mortali:

    quando la ruota, che non pur castiga
    Issïon rio, si volge in mezzo Roma
    l’anime a crucïar con lunga briga;

    Galasso, appresso il tempio che si noma
    da quel prete valente che l’orecchia
    a Malco allontanar fe’ da la chioma,

    stanza per quattro bestie mi apparecchia,
    contando me per due con Gianni mio,
    poi metti un mulo, e un’altra rózza vecchia.

    Camera o buca, ove a stanzar abbia io,
    che luminosa sia, che poco saglia,
    e da far fuoco commoda, desio.

    Né de’ cavalli ancor meno ti caglia;
    che poco gioveria ch’avesser pòste,
    dovendo lor mancar poi fieno o paglia.

    Sia per me un mattarazzo, che alle coste
    faccia vezzi, o di lana o di cottone,
    sì che la notte io non abbia ire all’oste.

    Provedimi di legna secche e buone;
    di chi cucini, pur così alla grossa,
    un poco di vaccina o di montone.

    Non curo d’un che con sapori possa
    de vari cibi suscitar la fame,
    se fosse morta e chiusa ne la fossa.

    Unga il suo schidon pur o il suo tegame
    sin all’orecchio a ser Vorano il muso,
    venuto al mondo sol per far lettame;

    che più cerca la fame, perché giuso
    mandi i cibi nel ventre, che, per trarre
    la fame, cerchi aver de li cibi uso.

    Il novo camerier tal cuoco inarre,
    di pane et aglio uso a sfamarsi, poi
    che riposte i fratelli avean le marre,

    et egli a casa avea tornati i boi;
    ch’or vòl fagiani, or tortorelle, or starne,
    che sempre un cibo usar par che l’annoi.

    Or sa che differenzia è da la carne
    di capro e di cingial che pasca al monte,
    da quel che l’Elisea soglia mandarne.

    Fa ch’io truovi de l’acqua, non di fonte,
    di fiume sì, che già sei dì veduto
    non abbia Sisto, né alcun altro ponte.

    Non curo sì del vin, non già il rifiuto;
    ma a temprar l’acqua me ne basta poco,
    che la taverna mi darà a minuto.

    Senza molta acqua i nostri, nati in loco
    palustre, non assaggio, perché, puri,
    dal capo tranno in giù che mi fa roco.

    Cotesti che farian, che son ne’ duri
    scogli de Corsi ladri o d’infedeli
    Greci o d’instabil Liguri maturi?

    Chiuso nel studio frate Ciurla se li
    bea, mentre fuori il populo digiuno
    lo aspetta che gli esponga gli Evangeli;

    e poi monti sul pergamo, più di uno
    gambaro cotto rosso, e rumor faccia,
    e un minacciar, che ne spaventi ogniuno;

    et a messer Moschin pur dia la caccia,
    al fra Gualengo et a’ compagni loro,
    che metton carestia ne la vernaccia;

    che fuor di casa, o in Gorgadello o al Moro,
    mangian grossi piccioni e capon grassi,
    come egli in cella, fuor del refettoro.

    Fa che vi sian de’ libri, con che io passi
    quelle ore che commandano i prelati
    al loro uscier che alcuno entrar non lassi;

    come ancor fanno in su la terza i frati,
    che non li muove il suon del campanello,
    poi che si sono a tavola assettati.

    «Signor,» dirò (non s’usa più fratello,
    poi che la vile adulazion spagnola
    messe la signoria fin in bordello)

    «signor,» (se fosse ben mozzo da spuola)
    dirò «fate, per Dio, che monsignore
    reverendissimo oda una parola.»

    «Agora non si puede, et es meiore
    che vos torneis a la magnana.» «Almeno,
    fate ch’ei sappia ch’io son qui di fuore.»

    Risponde che ’l patron non vuol gli siéno
    fatte imbasciate, se venisse Pietro,
    Pavol, Giovanni e il Mastro Nazereno.

    Ma se fin dove col pensier penètro
    avessi, a penetrarvi, occhi lincei,
    o’ muri trasparesser come vetro,

    forse occupati in cosa li vedrei
    che iustissima causa di celarsi
    avrian dal sol, non che da gli occhi miei.

    Ma sia a un tempo lor agio di ritrarsi,
    e a noi di contemplar sotto il camino
    pei dotti libri i saggi detti sparsi.

