Library / Literary Works

    Costanza Monti

    L'origine della Rosa

    Poemetto

    Canto primo

    Ben fûr ciechi del lume della mente
    Quanti preser col Cielo empia contesa,
    Nè sepper come certo; alto, possente
    Di lassuso è il giudicio, e come pesa;
    Ond’ ei fra il pianto della morta gente
    Bestemmian or la disperata impresa,
    O fan qui degli Dei fede alla forza,
    Mutati in belve od in arborea scorza.

    Nè sole il dicon de’ Titani l’ ossa
    10Onde pasce Etna ed Ischia i lunghi ardori;
    Ma il dice Mirra di sue forme scossa,
    Che i suoi piange dal tronco incesti amori;
    E Aracne che dal lino u’ fue percossa
    Ancor si lagna de’ mal cerchi onori;
    E Niobe tratta al doloroso passo,
    Che i morti figli ancor guarda dal sasso.

    Tu pur, Rodia gentil, a tristo fato
    Tratta un dì fosti dal superno sdegno;
    Nè ti valse il bel volto, onesto e grato.
    Che d’ ogni riverenza era sì degno,
    Non l’ aver di virtute il petto armato,
    E il por sol nelle cacce il casto ingegno
    Chè provasti del Ciel quanto è il rigore,
    Miseramente trasmutata in fiore.

    Era costei tra le fanciulle elette
    La meglio cara alla triforme Diva,
    O armata di grand’ arco e di saette
    S’ affaticasse dell’ Eurota in riva,
    Ovver di Cinto alle petrose vette
    Gisse i cervi cacciando all’ aura estiva,
    Le selve ognor, fra cento Oreadi e cento,
    Tutte empiendo di sangue e di spavento.

    Sì ad Amor aspra e sempre faretrata
    Mena i suoi dì l’ ancella di Dïana;
    L’ andar pe’ boschi a nudo piè le aggrata,
    In breve gonna, alla foggia silvana;
    E a chioma sciolta, d’ ogni fior privata,
    Tornare in sul mattin dalla fontana;
    Nè dal suo core alcun affetto impetra
    Cosa che non sia d’ arco o di faretra.

    Ma quantunque ad amor fusse rubella,
    Ogni anima gentil per lei perìa;
    E qual pe’ rai dell’ una e l’ altra stella,
    Qual delle chiome pel fulgor languìa;
    Qual per l’ onesta angelica favella,
    Che di nuova dolcezza i petti empìa;
    Qual pe’ gigli del volto e per lo schietto
    Tepido avorio del segreto petto.

    Ardon così per la fanciulla altera
    E mille e mille innamorati côri;
    Alla reina della terza spera
    Mirto votivo ognun sospende e fiori;
    Fuman l’ are di Cipro e di Citera
    Di svenate colombe e pingui odori;
    Ma superba ella ognor quanto più vaga.
    Sol di sè stessa sè medesma appaga.

    Ove s’ apria una grotta a piè d’ un monte,
    E più il raggio del Sole era negato,
    Venne ella un giorno all’ orlo d’ una fonte
    Per riposare il fianco affaticato;
    Sciolte dall’ omer le saette conte,
    E il bel corpo alle chiare acque fidato,
    Così, dal mezzo delle vitree linfe,
    A parlar prese alle ascoltanti Ninfe;

    - Bello è le fere per lo bosco sperse
    Starsi aspettando in sul meriggio al varco;
    E bello delle prede aspre e diverse
    Sulla sera depor lo dolce incarco;
    Bello le membra di sudore asperse
    Bagnar ne’ freschi fonti, e scioglier l’ arco;
    E i femminei d’ Amor falsi piaceri
    Mutar con questi più gagliardi e veri.

