Library / Literary Works

    Nicola Sole

    Sorrento o Torquato Tasso

    Perchè l’arte de’ carmi (e si può tanto!)
    Tutto de la pittrice arte non puote
    Visibilmente simular l’incanto,
    Tutte de l’armonie render le note?
    Perchè la Poesia nel furor santo,
    Che il fatidico sen le infiamma e scote,
    Invan depreca obbedïenti ancelle
    Quante son le minori arti sorelle?

    Invan, pallido verso, in te ritento
    Stringere i rai di così bella aurora!
    E nondimanco per mutar d’evento
    Dal pensier mio mai non cadrà quest’ora!
    Questo caro mattin, vaga Sorrento,
    Ripenserò, com’io lo veggio, ognora;
    E le coste fuggenti, e le marine,
    Viste da l’alto de le tue colline!

    E benedico, giubilando, a Dio,
    Che ognor quest’alma regïon rinnova,
    E in così dolce proda a me sortio
    La vita de l’esiglio e de la prova,
    Però che ardente d’immortal desio
    Qui men lunge da lui l’alma si trova.
    Nei mai sì belli mi tornaste e cari,
    O curvi itali cieli, itali mari!

    Candida, senza rai, su le tranquille
    Acque di Baia, ancor pende la luna;
    E per l’äer cilestre a le pupille
    Pur leggera non vien nuvola alcuna.
    Dal Vesbio a Capri, disgradata in mille
    Forme sen va come una lista bruna,
    E, qual zodiaco pintovi dall’arte,
    I convessi del ciel tremula parte.

    E giù limpido il mar giace senz’onda,
    E par che a un sogno mattutin sorrida,
    Come la prima prima aura gioconda
    Leve ne increspa la pianura infida.
    Un’amena quïete, una profonda
    Azzurra pace sovra l’acque annida;
    E l’aure, e l’acque, e le costiere intorno
    Sembran l’arrivo presentir del giorno.

    A poco a poco per le sponde estreme,
    Cadenti a picco sul cilestre piano,
    Più gaiamente il mar mormora e freme,
    Quasi desto dal soffio antelucano.
    Lungi pe’ glauchi clivi intanto geme
    Il flauto mattinier del mandrïano,
    E giù risponde da le pervie valli
    Un rumore di carri e di cavalli.

    Per le macchie de’tremuli aranceti,
    Che di perpetuo rezzo ombrano il lido,
    Desti gli augei dai talami segreti
    Gittano il mattutin limpido grido.
    Altri montando armoniosi e lieti
    Dai novali, ove al maggio ebbero il nido
    Per l’etereo zaffir treman su l’ale
    La lucida trattando onda vitale.

    Pare il golfo una curva aula aspettante
    L’ambito arrivo di real Signore,
    E l’aspetto del cielo ad ogni istante
    Pe’ cristalli del mar cangia colore.
    Così le gote di fanciulla amante
    Vela d’una gentile iride Amore,
    Quando al nitido specchio ella si asside,
    Ed ascolta una nota orma, e sorride.

    Oh, come cara, e placida, e sincera
    È quest’ora di gioia e di speranza!
    Come, o Sorrento, da la tua costiera
    Tutto parea ridesse in lontananza!
    Una rosata nebula leggera
    Correa sul mare, come l’alba avanza,
    E i monti intorno e de le coste i seni
    Lambia di corti e tremuli baleni:

    E vania scolorando: e a poco a poco
    I monti, i colli, e l’isole vicine
    Un’ampia redimia zona di foco,
    Che in porpora tingea l’onde azzurrine:
    E non parea, donde rompesse, il loco
    Pel serpeggiante orïental confine;
    Chè il ciel diffuso d’una luce blanda
    Parimente ridea per ogni banda.

    Candide in mar le vele ivano, e gai
    Canti mettea varcando il navichiere,
    Come affrettando gl’imminenti rai
    Del sol fecondo de le sue costiere.
    Deh, rivelati, o sole, anch’io sclamai,
    De la Terra, che passa, in sul sentiere!
    Ve’ questa bella e peregrina amante
    Con che trasporto ti ricorre innante!

    Ella, che ovunque intentamente move
    Gli occhi al tuo raggio innamorati e fidi,
    Non mai sì belle maraviglie e nuove,
    Non t’offre mai più grazïosi lidi!
    E tu sì mai non sorridesti altrove,
    Come in quest’alma regïon sorridi!
    Rïesci, o Sole, e la tua fiamma antica
    Gitta sul crin de la fuggente amica! —

    Ed alto il Sole era sui bruni clivi,
    Ond’ha Sorrento orïental ghirlanda,
    E largamente sui conserti olivi,
    La sua luce piovea tremula e blanda.
    E Napoli da i suoi flutti nativi
    Sorgea precinta di beltà miranda,
    E sorgean da la fresca onda tirrena
    L’isole ancelle a la real Sirena.

