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    Alessandro Tassoni

    L'Oceano

    Con la copia d’una lettera scritta a un Amico
    sopra la materia del MONDO NUOVO
    .


    Lettera a N.

    AL SIGNOR N.

    Signor mio, V. S. m’ha mandati due Canti del suo Poema, i quali non sono nè i primi, nè seguiti. L’uno contiene la descrizione d’una battaglia, e l’altro un accidente amoroso. Quanto al Poema, io non posso giudicare quello ch’ egli sia per essere; mentre non veggo nè principio, nè mezzo, nè fine. Ma poichè Ella ne mostra un braccio e una gamba, io discorrerò di quel braccio e di quella gamba per quello che sono, e forse dalle qualità loro si potrà anche venire in qualche cognizione della riuscita di tutto il corpo; come si narra, che già al tempo antico i savi di Egitto, veggendo una scarpa sola di Rodope, fecero giudicio della bellezza di tutto il corpo suo.

    La prima cosa adunque, lo stile a me pare assai buono e corrente, e credo che l’uso continuo gliel farà anco migliore. Sonovi alcuni pochi luoghi espressi stentatamente, ma nella revisione V. S. avrà più facile e franca la vena da poterli mutare in meglio. Le comparazioni sono poche, e potrebbono esser alcune di loro più nobilmente spiegate; l’arditezza dei translati alle volte ha qualche difficoltà, e sonovi alcune voci e frasi poco toscane segnate in margine. Ma quello che più importa, V. S. secondo l’uso moderno ha premuto più nei concetti inutili, che nelle cose essenziali: e seguita (per quant’io posso giudicare) la via degli altri, che trattano questa benedetta materia del Mondo Nuovo, che non sono pochi. Perciocchè oltre il Cavaliere Stigliani (che n’ha di già dati fuora venti Canti (e’l Villifranchi) ch’avea ridotto a buon segno il suo Poema, quando morì) io so tre altri che trattano anch’essi eroicamente l’istesso soggetto, e tutti danno in questo, di voler imitare il Tasso nella Gerusalemme, e Virgilio nell’Eneide; e niuno ricorda dell’Odissea, la quale, s’io non m’inganno, dovrebbe esser quella che servisse di Faro a chi disegna di ridurre a Poema Epico la navigazione del Colombo all’India Occidentale.
    Già per pubblica fama e per istorie notissime a tutto il mondo si sa, che i popoli dell’India occidentale non avevano all’arrivo del Colombo in quelle parti nè ferro, nè cognizione alcuna di lui, e che andavano tutti nudi, oltre l’essere di natura pusillanimi e vili; se non vogliamo eccettuare i Cannibali, i quali, benchè andassero ignudi anch’essi, avevano nondimeno più del fiero, e combattevano con archi e saette di canna, con punte avvelenate.

    A che dunque voler formare un Eroe guerriero, dove non si potea far guerra? O facendosi, si faceva contra uomini disarmati, ignudi e paurosi? Non vede V. S. che questo è un confondere l’Iliade con la Batracomiomachia, e introdurre un Achille, che divenga glorioso col far macello di rane? V. S. mi risponderà, che i suoi Indiani gli finge armati e bravi; e questo è forse ancor peggio, perciocchè ognun sa certo, che non aveano armi, e che non erano tali: onde esce apertamente del verisimile: e l’intelletto non può gustare di cosa seria, che abbia fondamento di falsità sì evidente: perchè la fantasia dalle cose notissime non estrae fantasmi diversi da quel che sono (ragione che intese anche, ma non la disse Aristotile) oltre che parimenti sa ognuno, che ’l Colombo fu piuttosto gran prudente, che gran guerriero.

    Essendo adunque tutti gli altri popoli di quelle parti ignudi e vili, a me non pare che si possa far combattere il Colombo, eccetto che co’ Cannibali, i quali, benchè andassero anch’essi nudi, erano nondimeno tanto fieri e gagliardi, che combattendo con archi grandi, e saette con punte di pietra avvelenate, si poteva dalla vittoria acquistar onore. Ma bisognerebbe avvertire di non introdurre, come gli altri, il Colombo con un esercito: perciocchè oltre l’esser chiaro ch’ei non condusse se non tre caravelle con poca gente; mentre si mette in campo con un battaglione di cinque o sei mila fanti o cavalli armati contra una moltitudine di gente ignuda, non gli si può fare acquistar fama eroica, sebbene i nemici fossero centomila; essendo cosa ordinaria, che i pochi armati e bravi vincano i molti disarmati e inesperti. E per questo l’Ariosto quando introdusse il suo Orlando contra moltitudine vile, l’introdusse sempre solo. Però anche il Colombo, se non si vuole introdur solo, si deve almeno introdurre con sì pochi compagni, che a que’ compagni ed a lui sia glorioso ed eroico il vincere.

