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    Antonio Pucci

    Proprietà di Mercato Vecchio

    I’ ho vedute già dimolte piazze
    per diverse città; ma de’ vicini
    vo’ ragionar, lasciando l’altre razze.
    Bella mi par quella de’ perogini,
    di molte cose adorna per ragione,
    e anche la fan bella i fiorentini;
    ma dell’altre città non far menzione;
    che, se ’l ti bisognasse per tuo scampo,
    trovar non vi potresti un testimone.
    Quella di Siena, che si chiama il Campo,
    par un catino, e di freddo di verno
    vi si consuma e di state di vampo.
    Ma queste e l’altre, se chiaro discerno,
    niente son di frutte e di bellezza
    e di ciò ch’alla gente dà governo
    appetto a quella che mi dà vaghezza
    di dirne in rima, perché in quella terra
    nacqui dov’ella a tutti dà allegrezza,
    cioè Firenze; e se ’l parer non erra,
    Mercato Vecchio nel mondo è alimento,
    sì che d’ogni altra piazza il pregio serra.
    Ond’io fermai il mio intendimento
    di raccontarvi con parole preste
    le proprietà che nel Mercato sento.
    E brievemente dico che son queste:
    che quattro chiese ne’ suo quattro canti
    e ’n ogni canto ha due vie manifeste.
    Artefici ha dintorno e mercatanti
    di più e più ragion: parte de’ quali
    raccontarò a voi, signor, davanti.
    Medici v’ha maestri a tutti i mali,
    e havvi pannilini e linaiuoli,
    pizzicagnoli v’ha e speziali;
    èvvi chi vende bicchieri e orciuoli,
    e chi alberga e dà mangiare e bere
    a più ragion di cattivi figliuoli.
    Fondachi grossi v’ha di più maniere
    ed èvvi la più bella beccaria
    che sia, di buona carne, al mio parere.
    E sempre quivi ha gran baratteria:
    contentanvisi molto e barattieri,
    perché v’è pien di lor mercatantia,
    cioè di prestatori e rigattieri,
    tavole di contanti e dadaiuoli,
    e d’ogni cosa ch’a lor fa mestieri.
    Ancor da parte stanno i pollaiuoli,
    forniti sempre a tutte le stagioni
    di lepre e di cinghiali e cavriuoli
    e di fagiani e starne e di capponi
    e d’altri uccelli, ch’al conte d’Isprecche
    si converrian, sparvieri e falconi.
    Sempre di più ragion vi stanno trecche:
    diciam di quelle con parole brutte,
    che tuttodì per due castagne secche
    garrono insieme chiamandosi putte:
    e sempre son forniti di vantaggio,
    secondo il tempo, i lor panier di frutte.
    E altre vendon uova con formaggio
    per far degli erbolati e delle torte
    o raviuoli o altro di paraggio.
    Appresso a queste son le trecche accorte,
    che vendon camangiare e senapina
    e d’ogni ragion erbe, dolce e forte.
    E contadin vi vengon la mattina
    a rinnovar le cose alle fantesche:
    ciascuna rifornisce sua cocina.
    Quando le frutte rappariscon fresche,
    vengon le foresette co’ panieri
    di fichi e d’uve, e di pere e di pesche:
    se le motteggi, ascoltan volentieri,
    e havvi di più belle che ’l fiorino,
    che recan fiori e rose di verzieri.
    Non fu giammai così nobil giardino
    come a quel tempo gli è Mercato Vecchio,
    che l’occhio e ’l gusto pasce al fiorentino.
    Non credo che nel mondo abbia parecchio,
    e ciò si pruova per vive ragioni:
    non voglia più chi del mio dir fa specchio.
    Or che ricchezza è quella de’ poponi
    che vendon que’ che soglion vender biada,
    perch’hanno pronte a ciò loro stazzoni!
    Ogni mattina n’è piena la strada
    di some, e di carrate nel mercato
    è la gran pressa, e molti stanno a bada.
    Gentili uomini e donne v’ha da lato,
    che spesso veggion venire alle mani
    le trecche e’ barattier ch’hanno giucato.
    E meretrici vi sono e ruffiani,
    battifancelli, zanaiuoli e gaioffi
    e i tignosi e scabbiosi cattani.
    E vedesi chi perde con gran soffi
    biastimar colla mano alla mascella
    e ricevere e dar dimolti ingoffi.
    E talor vi si fa colle coltella,
    e uccide l’un l’altro, e tutta quanta
    allor si turba quella piazza bella.
    E spesso ancor vi si trastulla e canta,
    perocché d’ogni parti arrivan quivi
    chi va gabbando e di poco s’ammanta.
    E, per lo freddo, v’ha di sì cattivi
    che nudi stan colle calcagne al culo,
    perché si son di vestimenti privi;
    e mostran spesso quel che mostra il mulo,
    pescando spesso a riposata lenza,
    perch’è ciascun di danar netto e pulo.
    Quando fa oste il comun di Firenza,
    quinci si traggon guastatori assai
    per ardere e guastare ogni semenza;
    esconne manigoldi e picconai,
    di cui la gente spesso si rammarca
    perché guadagnan pur degli altrui guai.
    Incoronati v’ha che della marca
    vengono a farsi caricar la schiena:
    beato quello a cui più spesso è carca!