    E il Vesbio pel dorato aere aperto
    Come obelisco cerulo salia,
    D’una cangiante nuvola coperto,
    Che in pullulanti vortici vanìa:
    E giù pel fianco rigido e deserto,
    Cui l’aurea luce del mattin ferìa,
    Quasi respinta negli abissi orrendi
    Tacea la vampa de’ notturni incendi.

    Quante volte, o Sorrento, un giovinetto
    Bello di fresca leggiadria novenne,
    Per queste rive a lo stupendo aspetto
    Dei tuoi vaghi mattini il piè contenne!
    Io l’ho veduto il suo povero tetto,
    Toccata ho l’alga, ove mettea le penne
    L’epico cigno in solitario nido,
    E su l’acque gittava il primo grido.

    Batte la refluente onda spumante
    Appiè d’un muro, e armonïosa riede
    E cinque brevi giovinette piante
    Di quel vetusto asil crescono al piede.
    Sparsa di musco e d’ellera vagante
    La grigia pietra verdeggiar si vede,
    E bruna in alto al navigante appare
    Una finestra che vaneggia al mare.

    E rivolando ne la età fuggita
    Vidi in quel vano un giovinetto viso,
    Altero e bello di beltà romita
    Sparsa d’un mesto genïal sorriso:
    Azzurra e intenta è la pupilla ardita,
    Folto e lucido il crine in due diviso,
    Che del volto a l’oval molle acconsente —
    E per gli omeri muor profusamente.

    Per l’etere e pel mar come inspirato
    Quell’angiolo gl’intenti occhi smarria.
    E un nugolo di larve interminato
    Gli recingea la vergin fantasia;
    Che in più matura età ripopolato
    D’armi e d’armati l’Oriente avria:
    Ed albeggiava in quella fronte pura
    Un gran giorno di gloria e di sventura.

    E il mar guardava meditando, e lene
    L’aura marina lo baciava in fronte:
    E se le industri ondivaghe carene
    Salutasser, partendo, il patrio monte,
    Con gli occhi ei le seguia per le serene
    Acque nel più lontan de l’orizzonte,
    Larga pregando ai poveri marini
    La pesca dei coralli oceanini.

    E con la nova fantasia partiva
    Anch’ei per intentate acque infinite,
    Stelle ignote cercando e ignota riva,
    E fiumi e baie ed isole romite.
    La speranza rapìa la fuggitiva
    Prora per l’ideal vasta Anfitrite,
    E sedean lieti su la poppa bruna
    Gli estri in ale di foco e la fortuna.

    Era vivace ancor per l’Occidente
    La maraviglia dei trovati regni,
    E pel vasto Ocean l’orma recente
    Degl’Iberi parea storici legni.
    Ogni ispirata ambiva itala mente
    Ridir d’Alcide vïolati i segni;
    Ed iva innanzi a le più chiare imprese
    La stupenda Odissea d’un Genovese.

    La fantastica luce era mancata,
    Che da le mediane ombre raggiava,
    E come a terza de la sua giornata
    La vagabonda umanità posava.
    Nè d’ombre e d’auree fantasie velata
    Era l’ora che al mondo allor toccava,
    Nè larga sì, tumultuosa, ardente,
    Come il meriggio de l’età volgente.

    Nei cruenti sepolcri eran già muti
    I Farinata de l’ausonia prole,
    E i bruni ispidi lucchi eran caduti,
    E de le Bici le severe stole.
    Sovra tende di rasi e di velluti
    Blandamente ferìa l’Italo Sole;
    E sovra l’elsa del guerrier fulgea
    In ricche gemme la perizia Achea.

    Ma di Allighier185 la mattiniera musa,
    Che, col grido de l’aquila, ridesta
    Avea l’Itala Donna entro la chiusa
    De’ barbarici tempi atra foresta;
    Ma l’usignuolo, onde sonò Valchiusa
    Per lunghe notti armonïosa e mesta,
    Echi più gravi ivan destando ancora,
    Chè mancata di corto era l’aurora.

    E nel petto dei fulgidi nepoti,
    Benché ardessero omai soli più miti,
    Fremean di guerra nondimanco i voti
    Ne l’allegria degli aurei conviti.
    E più securi altari, e sacerdoti
    L’Arte si ottenne, e più tranquilli riti,
    E inclinata passava e trïonfale,
    Pe’ delubri, pei Fori, e per le sale.

    Parea l’Ausonia gente un pellegrino,
    Che d’alta selva e tenebrosa emerso,
    A l’aperto si posi in sul cammino
    Coll’occhio indietro, a riguardar, converso.
    E per l’Etrusca notte e pel latino
    Secol vagava il novo italo verso;
    Ed ai guerreschi procellosi ludi
    Seguian le pugne de’ risorti studi.

    E tu, quando sì lieta era la vita,
    Tu, vagabondo giovinetto, entravi
    In quel mondo di feste e d’erudita
    Luce, e di più benigne arti e soavi.
    Ed ove più conserta ombra e romita
    Ti offeria l’Eridàn, lento vagavi,
    Muto seguendo da la curva riva
    Le nubi erranti e l’onda fuggitiva.