    Quanto agli amori, ognun sa parimente che le donne ritrovate dal Colombo erano brune, e andavano anch’esse ignude; però era vanità il fingere in loro bellezze diverse dal colore e dal costume di quelle parti. L’introdurre poi in India altra gente d’Europa diversa da quella del Colombo, che combatta con lui, è il maggior errore che si possa fare, venendosi contra l’Istoria a levare a lui la gloria della vera sua azione eroica, che fu d’essere stato il primo senza controversia a tentare e scoprire il Mondo Nuovo.

    Però quanto all’imprese gloriose ed eroiche del Colombo, io mi restringerei, come fece Omero, quando egli cantò gli errori d’Ulisse, a fortune di mare, a contrasti e macchine di Demoni, a incontri di Mostri, a incanti di Maghi, a impeti di genti selvaggie, e a discordie e ribellioni de’ suoi, che furono in parte cose vere. E negli amori andrei molto cauto, per non uscire del cerchio, e fingerei piuttosto le Indiane innamorate de’ nostri, che i nostri di loro, come nell’Istorie si legge d’Anacaona. E quanto all’invenzione che hanno trovata alcuni di trasportare donne d’Europa in quelle parti sulle navi del Colombo, io l’ho per debole assai. E tanto maggiormente, sapendosi che ’l Colombo a fatica ritrovò uomini che ’l seguitassero in quel suo primo passaggio.

    Ma perchè pensai anch’io una volta a questo soggetto, e ne feci così all’infretta un poco d’abbozzamento del primo Canto, che contiene quello che occorse al Colombo dallo stretto di Gibilterra fino alle Canarie, dette l’Isole Fortunate; vegga V. S. s’egli potesse servire a lei per quello ch’ella disegna di fare, che gliene mando qui congiunta una copia, e le bacio le mani.

    SERVITORE DI V. S.
    ALESSANDRO TASSONI.

    CANTO PRIMO

    I.

    Cantiam, Musa, l’Eroe di gloria degno,
    Ch’ un nuovo Mondo al nostro Mondo aperse,
    E da barbaro culto e rito indegno
    Vinto il ritrasse, e al vero Dio l’offerse:
    La discordia de’ suoi, l’iniquo sdegno
    Dell’inferno ei sostenne, e l’onde avverse;
    E con tre sole navi ebbe ardimento
    Di porre il giogo a cento regni e cento.

    II.

    Dai termini d’Alcide avea già sciolte
    Le vele il domator dell’Oceano,
    E con le prore all’Occidente volte
    Si lasciava alle spalle il lito ispano:
    Tutte d’intorno a lui parean sepolte
    Le tempeste nel mar placido e piano,
    E invitata da un ciel puro e sereno
    Gli apriva Teti al gran disegno il seno.

    III.

    Un fresco venticel da terra usciva,
    Ch’ invigorendo il cor de’ naviganti
    Faceva di lontan fuggir la riva,
    E da tergo sonar l’onde spumanti.
    Era nella stagion che l’Alba apriva
    Cinta di rose il cielo e d’amaranti,
    E affacciata al balcon dell’Orìente
    Parea languir mirando il Sol nascente.

    IV.

    Salutavan le trombe il nuovo giorno,
    E i delfini a scherzar correan sull’onde;
    Sedeva in poppa il Capitano, e intorno
    Cinte de’ suoi degni eran le sponde;
    Ei con parlar ferocemente adorno,
    E con voci magnanime e faconde,
    Diceva lor: Oggi, compagni, è il punto,
    Che ’l nostro Sole all’Orìente è giunto.

    V.

    Oscura abbiamo e neghittosa vita
    Fin qui dormito; or s’incomincia l’ora,
    Che fuor dalla vulgar nebbia infinita
    Usciamo al dì lucente; ecco l’Aurora.
    Questa via, ch’altri mai non ha più trita,
    Vi conduco a solcar del Mondo fuora,
    Acciò che fuor della comune schiera
    Usciate meco a fama eterna e vera.

    VI.

    E s’alcuno di voi con maggior cura
    D’oro e di gemme a faticar s’invoglia,
    Io spero di trovar tal avventura
    Che ne potrà saziare ogni sua voglia,
    Che la via che facciam, non sia sicura
    Il vedermi con voi dubbio vi toglia;
    Che pazzo è chi desia per cangiar sorte
    D’espor se stesso a temeraria morte.

    VII.

    Così parlava; e già trascorsi tanto
    Erano i legni suoi nel mare immenso,
    Che del lito affrican da nessun canto
    Non appariva più vestigio al senso;
    Quando rivolse al glorìoso vanto
    Gli occhi il superbo Re dell’aer denso,
    E antiveduto il suo periglio sorse
    Dal nero seggio, e l’empie man si morse.