    Che se pur v’ ha in amore alcun diletto,
    Altri lo segua: me tal vita giova.
    Ciglia non cangio mai, non muto aspetto
    Per quel fôco che all’ altre in sen si cova.
    Vibri il cieco fanciullo entro il mio petto
    Quante armi ei sa, ch’ io vincerò la prova;
    Lei vincerò che ai cor dà guerra e pena.
    Alta Diva non già, ma putta oscena.--

    Così la ninfa; ed il suo casto viso,
    In questo, lampeggiò tanto sereno,
    Che ben parve s’ aprisse il paradiso
    Per l’ aer d’ intorno di dolcezza pieno.
    Venere udìlla, e pel dolor diviso
    Sentì alla punta di que’ scherni il seno,
    Talchè vendetta nel pensier volgendo,
    Incominciò, crudelmente ridendo;

    - Dunque non sono io Dea? dunque costei.
    Questa vil cacciatrice andrà impunita?
    Sosterrò l’ arrogante, io fra gli Dei
    La più soave ognor, la più gradita?
    Io la figlia del Cielo? io che già fei
    Sin Giove lagrimar di tal ferita,
    Che, obliando le stelle, or piobbe in auro
    Or pel Cretico mar muggio nel tauro?

    Ed or sarò d’ una fanciulla invano
    Detta nemica? io sì di possa priva
    Ch’ ella abbia vanto di suo dir profano?
    Ch’ io venga in rischio di non esser Diva?
    Fatta sì imbelle or, dunque, è questa mano
    Ch’ una superba mi schernisca, e viva?
    E qual fia de’ mortai che più m’ onori?
    Qual mai che mi sacrifichi e m’ adori?--

    Dice; e, come la sprona il suo furore,
    Appresta il carro onde alla terra vole.
    Se ne sgomenta, e le vien contro Amore
    E prega con dolcissime parole;
    Ma non sente pietate il divin côre,
    Ed ogni suo pensier spenta la vuole;
    Chè non pur dolce all’ uomo è la vendetta.
    Ma nel sen degli eterni anco s’ alletta.

    Scende fra nembi il carro, e sì veloce,
    Che folgor par quando lo ciel traversa;
    E ad Arcadia si gira, ove una foce
    È d’ aspra valle ad ogni luce avversa;
    Ove il giorno e la notte urla feroce--
    mente ogni fera più cruda e diversa;
    Cui fan ghirlanda antiqui faggi e cerri,
    In che mai non sonò colpo di ferri.

    Qui atterrito il villan non miete o ronca.
    Nè vi guida mai greggia il pio pastore;
    Qui nel profondo, ove a mirar più tronca
    È la veduta, e cresce ombra maggiore,
    S’ apre di negri marmi una spelonca,
    Che nell’ anima gitta un sacro orrore;
    E qui il gran Fauno Dio ha impero, e segge,
    E ogni belva più strana affrena e regge.

    D’ acuto pino l’ uno e l’ altro corno
    E la rigida fronte egli ha ricinta;
    E il petto e il tergo realmente adorno
    Gli fa di tigre una pelle dipinta.
    Sotto sua ferrea verga ai sassi intorno
    Sta l’ aspra torma, di gran ferri avvinta;
    Ond’ ivi più che altrove il suo ruggito
    Urla il concavo monte e trema il lito.

    Fe’ qui raccôrre ai sacri augei le piume
    Venere, alquanto pria che il dì s’ aprisse;
    E in bello atto gentile innanzi il Nume
    Supplichevol si stette, e così disse;
    - Fauno; poichè d’ ogni superbo lume
    L’ alto Motor, l’ alt’ opra a te prescrisse
    Di raffrenar per queste brune selve
    Quant’ è furor nelle più crude belve;

    Fauno, di Trivia una crudele ancella
    Me spregiar osa, e mio divino culto;
    E sì m’ è avversa a gli atti e a la savella,
    Che m’ è forza punir lo acerbo insulto.
    Fra queste fere, prego, la più fella
    Sciogli, dunque, e la spingi nell’ occulto
    Del vicin colle, ove l’ altera suole
    Cacciar pe’ boschi all’ apparir del Sole.