    Che mi mova a veder Monte Aventino
    so che voresti intendere, e dirolti:
    è per legar tra carta, piombo e lino,

    sì che tener, che non mi sieno tolti,
    possa, pel viver mio, certi baiocchi
    che a Melan piglio, ancor che non sien molti;

    e proveder ch’io sia il primo che mocchi
    Santa Agata, se avien ch’al vecchio prete,
    supervivendogli io, di morir tocchi.

    Dunque io darò del capo ne la rete
    ch’io soglio dir che ’l diavol tende a questi
    che del sangue di Cristo han tanta sete?

    Ma tu vedrai, se Dio vorrà che resti
    questa chiesa in man mia, darla a persona
    saggia e scïente e de costumi onesti,

    che con periglio suo poi ne dispona:
    io né pianeta mai né tonicella
    né chierca vuo’ che in capo mi si pona.

    Come né stole, io non vuo’ ch’anco annella
    mi leghin mai, che in mio poter non tenga
    di elegger sempre o questa cosa o quella.

    Indarno è, s’io son prete, che mi venga
    disir di moglie; e quando moglie io tolga,
    convien che d’esser prete il desir spenga.

    Or, perché so come io mi muti e volga
    di voler tosto, schivo di legarmi
    d’onde, se poi mi pento, io non mi sciolga.

    Qui la cagion potresti dimandarmi
    per che mi levo in collo sì gran peso,
    per dover poi s’un altro scarricarmi.

    Perché tu e gli altri frati miei ripreso
    m’avreste, e odiato forse, se offerendo
    tal don Fortuna, io non l’avessi preso.

    Sai ben che ’l vecchio, la riserva avendo,
    inteso di un costì che la sua morte
    bramava, e di velen perciò temendo,

    mi pregò ch’a pigliar venissi in corte
    la sua rinuncia, che potria sol tòrre
    quella speranza onde temea sì forte.

    Opra feci io che si volesse porre
    ne le tue mani o d’Alessandro, il cui
    ingegno da la chierca non aborre;

    ma né di voi, né di più giunti a lui
    d’amicizia, fidar unqua si volle:
    io fuor de tutti scelto unico fui.

    Questa opinïon mia so ben che folle
    diranno molti, che a salir non tenti
    la via ch’uom spesso a grandi onori estolle.

    Questa povere, sciocche, inutil genti,
    sordide, infami, ha già levato tanto,
    che fatti gli ha adorar dai re potenti.

    Ma chi fu mai sì saggio o mai sì santo
    che di esser senza macchia di pazzia,
    o poca o molta, dar si possa vanto?

    Ogniun tenga la sua, questa è la mia:
    se a perder s’ha la libertà, non stimo
    il più ricco capel che in Roma sia.

    Che giova a me seder a mensa il primo,
    se per questo più sazio non mi levo
    di quel ch’è stato assiso a mezzo o ad imo?

    Come né cibo, così non ricevo
    più quïete, più pace o più contento,
    se ben de cinque mitre il capo aggrevo.

    Felicitade istima alcun, che cento
    persone te accompagnino a palazzo
    e che stia il volgo a riguardarte intento;

    io lo stimo miseria, e son sì pazzo
    ch’io penso e dico che in Roma fumosa
    il signore è più servo che ’l ragazzo.

    Non ha da servir questi in maggior cosa
    che di esser col signor quando cavalchi;
    l’altro tempo a suo senno o va o si posa.

    La maggior cura che sul cor gli calchi
    è che Fiammetta stia lontana, e spesso
    causi che l’ora del tinel gli valchi.

    A questo ove gli piace è andar concesso,
    accompagnato e solo, a piè, a cavallo;
    fermarsi in Ponte, in Banchi e in chiasso appresso:

    piglia un mantello o rosso o nero o giallo,
    e se non l’ha, va in gonnelin liggiero;
    né questo mai gli è attribuito a fallo.

    Quello altro, per fodrar di verde il nero
    capel, lasciati ha i ricchi uffici e tolto
    minor util, più spesa e più pensiero.

    Ha molta gente a pascere e non molto
    da spender, che alle bolle è già ubligato
    del primo e del secondo anno il ricolto;

    e del debito antico uno è passato,
    et uno, e al terzo termine si aspetta
    esser sul muro in publico attaccato.