    VIII.

    E chiamando i Ministri, a’ quai commessa
    L’aria avea d’Occidente e ’l mar profondo,
    Grida lor furìando: E chi concessa
    Al Colombo ha la via del nostro Mondo?
    Dunque d’un uomo vil l’audacia oppressa,
    E sommersa del mar nel cupo fondo
    Esser non può con tre legnetti frali?
    O ignominia degli Angioli immortali!

    IX.

    Se tornate quaggiù, spiriti indegni,
    Senz’ averlo affogato entro a quell’onde,
    O distornato almen sì ch’ a quei regni
    Non giunga mai che l’Oceano ascende,
    Io vi farò provar l’ire e gli sdegni
    Ch’ io serbo alle perdute anime immonde,
    E legherovvi di catene eterne
    Tra ’l foco e ’l giel delle paludi inferne.

    X.

    Sì disse il Re dell’ombre, e ’l guardo fiero
    Volgendo a Buccifar terror de’ venti,
    Mostrò, ch’ a lui del suo crudele impero
    Toccassero le basi e i fondamenti.
    Come nottole uscian per l’aer nero
    Gli spiriti mal-nati ai rai lucenti,
    E pareva che ’l Sole a quell’uscita,
    Ritirasse la luce impallidita.

    XI.

    Liete se gían le tre famose navi
    Col vento in poppa in alto mar sicure;
    Quand’ ecco si turbar l’aure soavi,
    E l’onde si turbar placide e pure
    All’apparir degli empi spirti e pravi;
    Parve ascondersi il ciel fra nubi oscure,
    E i venti che dormian sopra l’arene
    Del mar, ruppero i ceppi e le catene.

    XII.

    Scatenato Libeccio Africa lassa,
    E verso Tramontana i vanni spaccia;
    Euro al fondo del mar corre e s’abbassa,
    E le tempeste in ciel Volturno caccia.
    Vede il periglio il Capitano, e passa
    A confortare i suoi pallidi in faccia;
    Fa calare ogni vela in un momento,
    Fuor che ’l trinchetto, e piglia in poppa il vento.

    XIII.

    Nè provveduto ancor del tutto ei s’era,
    Che riversò la maledetta gesta
    Dalla faccia del ciel torbida e nera
    Grandine e pioggie e fulmini e tempesta:
    Sparve il giorno col Sole, e innanzi sera
    Notte si fe’ caliginosa e mesta;
    Nè rimase altro lume ai naviganti,
    Che quel ch’uscia dai folgori tonanti.

    XIV.

    Crescono l’onde a tant’ altezza, ch’ elle
    Perdon la forma e la sembianza d’onde:
    Le navi ora salir verso le stelle,
    E sulle nubi alzar paion le sponde:
    Or traboccar fra l’anime rubelle
    Sembran nelle voragini profonde;
    E al romper dell’antenne e delle sarte
    Han già i nocchieri abbandonata l’arte.

    XV.

    Tutto quel dì, tutta la notte appresso
    Per le vie della morte errar dispersi.
    Sembra la pioggia al cader folto e spesso
    Che giù nel mare un altro mar si versi;
    Crescono i venti, a memorando eccesso
    Stretti a soffiar degli Angioli perversi;
    E già comincia il Capitan co’ suoi
    Forte a temer che l’Ocean l’ingoi.

    XVI.

    Ciò che saggio nocchier, ch’ antiveduto
    Potea fare o soldato, o capitano,
    Tutto fe’ il valoroso, e fu veduto
    Ne’ più vili bisogni oprar la mano;
    Ma quando indarno alfin vide ogni aiuto,
    Ogni fatica, ogni consiglio vano;
    Fermossi immoto, e pien d’ardente zelo
    Rivolse gli occhi e le parole al Cielo.

    XVII.

    E disse: Ecco, Signor, che vinto cede
    Alla possanza tua mio frale ingegno;
    Se non è tuo voler che la tua fede
    Portata sia da un peccatore indegno,
    Dove non pose mai, ch’ io creda, il piede
    Alcun della tua legge e del tuo regno;
    Perdona a questi almen che non han colpa
    E del soverchio ardir me solo incolpa.

    XVIII.

    Ma se questi del mar fieri contrasti
    Vengono a noi dalla Tartarea corte;
    Tu, che d’Egitto all’empio Re mostrasti
    L’alto valor della tua destra forte,
    E d’Israel il popolo salvasti,
    Oggi salva ancor noi con egual sorte;
    E vegga dell’Inferno il seme rio
    Che ’n cielo, in terra e ’n mar tu sol sei Dio.

    XIX.