    Ivi giaccia insepolta; ivi le nude
    Ossa dà in pasto alle affamate cagne;
    Ivi, ombra orrenda, di voci aspre e crude
    Empia la notte le buie campagne.
    Fauno, soccorri me di tua virtude;
    La miglior tu n’ avrai di mie compagne.
    La più soave e più gentil di quelle
    Che sono Ninfe in terra, in cielo stelle. -

    - A te imperare, a me ubbidir s’ addice,
    Fauno rispose, o santa Dea d’ amore;
    O prima, o sola d’ ogni ben radice.
    Quello che tu non miri è senza onore;
    Tu questa valle ridente e felice
    Fai, tu la spogli del nativo orrore;
    E chi del lume tuo non si conforta,
    S’ aggiunga al regno della gente morta. -

    Così dicendo, il ferreo laccio spezza
    Ad un fiero cinghial ch’ ogni altro avanza
    Vincon tempre d’ acciaio in lor durezza
    Le acute sanne, e d’ arme ogni possanza;
    E dà per gli occhi al cor tanta gravezza,
    Che spegne di salute ogni speranza;
    Nè quel di Calidonia crudo tanto,
    Nè sì terribil fu quel d’ Erimanto.

    Fugge, e prende la via pe’ vicin campi,
    E Cerer, Bacco e Palla abbatte; e l’ira
    N’ è paventosa sì, che mali scampi
    Trova il pastor che dalla lunga il mira.
    Come talor dal ciel fra tuoni e lampi
    La folgor scende, quando il turbo spira;
    Sì la belva fatal mena a fracasso
    Arbori e macchie, e ciò che vieta il passo.

    Sorge l’ Aurora fuor dell’ uso mesta,
    Quasi presaga del futuro pianto;
    Nè di splendidi for pinge la testa,
    Nè dell’ usato lume orna il bel manto;
    Tutta muta di sotto è la foresta,
    Se non che Progne col pietoso canto
    Disacerba l’ antico suo tormento,
    Cui risponde dell’ aura il gemer lento.

    Pronta ogni Oreade môve in folta schiera
    Al primo lume dell’ incerto giorno,
    E innanzi a tutte, de’ suoi dardi altera.
    Apre Rodia la via con atto adorno;
    Qual pel Dittinio giogo la severa
    Delia si mostra, e sparge ai boschi intorno
    Alto splendore; onde a Latona il petto
    S’ intenerisce pel materno affetto.

    Già il bosco si circonda ad ogni varco,
    Già ognuno e rete appronta e acuto strale;
    Chi la saetta incocca e tende l’ arco,
    Chi discorre lo pian, chi l’ erta sale;
    Suona delle faretre il grave incarco,
    E per tutto un fragor s’ alza, che tale
    Forse non è quel che dapprima appare
    Quando si leva la tempesta in mare.

    Stordita a quel rimbombo di sua tana
    Esce ogni belva e lascia il covil cupo,
    Mentre l’ ardita schiera di Dïana
    Ratta discende per l’ alto dirupo;
    Il cervo più ne trema e si lontana;
    E nel burron s’ asconde ed urla il lupo,
    E via la damma e via la capriola
    Salta per macchie e per fossati vola.

    Solo il cinghial non pave, e torvo appare
    Ad empier d’ alta strage la foresta.
    Par vorago la bocca, il guardo pare
    Foco gittar dalla pupilla infesta.
    Timore agghiaccia, e fa ognuna tremare
    Sì, che al leggero piè le penne appresta;
    Sola Rodia non torce i franchi passi;
    Già il verro ha giunto, già l’ affronta e stassi.