    Gli bisogna a San Pietro andar in fretta;
    ma perché il cuoco o il spenditor ci manca,
    che gli sien dietro, gli è la via interdetta.

    Fuori è la mula, o che si duol d’una anca,
    o che le cingie o che la sella ha rotta,
    o che da Ripa vien sferrata e stanca.

    Se con lui fin il guattaro non trotta,
    non può il misero uscir, che stima incarco
    il gire e non aver dietro la frotta.

    Non è il suo studio né in Matteo né in Marco,
    ma specula e contempla a far la spesa
    sì, che il troppo tirar non spezzi l’arco.

    «D’uffici, di badie, di ricca chiesa
    forse adagiato, alcun vive giocondo,
    che né la stalla, né il tinel gli pesa.»

    Ah! che ’l disio d’alzarsi il tiene al fondo!
    Già il suo grado gli spiace, e a quello aspira
    che dal sommo Pontefice è il secondo.

    Giugne a quel anco, e la voglia anco il tira
    all’alta sedia, che d’aver bramata
    tanto, indarno San Georgio si martira.

    Che fia s’avrà la catedra beata?
    Tosto vorrà gli figli o li nepoti
    levar da la civil vita privata.

    Non penserà d’Achivi o d’Epiroti
    dar lor dominio; non avrà disegno
    de la Morea o de l’Arta far despòti;

    non cacciarne Ottoman per dar lor regno,
    ove da tutta Europa avria soccorso
    e faria del suo ufficio ufficio degno;

    ma spezzar la Colonna e spegner l’Orso
    per tòrgli Palestrina e Tagliacozzo,
    e darli a’ suoi, sarà il primo discorso.

    E qual strozzato e qual col capo mozzo
    ne la Marca lasciando et in Romagna,
    trionferà, del cristian sangue sozzo.

    Darà l’Italia in preda a Francia o Spagna,
    che sozzopra voltandola, una parte
    al suo bastardo sangue ne rimagna.

    L’escomuniche empir quinci le carte,
    e quindi ministrar si vederanno
    l’indulgenzie plenarie al fiero Marte.

    Se ’l Svizzero condurre o l’Alemanno
    si dee, bisogna ritrovare i nummi,
    e tutto al servitor ne viene il danno.

    Ho sempre inteso e sempre chiaro fummi
    ch’argento che lor basti non han mai,
    o veschi o cardinali o Pastor summi.

    Sia stolto, indòtto, vil, sia peggio assai,
    farà quel ch’egli vuol, se posto insieme
    avrà tesoro; e chi baiar vuol, bai.

    Perciò li avanzi e le miserie estreme
    fansi, di che la misera famiglia
    vive affamata, e grida indarno e freme.

    Quanto è più ricco, tanto più assottiglia
    la spesa; che i tre quarti si delibra
    por da canto di ciò che l’anno piglia.

    Da le otto oncie per bocca a mezza libra
    si vien di carne, e al pan di cui la veccia
    nata con lui, né il loglio fuor si cribra.

    Come la carne e il pan, così la feccia;
    del vin si dà, c’ha seco una puntura
    che più mortal non l’ha spiedo né freccia;

    o ch’egli fila e mostra la paura
    ch’ebbe, a dar volta, di fiaccarsi il collo,
    sì che men mal saria ber l’acqua pura.

    Se la bacchetta pur levar satollo
    lasciasse il capellan, mi starei cheto,
    se ben non gusta mai vitel né pollo.

    «Questo» dirai «può un servitor discreto
    patir; che quando monsignor suo accresce,
    accresce anco egli, e n’ha da viver lieto.»

    Ma tal speranza a molti non riesce;
    che, per dar loco alla famiglia nuova,
    più d’un vecchio d’ufficio e d’onor esce.

    Camarer, scalco e secretario truova
    il signor degni al grado, e n’hai buon patto
    che dal servizio suo non ti rimova.

    Quanto ben disse il mulatier quel tratto
    che, tornando dal bosco, ebbe la sera
    nuova che ’l suo padron papa era fatto:

    «Che per me stesse cardinal meglio era;
    ho fin qui auto da cacciar dui muli,
    or n’avrò tre; che più di me ne spera,

    comperi quanto io n’ho d’aver dui iuli».




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