    Salì questa preghiera al ciel volando,
    E fermò l’ali ai piè del Redentore.
    Mirolla, e ’l guardo in Urrìel girando,
    Che dell’Ispano regno è protettore;
    Va’ tu, gli disse; e quegli al gran comando
    Tosto s’armò di lampi e di terrore,
    E dove perigliar vede il Colombo
    Trasse la spada e già lanciossi a piombo.

    XX.

    I miseri guerrier prostrati al suolo
    Stavano orando in atto umile e pio;
    Quando si scosse l’uno a l’altro Polo,
    E tremò il mondo, e un fiero tuon n’uscio;
    Ed ecco di lontan videro a volo
    Folgorando venir l’Angel di Dio,
    E parve ai lampi e alle fiammelle sparte
    Che giù cadesse il Sole in quella parte.

    XXI.

    Qual digiuno falcon, che d’alto veda
    Di storni, o d’altri augei schiera che passa,
    Piomba dal cielo e la disperge e fiede
    Con l’artiglio e col rostro, e la fracassa;
    Cotal l’Angel di Dio dall’alta sede
    Sovra gli empi demoni i vanni abbassa;
    Gli percuote e gli caccia e gli disperge,
    E ’l nubiloso ciel colora e terge.

    XXII.

    Fra i nembi che fuggian da’ suoi sembianti
    Tralucevano i rai con lunghe spere;
    Fuggiano i venti e i turbini sonanti,
    E le procelle e l’ombre oscure e nere:
    Egli in atti sdegnosi e fulminanti
    Con la spada ferir l’inique schiere,
    E cacciarle del ciel visibilmente
    Veduto fu dalla smarrita gente.

    XXIII.

    Allor levossi il Capitan gridando:
    O fortunati, ecco un guerrier celeste,
    Che combatte per noi lassù col brando,
    E discaccia i demoni e le tempeste.
    Chi vuol segno più lieto e memorando?
    Ecco il ciel che s’allegra e si riveste
    D’azzurro, e ’l mar che placa il gonfio seno:
    Mirate là più avanti, ecco il terreno.

    XXIV.

    Così parlava, e di lontan vedea
    Molt’ Isole nel mar fra se distinte.
    Onde le prore a quel sentier volgea,
    Dove parean dal vento esser sospinte:
    Eran l’Isole queste ove credea
    L’antica età, che delle genti estinte
    Volassero a goder l’alme beate,
    E le chiamò felici e fortunate.

    XXV.

    Porto in una di lor sicuro stassi,
    Ch’entra nel lido e forma un ampio cinto;
    E fuor, là dove ad imboccarlo vassi,
    Stretto è di foce e d’alti scogli è cinto:
    Nella tempesta il mar da’ cavi sassi
    Spumeggiando ritorna indietro spinto;
    Ma non può l’ira mai del vento audace
    La cheta onda turbar, che dentro giace.

    XXVI.

    Quivi il Colombo entrò con le sue navi,
    E stanza vi trovò dolce ed amena,
    Praticelli, boschetti, aure soavi,
    Fonti, rivi, e d’amor la terra piena;
    Fiorite l’erbe e gli arboscelli gravi
    Di frutti, e intorno una continua scena;
    E tra le frondi augelli e per le valli,
    Persi, verdi, vermigli, azzurri e gialli.

    XXVII.

    Ma non s’offerse cosa a riguardanti
    Più gradita da lor, nè più gioconda,
    Ch’ un vezzoso drappel di Ninfe erranti,
    Che gían danzando infra le piagge e l’onda:
    Come alzaron la vista ai naviganti,
    S’imboscar tutte alla più chiusa fronda;
    Solo ritenne il piede una di loro,
    E dall’arco avventò due strali d’oro.

    XXVIII.

    Parve Cintia costei, che a vendicarse
    Del temerario ardir fosse restata:
    Folgoraron le chiome all’aura sparse,
    E la faretra d’oro, ond’era armata,
    E ’n succinto vestir leggiadra apparse
    Bianca la gonna, e ’l vago piè calzata
    D’aurei coturni, e nella faccia bella
    Qual tremolante e mattutina stella.

    XXIX.

    E volgendo alle navi i lumi irati,
    E chi, gridò, cotanto ardir vi diede?
    Uomini vili alle miserie nati,
    Tenete fuor di questa riva il piede.
    Qui solo hanno gli Eroi fai beati,
    E le Ninfe immortali albergo e sede;
    E ’n questo dir scoccando il terzo strale,
    Ratta si rinselvò com’ avesse ale.

    XXX.

    Poi che sparita fu la bella arciera,
    Stette sospeso il Capitano un poco,
    Se doveva smontar sulla riviera,
    O procacciarsi porto in altro loco.
    Stimando alfin che della donna altiera
    Fossero i gesti e le parole un gioco,
    Per ristaurar le navi in terra scese
    Co’ suoi compagni, e un padiglion vi tese.