    Stassi immota da forte, chè desira
    La difficil vittoria. Il dardo incocca,
    Curva il grave lento arco, il nerbo tira;
    Lo stral ferrato libera la cocca,
    E infallibile fêre ov’ ella mira;
    Chè man sacra a Dïana invan non scocca.
    Fuggía sì certo quello stral superbo,
    Che chi ’l vide gridò:--Spento è l’ acerbo.--

    Ma invano; chè nel volo al dardo tolse
    Venere il ferro onde piagando passa,
    E al cinghial giunse nella fronte, e il colse
    La freccia dell’ acuta punta cassa.
    L’ ira s’ accrebbe al fero, e il corso sciolse
    Come veltro che uscisse allor di lassa,
    E arrivò lei, che col braccio gagliardo
    Fea grave il nerbo d’ un secondo dardo.

    Ahi come il crudo verro in lei ruina,
    E addenta e squarcia il caro corpo esangue!
    Come i biondi capelli e la divina
    Fronte si sparge di tiepido sangue!
    Come sul verde prato la supina
    Fanciulla cade, e in che bell’ atto langue!
    Pari a giglio succiso dal bifolco,
    Che piega il capo e muore in mezzo il solco.

    Fuggìano intanto per l’ alpestre calle
    Le cacciatrici sbigottite e smorte;
    Nè veggendo venir Rodia alle spalle,
    Si furo un tratto del lor danno accorte;
    Onde pur tutte per la muta valle
    - Rodia, - s’ udiano, - Rodia, - gridar forte;
    E - Rodia, Rodia - dal lontano speco
    Pietosamente ridicea sol l’ Eco.

    Non risponde la Ninfa ai colli intorno,
    E in maggior pieta ognuna il viso pinge;
    E perchè omai dechina e muore il giorno,
    Più presta e ansante a ricercar s’ accinge
    S’ orma pur vegga del bel piede adorno,
    Siccome tema e amor la sforza e spinge;
    Finchè vider tra i fiori, e fra la tinta
    Erba di sangue, la fanciulla estinta.

    Il velo che già cinse il forte fianco,
    Co’ dardi ivi giacea di sangue intriso;
    Ivi posar pareva il corpo stanco
    Dal pellegrino spirito diviso;
    Pallido no, ma più che neve bianco,
    Senza l’ usata luce era il bel viso;
    E l’ atto delle labbra tristo e pio
    Parea dicesse alle compagne:- Addio. -

    Strette le donne, e percotendo il petto,
    Con voce rotta d’ angoscia e di pianto,
    Su la spiaggia atterrate, il tristo affetto
    Incominciaro a disfogar col canto.
    N’ addoppiava la doglia il zeffiretto,
    Che tra i pallidi fior facea compianto;
    E ’l dì che se n’ andava, e l’ aria bruna
    Non lieta ancor del raggio della Luna.

    Dov’ ito se’,- diceano, -o peregrino
    Spirto, e lasciate n’ hai disfatte e sole?
    Quanto ha il suol di soave e di divino,
    Tutto al gir di costei par che s’ invole!
    Ahi dispietata belva! ahi rio destino!
    Come in un punto s’ è oscurato il Sole!
    Ah piangi, ah piangi, trista selva, omai;
    Caduta è la tua gloria, e tu nol sai!

    Fonti, piangete, e suoni di lamenti
    La valle e ’l monte, or ch’ ogni ben n’è tolto.
    Tu, morte acerba, i più begli occhi hai spenti.
    Hai scolorato il più leggiadro volto;
    Posto hai silenzio a que’ soavi accenti
    Che avríeno i fiumi dal lor corso vôlto.
    Chi non piagne per lei, cui non si spetra
    Per doglia il côre, ha ben il côr di pietra.

    Delle vergini o tu madre e reina,
    Vedi lo strazio della tua diletta.
    Nostra doglia soccorri: al suol t’ inchina
    E fa di noi, anzi di te vendetta.
    Stringi la tua faretra, e la divina
    Mano, che nunque invan vibra saetta.
    La belva ancida dispietata e fella,
    Che scempio fe della tua forte ancella.

