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    Nicola Sole

    Al rosignuolo

    Amo i lunghi silenzi, e le tranquille
    Ore notturne, e la solinga stanza,
    E i cieli azzurri, e le dormenti ville,
    E l’aurea luna che sui boschi avanza;
    Amo le stelle radïanti a mille,
    Amo i monti sfumati in lontananza;
    E canto, e pari al mormorante rio
    Corre povero e bruno il verso mio.

    Tu da l’intima valle, ove ti ascondi,
    Compagno di mie veglie, o rosignuolo,
    La mia canzone de la tua secondi,
    Come per vera simpatia di duolo.
    Mentre plori notturno e a me rispondi
    Di siepe in siepe studiando il volo,
    Segreta illusion mi rassecura
    D’un consorte di gioie e di sventura.

    O rosignuol de la mia valle! Spesso
    Da quel verone, che in eterno è chiuso,
    Felice udii codesto canto istesso,
    Che vieni ogni anno a rinnovar per uso.
    Un caro angiolo amante erami presso,
    E il suo canto salia col tuo confuso:
    Oggi quel canto, o rosignuol, rinnovi,
    E me felice e l’angiol mio non trovi!

    Melodioso augello! Or chi ti apprese
    Sì ricca vena di elegie soavi?
    Chi nel picciolo tuo gutture intese
    Cotante corde armoniose e gravi?
    Ove, cantando, vai? Da che paese,
    Da che regni di luce a noi migravi?
    Vago e melodioso atomo, or quale
    Spirto errante t’informa il petto e l’ale?

    Nato presso la curva onda d’un fiume,
    O per valli odorate in nido umile,
    D’un modesto color tinto le piume,
    Pien di gemiti arcani il sen gentile,
    Cantor vegliante de le stelle al lume,
    Primo sospir del giovinetto aprile,
    Le penne, il nido, le vigilie, il canto,
    Tutto in te pare armonizzato al pianto.

    Però sei caro ove che canti e voli,
    Entro i salci de’ fiumi o degli avelli,
    O per gli orti de’ claustri ove ti duoli,
    E a le romite vergini favelli,
    O il disperato prigionier consoli
    Del carcere vagando appo i cancelli,
    Sempre caro tu sei, musico errante,
    Tra i fiori de l’occaso e del levante.

    E non ti ascolto mai ch’io non rammenti
    I rosei giorni de l’infanzia mia,
    Quando al suono de’ tuoi molli concenti
    Così dolce la sera a me venia.
    Tremolavano in ciel gli astri lucenti,
    Le sue brune finestre il borgo apria,
    Splendea la luna per gli eterei piani,
    E i fochi de’ pastori ardean lontani.

    Io da le braccia de la madre allora
    Ascoltando il tuo verso entro al giardino,
    Il picciol fratel mio, che piango ancora,
    Credei tu fossi, o caro usignuolino!
    E a quell’amata ricordai talora
    Rispondesse benigna al tuo latino;
    Ed ella pur fra sorridente e mesta
    Su la mia fronte dimettea la testa.

    E come forte piansi e abbrividii,
    Ai dolci inganni de la nova scola,
    Quando Attica fanciulla in te scovrii,
    A cui l’onor fu spento e la parola!
    Quanto dolor, quanta pietà sentii
    Di te, fanciulla abbandonata e sola,
    Che presa da vergogna e da spavento
    A la notte fidavi il tuo lamento.

    D’allor, se al vespertin raggio cadente,
    Del fiumicel natio lungo la riva,
    Il tuo gorgheggio, o rosignuol dolente,
    Da l’odorata ombra de’ pioppi usciva,
    Il mio tenero petto infantilmente
    A una gentil melanconia si apriva,
    E mi obbliai talora in su la sponda
    A le tue note ed al romor de l’onda.