    XXXI.

    Quivi rifece antenne, arbori e sarte,
    E rivide le poppe e le carene;
    Ma de’ compagni suoi la maggior parte
    Cercando andar per quelle piagge amene,
    E trovar le vallette in ogni parte
    Di cannemele e zuccari ripiene,
    E di starne e fagiani e daini e lepri,
    Che scherzavan fra i mirti e fra i ginepri.

    XXXII.

    Era ancor Primavera, e dalle viti
    Pendean l’uve mature; i rami tutti
    Parevano inchinarsi a fare inviti
    Ch’altri cogliesse i lor maturi frutti:
    Ma fra i gusti più cari e più graditi
    (Che divennero poscia amari lutti)
    Era il veder fra le selvette ombrose
    Or mostrarsi, or fuggir le Ninfe ascose.

    XXXIII.

    La vaga gioventù focosa e ardente
    Correa per abbracciarle, e correa in vano,
    Ch’elle si nascondeano immantinente,
    E sull’avvicinar fuggian di mano:
    Ecco una n’apparía bella e ridente,
    E sembianze d’amor fea di lontano,
    Fingendo d’aspettar, ma poi dappresso
    Scoccava l’arco e fuggia a un tempo stesso.

    XXXIV.

    Gli strali eran d’oro, e piaga mai
    Nel suo colpire alcun di lor non fea,
    Ma sentiva il percosso acerbi guai
    Per l’arciera crudel che ’l percotea;
    Nè di seguirla e di cercarla ai rai
    Della Luna e del Sol si ritenea;
    Ed ella ad or ad or gli si mostrava
    Nell’aspetto gentil ch’ ei più bramava.

    XXXV.

    A cui piacea la tenerella etate,
    Donzellette apparian di primo fiore,
    Lascivamente in varie guise ornate,
    Che pareano al sembiante arder d’amore;
    E quando s’accorgean d’esser mirate,
    Or s’ascondeano, or si mostravan fuore,
    Baciandosi tra lor sì dolcemente,
    Ch’avrebbon fatto un cor di tigre ardente.

    XXXVI.

    S’altri l’età più ferma avea più cara,
    Ecco forme più adulte in più maniere,
    Or saettar con le compagne a gara,
    Or cantar sole, or carolare a schiere;
    Chi nude le chiedea, nell’onda chiara
    Notar da lunge le potea vedere;
    Se in abito virile, in poco stante
    Satollava il desio cupido amante.

    XXXVII.

    Una di lor che sotto un verde alloro
    Chiusa d’un fresco rio d’onde correnti
    Temprava al suon d’una grand’arpa d’oro,
    Che fra le mani avea soavi accenti,
    Lo spirto velocissimo e canoro
    Or con tremule note, or con languenti,
    Or con liete alternando e disciogliendo,
    Da una rupe cantò, così dicendo:

    XXXVIII.

    Quand’ Amor nacque, sue dolcezze eterne
    Stillarono dal Ciel sovra i mortali,
    Che da prima correan tutti a goderne
    Confusamente in un volere uguali,
    Fin che il desio di maggior copia averne
    Instigò i primi artefici de’ mali,
    A nasconder la loro, e trovar arte
    D’usurparsi e goder dell’altrui parte.

    XXXIX.

    Sdegnato Giove a provveder s’accinse;
    Mandò l’Onore, e l’Onestade in terra;
    Le dolcezze d’Amor l’una restrinse,
    E l’altro mosse all’appetito guerra.
    Così del gusto il puro fonte estinse,
    Fuor che ’n questa del Mondo unica Terra,
    Che serba ancor delle dolcezze il fiore,
    Come le distillò nascendo Amore.

    XL.

    Voi fortunati alla beata sede
    Giunti a goder delle delizie antiche,
    Non affrettate oltre il suo corso il piede,
    Ch’ a tempo volgeran le stelle amiche:
    Come all’estivo ardor l’Autun succede
    Co’ frutti a ristorar l’altrui fatiche;
    Così frutti d’Amor verran fra poco,
    Ma non si geli poscia il vostro foco.

    XLI.

    Primavera d’Amore, aura gentile
    Par che spirando ai dolci scherzi alletti;
    Passa della stagione il vago Aprile,
    E s’infiamman d’arsura estiva i petti:
    Tempra l’Autunno Amor l’arco e ’l focile
    Co’ dolci frutti suoi, co’ suoi diletti.
    Ma non sì tosto poi sazio è il desio,
    Ch’ un freddo Verno Amor caccia in oblio.

    XLII.