    Lei non rammenti, o pia Partenia Diva,
    Che tante volte ti recò il grand’ arco?
    Lei che sovente, ai noti fiumi in riva,
    Ti togliea dalle spalle il grave incarco?
    Poi teco si bagnava all’ acqua viva?
    Teco riedeva delle belve al varco?
    Sciogliea per te di tua quadriga il freno.
    Quando scendevi a noi dal ciel sereno?

    O sia che Giove in ciel ti faccia invito,
    E tu t’ assida alla gran mensa d’ oro;
    O sia che in Delo all’ onorato lito
    Ti posi all’ ombra del fraterno alloro;
    O sia tu scesa al livido Cocito
    Ad allenar l’ eterno aspro martoro;
    Volgi, o triforme Dea, lo sguardo santo
    A noi meschine e tergi il nostro pianto.

    Movi propizia, e a quello spirto degno
    Chénati, come Amor ti riconsiglia;
    Teco l’ adduci al tuo celeste regno,
    E l’ aggiungi de’ Numi alla famiglia;
    Nè sarà forse a ministrare indegno
    U’ fu repulsa di Giunon la figlia.
    Lume del ciel, nostra possanza ed arme,
    Salve Dïana, e intendi al nostro carme.--

    Ma si taccion le donne, e il suol s’ asconde
    Sotto il notturno umido manto ombroso,
    E sol s’ ascolta in fra le negre fronde
    Gemer lo gufo in metro ai cor gravoso;
    Nè augello alcuno a’ lai lunghi risponde,
    Ma tutto è queto il bosco e tenebroso;
    Se non che veggio alquanto di sua fronte
    Metter la Luna alla cima del monte.

    I’ ti saluto, o figlia di Latona,
    O dolcissima luce di Dïana;
    Cara la mortal prece al côr ti suona,
    Nè di chi t’ ama la speranza è vana.
    Già movi amica, come amor ti sprona,
    I danni ad emendar della villana
    Morte; e n’ allegri di quel tuo splendore
    Che dona pace, e intenerisce il côre.

    Una tenera nube ecco dal cielo
    Si parte, e vien quasi per l’ aria a nuoto,
    E cinge il morto corpo, e gli fa velo
    Denso e lucido sì, che a nullo è noto;
    Si stan le ninfe con pietoso zelo
    Quete, attendendo che si compia il voto;
    E ognuna il côr di dolce speme bea,
    Contemplando il mistero della Dea.

    Ma già la nube squarciasi e lampeggia,
    Ratta volando alla spera celeste;
    Ed è che un grato e lieto fior si veggia
    Ove giacean le care membra oneste.
    Neve non tocca il suo candor pareggia;
    Di smeraldo lo stel tutto si veste;
    E dalle spine, ancor ritrosa e bella,
    Sembra tacendo dir:- Fui verginella. -

    Salve, o di Rodia nato, amico fiore;
    Cresci omai, e con l’ alma tua bellezza
    Empi la selva di novello onore,
    E vinci ogni altro, quale più si apprezza
    Di te le Grazie, di te solo Amore,
    Tessendo ghirlandette, abbian vaghezza;
    Di te pastori e ninfe innamorate
    Amino avere e seni e tempie ornate.

    Giorno verrà che piena avrai vendetta
    Per quella Diva di che fosti ancella,
    Che il côre pugnerà d’ aspra saetta
    A colei che nel ciel vanto ha di bella.
    Spenta vedràssi altra beltade eletta,
    Ed altro sangue verserà la fella
    Belva; e la Dea ond’ or t’ avesti danno
    Mercede pagherà di lungo affanno.

    Canto secondo

    Dïana, intanto, colla mente incesa
    D’ ira, di rabbia, ed in turbata fronte.
    A far vendetta della tanta offesa,
    Cercando iva ogni piaggia ed ogni monte
    Ma perchè Fauno le facea contesa
    Del verro, e s’aggiugnean gli scherni all’onte,
    Alfin, l’ odio suo doppio a far satollo,
    Mosse il consiglio a ricercar d’ Apollo.