    Pur come van cadendo innanzi al sole
    Gli aerei veli d’un mattin sincero,
    Quelle vetuste ed innocenti fole
    Mi cadean da la mente innanzi al vero.
    Abbandonai le patrie montagnole,
    De le ricche città presi il sentiero;
    A te, caro usignuol, volsi le spalle,
    Nè più ti udii da la natal mia valle.

    Se non che spesso, a le sonanti scene,
    O fra le danze di vegliate sale,
    Le natie ripensai campagne amene,
    E l’opaca de’ gelsi ombra ospitale;
    E l’alte del tuo canto onde serene
    Su la pura correnti aura natale;
    Chè la musica tua, manco fremente,
    È più vera, più casta e più possente.

    Per lungo udirti, o rosignuol, tu mai
    Meno atteso non torni e men gradito;
    E non echeggi di bugiardi lai,
    E non imprechi, o rosignuol romito!
    Per lunga prova fastidir non sai,
    Come le gioie de l’uman convito:
    Anche dispoglio de’ fantasmi Elleni
    A le memorie de’ credenti avvieni.

    Chè se non fosti una real donzella
    Ne la beltade e ne l’onor tradita,
    Salutavi tu primo in tua favella
    La santa luce di Betlemme uscita;
    Allor che scese una virtù novella
    E in ogni cosa rintegrò la vita;
    E geminò la notte i suoi splendori,
    E tacque il verno, e s’ingemmò di fiori.

    Come ispirato trovador che canti
    Le maraviglie d’una età risorta,
    Le limpide iteravi arie festanti
    Per quella notte in tanto gaudio assorta:
    E le brevi scotendo ale roranti
    Del mistico fenile in su la porta,
    Gratificavi i primi sonni a Lui,
    Che ne l’Eden compose i canti tui.

    Quanto, solingo augel, quanto al destino
    De l’errante poeta il tuo somiglia!
    Tu peregrino alato, ei peregrino,
    La vostra nota d’una corda è figlia.
    Ei, pel mondo vagando, in suo cammino
    E fede e speme e carità consiglia;
    E tu dai boschi, ove ramingo aleggi,
    Iddio, l’amore, e la natura inneggi.

    Citareggiando per diverse prode
    Egli in premio soventi ha la sventura,
    E spesso in ceppi, che cantando rode,
    La generosa bile invan matura:
    Tu pure, in premio de la tua melode
    Languì talora in isleal cattura,
    E fra lucenti vimini contesti
    Il tuo dolor, melodïando, attesti.

    Spesso dagli aurei tetti, onde tu pendi
    Vocal conforto de le mense opime,
    Una novella melodia protendi
    Più gentile per arte e men sublime.
    Ma spesso al maggio di furor ti accendi
    Volto de’colli a le fiorenti cime;
    Disperato disio t’arde le vene,
    E langui e spiri fra le tue catene.

    Tal fra gli agi d’altero inclito ostello
    Alcun poeta il suo vigor smarria,
    E indugiando al di qua del tardo avello
    Fra’convivi prostrò la poesia:
    Ma spesso a turpe obblivion rubello
    Altro, più fiero, di rancor peria:
    Pallido e muto su la curva lira
    Piega la fronte sconsolata e spira.

    Quando nel caro orror de le foreste,
    O rosignuol, da lunge inviti al pianto,
    La nostra illusa fantasia ti veste
    D’una beltà conveniente al canto.
    Niun ti tolga a quel teatro agreste,
    Perchè più lungo in noi duri l’incanto;
    Chè ne le mani stringerem gualcita
    Poca e povera piuma e poca vita.

    Oh, così del poeta! Egli al pensiero
    Di che remoto ne deliba il verso,
    Un angiol pare che bandisca il vero
    In sacre note al secolo perverso!
    Lasciam dunque il poeta al suo mistero;
    Solo e sereno ei canti, in Dio converso!
    Non frughïam fra l’ombre, onde si avvolve,
    Ch’ivi, pentiti, troverem la polve!




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