    Godete, amanti lieti e avventurati,
    Di Primavera i fiori e la verdura;
    Soffrite della State i caldi fiati,
    Che più gradita fia vostra ventura:
    Succederà l’Autun co’ frutti amati;
    Ma non s’estingua poi la vostra arsura:
    Che ’n noi nato il desio diventa eterno,
    Nè State il cangia, nè lo spegne il Verno.

    XLIII.

    Così cantò la Ninfa, e ’n tal maniera
    Mosse la gioventù cupida e sciolta,
    Che per selve andar mattina e sera
    Si vedea folleggiando e di se tolta:
    Vincere a lungo andar la prova spera,
    Se ben non succedea la prima volta:
    Perocchè suole ogni principio sempre
    Ritrovare in amor contrarie tempre.

    XLIV.

    Ma il Capitan, che ’l suo periglio intese,
    E vide ciò che ne potea seguire,
    Di tosto provveder consiglio prese,
    E fe’ intimar che si volea partire:
    Ma gli ordini e i comandi indarno spese,
    E i preghi indarno e le minacce e l’ire:
    Che non credeva alcun, nè gli era avviso
    Che fosse in altra parte il Paradiso.

    XLV.

    Blasco d’Arranda, uom già d’età matura,
    Ma saettato di saetta d’oro,
    Fisso di rimaner, per la paura
    Che non partisser gli altri, ei dicea loro:
    E qual nuova cercar miglior ventura
    Vogliam noi sciocchi, o in mar vano tesoro,
    Se la stanza e ’l possesso ora lasciamo
    Dell’Isola beata ove noi siamo?

    XLVI.

    Noi non sogniam questa felice vita,
    Nè son dipinti questi frutti e fiori.
    Ma il Capitan ch’a dipartir n’invita,
    Sa ch’hanno come gli altri, e sugo e odori:
    Quest’Isola sì bella e sì gradita,
    Albergo delle grazie e degli amori,
    Mostra che qui non giunga mai la morte,
    O che si viva almen con miglior sorte.

    XLVII.

    E non senza ragion l’antica etate,
    Che ’l tutto seppe, in questa parte volle
    La sede por dell’anime beate,
    Che ’l pregio di natura all’altre tolle:
    Qui Primavera è sempre, Autunno e State
    Senz’alcun Verno; e non è piano o colle
    Che di frutti non sia pieno e fecondo;
    E noi vogliam cercar d’un altro Mondo?

    XLVIII.

    Torni il Colombo a prender nova gente,
    E la conduca ove s’ha dato il vanto:
    Ei troverà compagni agevolmente,
    E noi godremo qui felici intanto.
    Dell’infiammato petto il dire ardente
    L’incauta gioventù commosse tanto,
    Che già la maggior parte ha stabilito
    Di non partir dall’amoroso lito.

    XLIX.

    Con trecento guerrier dal porto ispano
    S’era partito il gran Colombo; e cento
    Nati su ’l Tago avean per Capitano
    Il superbo Pinzon gonfio di vento;
    D’Aragon cento ne traea Roldano,
    Uom di feroce e indomito ardimento;
    E cento già d’Italia i più fidati,
    Tolomeo suo fratel n’avea guidati.

    L.

    Seco il minor fratello e ’l maggior figlio
    Conduceva il Colombo a quell’impresa,
    Che della gloria sua, del suo periglio
    Fosser consorti entrambi e ’n sua difesa:
    O se venisse a lui del suo consiglio
    Da morte o rio destin l’opra contesa,
    Potesse uno di lor seguirla tanto,
    Che ne portasse il desiato vanto.

    LI.

    Diego avea nome il figlio, in cui fioriva
    Sua speme, ancor fanciul d’età crescente,
    Che già sprezzando il mar col padre giva
    A cercar nuovi regni in Occidente.
    Quantunque volge l’una e l’altra riva
    Dalla Liguria all’Austro e al Sol nascente,
    Non vide Amor fanciullo in quell’etade
    Meglio disposto, o di maggior beltade.

    LII.

    E questi e assai poch’altri eran restati
    Seco nel porto a rispalmar le navi.
    Egli poi che mandò messi iterati
    Attorno, e delirar vide i più savi,
    Andò egli stesso al fine, e gli ostinati
    Smover con dolci e con parole gravi
    Cercò; ma poco frutto i suoi ricordi
    Fer predicando agli appetiti sordi.

    LIII.

    Soldati, ei dicea lor, quest’Isoletta
    Non può mancarne mai, venite, andiamo;
    Che ’n così poco ciel non è ristretta
    Quella felicità che noi cerchiamo.
    Tutto ciò che più gusta e più diletta,
    Se dentro a questo mar più ch’ingolfiamo,
    Ritroveremo e donne e frutti e fiori,
    E quel ch’importa più, gioie e tesori.

    LIV.