    Tigre così, che al noto albergo riede,
    Per la tana deserta urla e s’ aggira,
    Quando i suoi dolci nati più non vede;
    Poi, fitta il fianco dallo spron dell’ ira,
    Il cacciator persegue, e sol si crede
    All’ amor e al furor che l’ urge e tira;
    A lunga via non bada, e non l’ arresta
    Piena di fiume o buio di foresta.

    Giunse alfin Cinzia ove su prato erbaoso
    Tresca delle Camene il vergin coro;
    Ivi, al suonar de’ fonti, in bel riposo
    Febo sedea sotto l’ amato alloro.
    Egli fea chiaro l’ aer e luminoso
    Col guardo pur, e risplendea nell’ oro;
    Oro la veste ed oro la faretra,
    Eran oro i coturni, oro la cetra.

    Alla dolce sorella il Delio Iddio
    Lieto si volge; e con pietoso affetto,
    Udita la cagion di quel sì rio
    Dolor che grava a lei d’ affanno il petto,
    La riconsola; il caldo suo desio
    Temprar le giura, ed al fatal ricetto
    L’ adduce ove usa l’ arte sua divina
    Sovra il tripode sacro e la cortina.

    L’ antro ivi s’ apre, con mirabil vista,
    Che l’ alme inspira alle future cose;
    Ivi al bel verde degli allori è mista
    La foglia sì di piante altre odorose,
    Che il Sol non v’entra, non che minor vista;
    Un’ armonìa gentil fra quelle ombrose
    Frasche fan gli augelletti; e lor risponde
    L’ aura, che lieve scôte i rami e l’ onde.

    Tondo è l’ albergo, e splendon quelle sante
    Mura di dolce orïental zaffiro;
    Sfavilla su colonne d’ adamante
    Una cornice di carbonchi in giro;
    E diece are ivi son, cui tutte quante
    Vulcano oprò con artificio miro;
    E ride il pavimento in un tranquillo
    Lume di soavissimo berillo.

    Sotto grand’ archi d’ auro e di rubino,
    E cento e cento con solerte cura
    Significate nel topazio fino
    Vedi imagini attorno all’ alte mura,
    Che han tanto del celeste e del divino,
    Ch’ivi par vinta a un tempo arte e natura;
    E sì le dici, se agli occhi pur credi,
    Vive e spiranti, che di più non chiedi.

    Vedi colei che trasmutò persona
    In la paterna Tessalica riva,
    Quando fuggìa dal figlio di Latona,
    Che d’ amor caldo l’ orme sue seguiva;
    Vedi il folle che già sperò corona
    Dall’ empia gara, onde cotanto ardiva,
    Qui al tronco avvinto, che di sangue sembra
    Un rio versar dalle squoiate membra.

    Vedi in Anfriso all’ ombra più conserta
    Seder, fatto pastore, il biondo Iddio;
    E la cetra destar con mano esperta,
    Onde abbian lungo le sue pene oblio;
    Poi di Parnaso il vedi giù per l’ erta
    Spender sue frecce sovra il draco rio,
    Che, benchè morto, gitta dalle cento
    Sue teste ancor ne’ petti alto spavento.

    Qui de’ Numi alla mensa il vate assiso,
    Canta de’ fulminati empi giganti;
    E il concilio del ciel pende sì fiso
    Dalla sua voce, che ne’ lor sembianti
    Il vivo spiro di veder t’ è avviso,
    E ti percôte il suon de’ dolci canti;
    L’ ode pur degli augei l’ alta reina,
    E sul folgor che dorme il collo inchina.

