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    Ippolito Pindemonte

    La Sera

    I.

    Immagine di questa umana vita,
    Che siccome al suo fin più s’avvicina,
    Più del cammin par correre spedita
    Quel resto, che dal Ciel le si destina,
    È il Sol, quando con bella dipartita,
    Ch’è ritorno ad altrui, ratto declina,
    E tinge il muro del ritiro mio
    D’un roseo raggio, che par dirmi: Addio.

    II.

    Dalla sua grotta in sen d’atra foresta,
    Ove condusse il dì chiuso e lontano,
    Esce il Silenzio, e della grave testa
    Ai suoi ministri accenna, e della mano;
    Onde subito il cocchio a lui s’appresta,
    Sul qual benchè qua e là discorra il piano,
    Pur nè di calpestío mai, nè di ruote,
    Nè di sferza romor l’aura percuote.

    III.

    Ma tanto ancora ei dominar non pare,
    Che non susurro alcun fera gli orecchi.
    E or pur la villanella a quelle chiare
    Fonti, che sul mattin le furo specchi,
    Per attigner s’affretta, e al cigolare
    Cantando va degli ondeggianti secchi:
    Mentre forse da un lato è chi la mira,
    E dal ruvido cor su lei sospira.

    IV.

    Dalla capanna in ruote bianche ed adre,
    Dolce al villan richiamo, il fumo ascende,
    Dalla capanna, ove solerte madre
    A preparar la parca cena intende:
    Mentre il fanciullo corre incontro, e al padre
    La faccia innalza, e le ginocchia prende,
    E arcani amor va balbettando: stanco
    Quel più non sente e travagliato il fianco.

    V.

    E il figlio in alto leva, ed entro viene;
    E il minor fratellin tolto, ed assiso,
    L’un sul ginocchio, e in braccio l’altro tiene,
    Di cui la mano scherzagli sul viso;
    La madre ora al bollir dell’olle piene,
    Ed ora a quei tre cari ha l’occhio fiso;
    E già la mensa lor fuma, non senza
    I due sali miglior, fame e innocenza.

    VI.

    O bella Sera, amabil Dea fra mille,
    Che non suonano i miei versi più dolce,
    E il gentile tuo viso, e le pupille,
    Onde melanconia spira sì dolce,
    E il crin, che ambrosia piove a larghe stille,
    E quel, che l’aure rinfrescando molce,
    Respiro della tua bocca rosata,
    Che non ho per lodar voce più grata?

    VII.

    Ma o sia che rompa d’improvviso un nembo,
    Che a te spruzzi il bel crin, la Primavera,
    O il sen nuda, e alla veste alzando il lembo
    L’Estate incontro a te mova leggiera,
    O che Autunno di foglie il casto grembo
    Goda a te ricolmar, te, dolce Sera,
    Canterò pur; s’io mai potessi l’ora
    Tanto o quanto allungar di tua dimora.

    VIII.

    Già torna a casa il cacciator vagante.
    Ah sì crudo piacer me non invita,
    L’innocente a mirar pinto volante
    Cader dall’alto, e in ciel lasciar la vita,
    O a sentirlo non morto e palpitante
    Tra le mie calde e sanguinose dita.
    Più mi piace, campestre cavaliero
    Sul mio bruno vagar ratto destriero.

    IX.

    Vien dalla stalla; ei rode il ferreo morso,
    E trema impazïente in ogni vena:
    Mille de’ passi suoi prima del corso
    Perde, e in cor batte la lontana arena.
    Vedelo poi volar con me sul dorso
    Fanciulla, che dell’occhio il segue appena,
    Vede sotto ai suoi piè la bianca polve,
    Che s’alza a globi, e la via tutta involve.

    X.

    E talor gioverà per vie novelle
    Porlo, e piagge tentar non tocche avanti;
    Perdermi volontario, e di donzelle
    Smarrite in bosco, e di guerrieri erranti
    I lunghi casi e le vicende belle
    Volger nell’alma, e sognar larve e incanti:
    Poi, riuscendo al noto calle e trito,
    Goder del nuovo discoperto sito.

    XI.

    Ma già il Sole a mirar non resta loco,
    Che in quelle nubi, a cui l’instabil seno
    Splende di fuggitiva ambra e d’un foco,
    Che al torcer sol d’un guardo mio vien meno.
    Par che il colle s’abbassi; e a poco a poco
    Fugge da sotto all’occhio ogni terreno:
    Già manca, già la bella scena verde
    Entro a grand’ombra si ritira e perde.

    XII.

    Oh così dolcemente della fossa
    Nel tacito calar sen tenebroso,
    E a poco a poco ir terminando io possa
    Questo vïaggio uman caro, e affannoso.
    Ma il dì, che or parte, riederà: quest’ossa
    Io più non alzerò dal lor riposo;
    Nè il prato, e la gentil sua varia prole
    Rivedrò più, nè il dolce addio del Sole.

    XIII.

    Forse per questi ameni colli un giorno
    Moverà Spirto amico il tardo passo,
    E chiedendo di me, del mio soggiorno,
    Sol gli fia mostro senza nome un sasso
    Sotto quell’elce, a cui sovente or torno
    Per dar ristoro al fianco errante e lasso,
    Or pensoso ed immobile qual pietra,
    Ed or voci Febèe vibrando all’etra.

    XIV.

    Mi coprirà quella stess’ombra morto,
    L’ombra, mentr’io vivea, sì dolce avuta,
    E l’erba, de’ miei lumi ora conforto,
    Allor sul capo mi sarà cresciuta.
    Felice te, dirà fors’ei, che scorto
    Per una strada, è ver, solinga e muta,
    Ma donde in altro suol meglio si varca,
    Giungesti quasi ad ingannar la Parca.

    XV.

    L’alme stolte nodrir non aman punto
    Il pensier della loro ultima sorte,
    E che solo ogni dì morendo appunto
    Può fuggirsi il morir, non fansi accorte.
    Così divien come invisibil punto
    Il confin della vita e della morte;
    Onde insieme compor quasi n’è dato
    Di questo, e del venturo un solo stato.




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