    Se v’arrestano qui vani diletti,
    Che diranno i Re vostri al mio ritorno?
    Voi foste meco all’alta impresa eletti,
    E fate alla lor fede oltraggio e scorno.
    Così dicea; ma gli ostinati petti
    Non si movean però dal lor soggiorno,
    Follia stimando a quel sicuro lido
    Le speranze antepor del mare infido.

    LV.

    Ond’ei tornò tutto dolente e mesto
    Fra se volgendo il non pensato caso:
    E di perder temendo ancora il resto,
    Che vacillando seco era rimaso,
    L’ancore svelse e uscì del porto presto,
    E le vele spiegò verso l’Occaso,
    Gridando dalla poppa in alto suono:
    Poi che m’abbandonate, io v’abbandono.

    LVI.

    Ma che farà con così poca gente?
    Egli stesso nol sa, nè si sgomenta;
    L’Isola gira, e di lontan sovente
    Manda uno schifo e gl’ animi ritenta;
    Ma sorda sempre ai preghi suoi più sente
    Farsi ogni orecchia; ogni speranza è spenta:
    Onde alfin parte, e i legni in alto mare
    Porla il vento, nè più l’Isola appare.

    LVII.

    Qual Tortore che i figli abbia guidati
    Fuora del nido in non sicura parte,
    Poi che s’accorge de’ vicini aguati,
    O del periglio lor sospetta in parte,
    Gli stimola a fuggir con dolci usati
    Susurri, e va girando e torna e parte,
    E quando vede alfin che nulla vale,
    S’allontana da lor spiegando l’ale;

    LVIII.

    Tal il Colombo infino all’altra aurora,
    Col vento in poppa a piene vele corse;
    Pregavanlo i compagni a far dimora,
    E gían piangendo e di lor vita in forse,
    Quando calò le vele, e la sua prora
    Tutto in un tempo all’Orìente ei torse,
    Prese il vento per fianco, e diede segno
    Ch’ all’Isola tornar facea disegno.

    LIX.

    Ma del Settentrion la rabbia avversa
    S’oppone, e ritornar non gli concede:
    O se ritorna pur, sì l’attraversa,
    Che va girando, e tardo e lento ei riede.
    Vince l’industria alfin l’aura perversa,
    E già sicuro ha sovra il vento il piede;
    Ma il vento ch’ottener non può la palma,
    Subito cessa e resta il mare in calma.

    LX.

    Alzano i marinai le vele e vanno
    Cercando aura che spiri, e nulla giova:
    Senz’aura il cielo, il mar senz’onda stanno;
    Perduto è quaggiù il moto, o non si trova:
    Gettar gli schifi, e con fatica e affanno
    Cercan di rimorchiar le navi a prova;
    Ma sì stentata è l’opra e così lunga,
    Che troppo ci vorrà pria che si giunga.

    LXI.

    Il Capitano allora in se raccolto
    Levò le mani e le preghiere a Dio,
    E disse: Alto Signor, tu che m’hai tolto
    A custodir dal tuo avversario e mio;
    Tu che rompesti dianzi il nembo folto,
    E frenasti del mar l’impeto rio;
    Tu dammi or vento, e fa ch’io trovi il core
    De’ cari servi tuoi tratto d’errore.

    LXII.

    Sull’ali della Fede in un momento
    Saliro i prieghi alla magion celeste;
    E ’l messaggier divin che stava intento
    Al rio pensier della tartarea peste,
    L’aurate piume giù dal firmamento
    Spiegò succinto in luminosa veste,
    E ritrovò che gli angioli dannati
    Nelle spelonche i venti avean legati.

    LXIII.

    Gli spiriti perversi avean creduto,
    Che sen gisse il Colombo all’Occidente,
    E che più non tornasse a dare aiuto
    Alla perduta sua misera gente;
    Ma poi che ritornar l’ebber veduto
    Contra il furor che l’Aquilone algente,
    Nelle caverne lor frigide e vote
    Legaro i venti e restar l’aure immote.

    LXIV.

    E avean lo schernitor di scherno vinto,
    Se l’Angelo di Dio non discendea
    A disserrare il tenebroso cinto,
    Che chiuso il vento in sua magion tenea.
    All’Isola felice il Duce spinto
    Sull’ora nona il quarto dì giungea.
    E ritrovava in orrida sembianza
    Tutta cangiata già sì lieta stanza.

    LXV.

    Corsero al lito i suoi compagni mesti,
    Tosto che di lontan videro i legni,
    E con le mani alzate e con le vesti
    Feron chiamando ai naviganti segni;
    E all’approdar delle tre navi presti
    Si lanciar giù da que’ dirupi indegni,
    Che di prati fioriti e piagge amene
    S’eran cangiati in nudi sassi e arene.

    LXVI.