    Ma il chiuso penetral del santo ospizio
    Poi d’ altre imagi è storïato intorno;
    Che del tardo avvenir fan tale indizio,
    Che la ragion del Fato ivi n’ ha scorno.
    Il fonte Ippocrenéo ha quivi inizio;
    Quivi di biondo elettro in vase adorno
    Quete distillan le sacrate e chiare
    Acque, dipinte nel color del mare.

    Questo è il loco ove tanto il Dio si piace
    Quand’ ei la porta occidental dischiude;
    Quivi si sta quando il suo carro tace,
    E i destrier scioglie e in grembo al mar gli chiud
    E qui colle sue Nove ei canta, e face
    Più chiara al ciel l’ occulta sua virtude
    Quando, cinto dai voti e dagli auguri,
    Apre ai Numi medesmi i fati oscuri.

    Or quivi giunto, con fraterno zelo,
    A molcer della suora il crudo affanno,
    E a squarciar del futuro il denso velo,
    Le narra come dell’ ordito inganno
    Per la Diva che pinge il terzo cielo,
    Ogni trionfo sarà volto in danno;
    E sì le mostra agli occhi suoi disposta
    Un’ aspra istoria, nel gran muro imposta.

    Un giovinetto vedi effigïato,
    Bello come un bel Dio in sua figura,
    Che di grand’ arco e di faretra armato.
    Sembra fuggir per l’ alta ripa dura;
    E un rio cinghial quasi venirgli allato.
    Che mette dalla vista la paura;
    E nella fronte del garzon smarrito
    Vedi l’ affanno ed il terror scolpito.

    Poi vedi lui, già vinto in tanta guerra,
    Lacero tutto e di gran sangue asperso,
    Che colle membra si piega alla terra,
    E sol col volto alla Stella converso,
    In quel bell’ atto che pietà disserra,
    Sembra si lagni di suo fato avverso;
    Vedi da lungi la sanguigna belva,
    Che minacciosa e lenta si rinselva.

    E una donzella d’ aspetto divino,
    Atteggiata di grave e rio dolore,
    Battersi il petto vedi a lui vicino,
    Versando amaro duol per gli occhi fuore;
    Simile a verde e liscio pioppo, inchino
    Sul fiume che lo svelse in suo furore,
    Giace il fanciullo; ed in sì vaga forma,
    Che non par ch’ ei sia morto, ma che dorma.

    Or qui, il dito drizzando, il vate Iddío
    La buona confortò suora dolente,
    E di Vener le disse, e di quel rio
    Fôco che tutta l’ arde, e delle spente
    Luci del caro Adone, e di quel fio
    Che Ciprigna n’ avría per l’ aspro dente
    Di quella cruda fatal belva stessa
    Per cui fu già l’ amata Rodia oppressa.

    E già per gioia di vendetta il seno
    A Dïana godéa, e il torvo aspetto
    Già ritornava a lampeggiar sereno.
    Ciprigna, intanto, d’ amorso affetto
    Punta, discende nel divin terreno
    Dove Flora leggiadra have ricetto;
    Onde Zeffiro inchini al suo desire,
    E il faticato Adon voglia seguire;

    Chè, il dì medesmo, l’ amator si giva
    Per gli gioghi di Cipro a dura caccia,
    Affaticando per la vampa estiva
    Un crudo verro in sua lontana traccia.
    Sì la cortese innamorata Diva
    Di lui l’ affanno allevïar procaccia;
    Di lui per ch’ ella posto have in oblio
    Il regno de le stelle ed ogni Iddio.

    Così alle case dell’ amica Flora
    Môve, ed il volo alle colombe scioglie.
    La bella donna che le piagge infiora,
    Le si fa incontro e ne’ giardin l’ accoglie;
    E, grata in côr, la fausta Diva onora
    Che ognor siede a governo di sue voglie,
    E la mente le scalda, e in lungo amore
    Infiamma ognor del suo Favonio il còre.