    Te seguian le fanciulle Eridanine
    Pe’ sinuosi e floridi viali,
    E del pensoso da l’incolto crine
    Paventavan gli ardenti occhi fatali.
    De le nove tue rime e pellegrine
    Le Minerve del Po sentir gli strali;
    E sospirar segrete al tuo concento
    Sul sen di latte reclinando il mento.

    — Da qual ne approda incognita contrada
    Questo alunno del canto e del valore?
    Ne la sua man ventenne, ecco la spada
    Splende e la piuma di virtù maggiore!
    Il sorriso, che placido digrada
    Per la sua bocca leonina e muore,
    D’insueta magia l’alme incatena,
    Come il suo verso di profonda vena!

    Più che l’Eroe del suo splendido canto,
    Move costui bello ne l’armi e saldo,
    E il novo carme d’un più forte incanto
    Gl’infiora il labbro sorridente e baldo! —
    Così le donne e i cavalier di vanto
    Proseguiano, o Torquato, il tuo Rinaldo,
    Quando la sera ai circoli festivi
    De l’Estense castel bruno apparivi!

    E di Ferrara agl’incliti signori,
    Tra lo splendor de le tacenti sale,
    Del tuo giovine eroe gl’illustri amori
    Con epico narravi inno augurale.
    Però che in esso i fortunati albori
    Lucean del tuo divin carme immortale:
    Del potente usignuolo eran le prime
    Note, promessa di elegia sublime!

    Nè più l’Amor nel boschereccio albergo
    Di chiusa valle a meditar sedea,
    Nè sospettoso nel sanguigno usbergo
    Del vagabondo venturier fremea.
    Lunge ei le penne irrequïete e il tergo
    Dai dolci colli Euganei volgea:
    Avea de’ molli contemplanti il saio
    Deposto e il marzïal guanto d’acciaio.

    Del fuggitivo Iddio su le diffuse
    Chiome, per le turrite itale moli,
    Indarno al priego de l’Esperie muse
    Di Platone cadean gli ultimi soli.
    Per le corti il perduto e per le chiuse
    Marmoree ville iva alternando i voli
    Con occhio ardente dal piacer, con viso
    Arguto, e sparso di maligno riso!

    E su la fronda de le tue corone,
    Povero Tasso, iniquamente ei pose,
    Invido quasi de la tua canzone,
    Infausto premio di amaranti e rose!
    Ahi, di quanto dolor fora cagione
    Quel don malaugurato ei ti nascose!
    Nè tu il pensavi, o giovinetto ardito,
    Pel vasto ciel de l’Epopea rapito!

    O trombe nostre! O timpani sonanti.
    Sovra l’Orebbe! O mar di Galilea!
    O bandiere di Cristo, sventolanti
    Sui merli di Tortosa e di Nicea!
    O selve piene di stupendi incanti,
    E d’alti mostri, che la fè vincea!
    O tende! O fochi de’ notturni campi!
    O sol diffuso in infiniti lampi!

    O giardini, o palagi, o fonti, o rivi
    Per la terra di Dio lene correnti!
    O spelonche difese ai raggi estivi!
    O gravide d’odori aure gementi!
    O feri aurei cavalli! O verdi clivi
    Di largo sangue marzïal tepenti!
    O Golgota, o Sïonne, o santo avello,
    Ove spento scendea l’Emmanuello!

    In che stupenda vision passaste
    Per quella giovinetta alma ispirata,
    Che, l’ali aprendo vigorose e vaste
    Verso l’Oriental aura infocata,
    Sovr’ampio mare di cavalli e d’aste
    E di tende e di carri iva portata,
    E, al chiaro suon de la guerriera tromba,
    Com’aquila scendea sovra una tomba!

    Tempo verrà (se ne’ futuri eventi
    La generosa profezia non erra)
    Che più sereni soli e più clementi
    Di nova luce investiran la terra:
    E risensate guarderan le genti,
    Come un delirio che passò, la guerra:
    E ammireran che per sì lunga etade
    Tanta fede asseguita abbian le spade.

    Ma quante volte echeggerà profondo
    Pe’ secoli venturi il tuo poema,
    Parrà men empia al rinnovato mondo
    Questa de l’armi signoria suprema.
    Chè nel fero tuo carme e verecondo
    La Guerra, ancor che più superba frema,
    Par che giù ponga il cingolo cruento,
    E dei martiri assuma il vestimento.

    Chè la tua Musa non venìa da monti,
    Che di qua de le stelle ergan le cime,
    Ma dai superni angelici orizzonti
    Messaggera scendea de le tue rime;
    E ne la manna de l’eterne fonti
    T’insoavìa la Cantica sublime:
    E su lo scudo, onde Michel si armava,
    Tu l’epica scrivevi itala ottava!

    Era la Fè la tua Camena, e quando
    Nero salia da’ pergami del Reno
    Un turbo impetuoso e miserando
    Era la Fè che ti ruggia nel seno!
    E tu la fronte giovinetta alzando
    Irradïata d’immortal baleno
    Ponevi incontro all’Aquilon ruggente
    La tromba che fremea per l’Orïente!




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