    Fuvvi di lor che per desio d’uscire
    Fuor di quel luogo inospite e diserto,
    Corse nell’onda a rischio di morire,
    Ch’eran le navi ancor nel mare aperto:
    Ma poi che tempo e spazio ebbe il desire,
    Blasco nel danno suo già fatto esperto,
    Con vergognose luci e ’n terra fisse
    Chiese perdono al Capitano, e disse:

    LXVII.

    Quel dì, Signor, che ’n alto mar spiegando
    Le vele di partir festi sembianza,
    Stemmo tutta la notte amoreggiando
    Fra le ninfe leggiadre in festa e ’n danza.
    Ogni tristo pensier fuggito in bando
    N’era in sì bella e sì gioconda stanza;
    Godevamo ugualmente, e n’era avviso
    D’esser trasumanati in Paradiso.

    LXVIII.

    Ma poi che il Sol nell’Ocean s’immerse
    E fu la luce sua del tutto estinta,
    Ombra caliginosa ne coperse
    Di spaventose immagini dipinta;
    Nè mai sì fiera illusion s’offerse
    All’agitato Oreste e d’orror cinta,
    Che s’agguagliasse a quella, onde la notte
    Ne furo il sonno e le speranze rotte.

    LXIX.

    Di rauche trombe e di tamburi il suono
    L’orecchie ad or ad or ne percotea:
    Or tremava la terra, or s’udia il tuono
    De’ lampi, or del furor della marea,
    Parean fuggir le fere in abbandono,
    E ’n vece delle ninfe a noi parea
    Ch’uscissero giganti e mostri ascosi,
    Orribili, tremendi e spaventosi.

    LXX.

    Nè le sembianze lor del lutto vane
    Erano ai sensi oppressi e conturbati;
    Ma d’urti fieri e di percosse strane
    Sentimmo i colpi da diversi lati;
    E le piagge vicine e le lontane
    Mugghiar d’urli feroci e di latrati:
    Così senz’aver mai riposo un’ora
    Fummo agitati in fin ch’uscì l’Aurora.

    LXXI.

    Quando alfin l’alba in Orìente apparve,
    E le sue stelle in ciel la notte ascose,
    S’ascosero e fuggir tutte le larve
    E le finte bellezze insidìose;
    Frutti, fior, fronde, ogni delizia sparve,
    Gli ameni prati e le selvette ombrose,
    E l’Isola restar vedemmo piena
    D’orridi sassi e d’infeconda arena.

    LXXII.

    Tre giorni siamo in sì solinga stanza
    Senza riposo e senza cibo stati,
    Di rimedio non pur, ma di speranza
    Da tutti gli elementi abbandonati.
    Questo spirto, Signor, per te n’avanza:
    Che se tu ti scordavi i tuoi soldati,
    0 più tardi giugnevi in lor soccorso,
    Di nostra vita era finito il corso.

    LXXIII.

    Qui tacque Blasco, e lo smarrito aspetto
    Degli altri confirmò le sue parole.
    Li conforta il Colombo, e con affetto
    Paterno di lor mal seco si duole;
    Fa ristorargli, e ascolta con diletto
    I lor vaneggiamenti e le lor fole,
    E l’Isola diserta intanto lassa,
    E a prender acqua alla vicina passa.

    LXXIV.

    Vede rustici alberghi e abitatori,
    E d’acqua chiede, (maraviglia strana!)
    Trova il terren che non produce umori,
    Ma un grand’ arbore in vece è di fontana:
    Stringonsi intorno a lui tutti i vapori
    Del luogo, e fuor d’ogni credenza umana
    La virtù di quell’arbore gli scioglie,
    E gli distilla giù dalle sue foglie.

    LXXV.

    Quivi egli empiè a grand’ agio i vasi voti,
    E tolse al dipartir rinfrescamenti,
    E veggendo del mar già queti i moti,
    Di nuovo fe’ spiegar le vele ai venti.
    Musa, cui sono i gran perigli noti
    Nel girar ch’ ei fe’ il mondo a nuove genti,
    Tu d’intelletto fior dammi e di senso,
    Qual si conviene all’Oceano immenso.


    CANTO SECONDO

    I.

    Vagheggiata dai rai del sol nascente
    L’Aurora uscia della magion divina,
    E le finestre apria dell’Oriente,
    Mirando il tremolar della marina;
    Quando il Ligure Eroe sorse repente,
    L’ancore svelse, e all’aura mattutina
    Là, dove cade il Sol piegando all’Orse,
    Dall’Atlantico mar le vele torse.

    II.

    Splendeva il Ciel d’un bel sereno e puro,
    E tacevan del mar l’ire e gli sdegni,
    E ’l vento dianzi sì perverso e duro
    Spirava in poppa ai fortunati legni.


    FINE.




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