    E quando i tordi son, sempre n’è piena
    la bella piazza, e certi gentilotti
    co’ dadi fanno desinare e cena:
    talor costan lor cari i boccon ghiotti,
    ché tal vincer si crede il desinare
    ch’accorda per altrui dimolti scotti.
    E pochi isdegnan quivi di giucare,
    quivi giuocan donzelli e cavalieri
    e rade volte sanz’essi, mi pare.
    Maestri v’ha di ceste e panattieri,
    rimondator di pozzi e di giardini,
    e di molte ragion cacapensieri.
    Recanvi, quand’è ’l tempo, i contadini
    di mele calamagne molte some
    da Poggibonisi e d’altri confini;
    e di più cose ch’io non dico il nome,
    di fichi secchi e pere carvelle,
    mele cotogne e ogni simil pome.
    Evvi chi vende taglieri e scodelle,
    chi vende liscio, ed èvvi il calzaiuolo
    che vende calze e cappelline belle;
    e ’l fabbro e ’l ferrovecchio e il chiavaiuolo
    e, quando è il tempo, molte contadine
    con pentole di latte fanno stuolo.
    Per carnasciale capponi e galline,
    partendosi dal viver tra le zolle,
    vengono a farsi a’ cittadin vicine.
    Di quaresima poi agli e cipolle,
    e pastinache sonvi, e non più carne,
    siccom’a santa Chiesa piacque e volle:
    erbette forti da frittelle farne,
    fave con ceci e ogni altra civaia,
    che di quel tempo s’usa di mangiarne.
    E poi, quando ne vien la Pasqua gaia,
    la piazza par che tutta si rinfreschi,
    che di giardini pare fatta un’aia:
    rinnuovansi e racconcian tutti i deschi,
    veggonsi pien di cavretti e d’agnelli
    e di castron nostrali e gentileschi;
    similemente vitelle e vitelli
    ed altre carni; e molti cittadini
    chi compera di queste e chi di quelli.
    Di più ragion v’arrivano uccellini,
    sì da tenere in gabbia per cantare,
    fruson per li fanciulli e passerini;
    e colombi e conigli per figliare;
    e donnole vi son, gatte e gattucci;
    e massarizie assai da comperare,
    botti, lettier, cassapanche e lettucci.
    Ed èvvi quella che accatta le fanti
    (pognàm ch’el non bisogni a Antonio Pucci).
    Del mese di dicembre i buon briganti,
    che quivi son, si ragunano insieme
    e chiaman un signor di tutti quanti.
    Quand’è fatto il signore, ciascun preme
    per farsi bel di robe e di cavagli,
    né allor paion colle borse sceme.
    Coll’aste in man, forniti di sonagli,
    armeggian per la terra, ognun sì gaio
    ch’ogn’altro par che di suo fatto abbagli.
    E poi il dì di calen di gennaio
    vanno in camicia con allegra fronte
    curando poco grisoppo o rovaio,
    e ’n sulla terza sopra ’l vecchio ponte,
    si fanno cavalier, gittansi in Arno
    dov’è dell’acqua più cupa la fonte.
    Qando bagnati son, com’i’ v’incarno,
    si ciban di cocomar per confetto,
    e poi tornano in piazza non indarno;
    ma con le trombe e con molto diletto
    ismontan da cavallo al fuoco adorno,
    che a lor costa poco nell’effetto,
    perchè da’ gintiluomini dintorno
    donato è lor legname e salvaggiume,
    vitello e polli, in così fatto giorno.
    Cacciato il freddo che recon del fiume,
    non barattieri paion, ma signori,
    andando a mensa con gentil costume:
    appresso v’ha dimolti sprendori,
    nappi d’argento v’ha da tutte bande,
    sonator di stormenti e cantatori,
    lesso ed arrosto con molte vivande;
    e poi di presentare e’ par cortese
    ciascun secondo che tra loro è grande.
    Poi ch’hanno desinato all’altrui spese
    (ché tutto viene di dono e di giuoco),
    ed e’ cavalcan veggendo il paese.
    Da quella sera in là fan sanza cuoco,
    perocché, forse per le borse vote,
    non è chi più per loro accenda il fuoco;
    ma ricomincian le «dolenti note»,
    tornando al pentolin con tal tenore
    che ’n pochi dì sottiglian lor le gote;
    e posson dir: «nessun maggior dolore
    ch’a ricordarsi del tempo felice
    nella miseria», e ciò disse l’autore;
    ché dove avean capponi e pernice,
    la vitella e la torta con l’arrosto,
    hanno per cambio il porro e la radice.
    E quel ch’era signor si vede sposto:
    non fe’ maggiore istoscio Simon Mago
    ch’a lui pare aver fatto brieve e tosto;
    ché di signor si ritruova nel brago,
    non può soccorrer sé e non è soccorso,
    e dice «Ohmè, perché ne fu’ io vago?»
    Quando nel pane asciutto dà di morso
    e beve l’acqua, si reca a memoria
    che ber soleva il vino a sorso a sorso.
    Oh quanti della rota hanno vittoria
    per questo modo, che similemente
    iscendon dal trionfo a grande storia.
    Foll’è chi vuole oprar, signor, per boria.

    Di questo Antonio Pucci fu poeta.
    Cristo vi guardi sempre in vita cheta.




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