    Cicco fanciullo! oh come crudo è il fòco
    E il laccio che i celesti incende e lega,
    Se per te, tolta di suo santo loco,
    A una Diva minor Cipria si piega!
    Ahi dura legge! donde son tuo giuoco
    E i mortali e gli eterni, e niun si slega;
    Ma tutti avvinci di catena iniqua,
    In cielo, in terra, universale, antiqua.

    Si de’ giardini alla gentil donzella
    Vedi chinarsi in disusata foggia
    Colei che fra gli eterni è la più bella;
    E venir quivi, ove non d’ arco o loggia,
    Ma di fronde e di fior tutto s’ abbella;
    Ove son colli onde si scende e poggia;
    U’ non son mura di grand’ auro gravi,
    Ma verd’ erbe, fresh’ antri, aure soavi.

    Lieti boschetti di palme e d’ allori
    Circondan tutta quella ripa amena;
    Una soavità di mille odori
    Sorge dai fior di che la piaggia è piena,
    E per un verde solco i freschi umori
    Zampillando dal sasso in chiara vena,
    Un fonte fan sì nitido e giocondo,
    Che il lume porta non offeso al fondo.

    Di ramo in ramo in fra le belle fronde
    Volan scherzando lascivetti augelli;
    E a specchio seggon delle liquid’ onde
    Cedri odorosi e folti mirti e belli;
    Tutte in giro dipinte ivi le sponde
    Ridon de’ freschi e lucidi ruscelli;
    Nè mai nel chiuso del giardino eterno
    Penetra la ghiacciata ira del verno.

    Zeffiro vola, e veste la campagna
    De’ bei color che primavera avviva;
    Narciso del suo mal desio si lagna
    E come suol si mira all’ acqua viva;
    Clizia si volge, e pallida accompagna
    L’ amato raggio, e ’l dolor suo ravviva
    Giacinto ha scritta l’ aspra doglia in seno
    Curva è la mammoletta in sul terreno.

    V’ è la nuova degli orti peregrina,
    Che già fu Ninfa, ed ora è fatta rosa;
    Al candor la diresti un fior di spina,
    Tanto è modesta, e non ancor pomposa;
    L’ accarezza l’ auretta, e le s’ inchina
    L’ acqua, la terra e l’ alba rugiadosa;
    E dal beato suo vergineo stelo,
    Rassembra un fior caduto ora dal cielo.

    Qui vien Ciprigna, e ovunque il guardo môva,
    Ogni fior s’ apre, e le si piega umile;
    Bàciane ognun le piante, ognun s’ innova
    Lieto più che non suole ai dì d’ aprile.
    Rodia la mira; e per l’ antica prova
    Arde di sdegno, e offende il piè gentile;
    E coll’ ardita spina il sacro umore
    Tragge, ch’ è sangue in terra, in cielo icore.

    Il vendicato fior già tutto accoglie
    E beve il sangue della sua nemica;
    Già di porpora nuova orna le foglie,
    E giuso pon la pallidezza antica.
    Così, dell’ alba su le chiare soglie,
    Candida nuvoletta al Sole obblica,
    Prima è di bianco argento, e poscia suole
    Tutta d’ oro mutarsi a’ rai del Sole.

    Videla di sue vene esser vermiglia,
    E dal cô l’ ira Venere depose;
    E volgendole amica alfin le ciglia,
    Regine d’ ogni fior, disse, le rose.
    Non più di mirto i biondi crini impiglia,
    Nè colma il petto d’ erbe altre odorose;
    Di rose splende delle trecce il freno,
    Colmo di rose è il bianco indocil seno.

    Le Grazie, di quel cespo un fior raccolto,
    Mossèr dell’ Alba alle sedi beate;
    Ne volava nell’ aria il crin disciolto,
    E l’ auree vesti addietro ventilate;
    Per lo nôvo color rider più molto
    Alle stelle parea la lor beltate;
    E le sante Ore, visto il nôvo stelo,
    Rupper l’ eterno ballo in mezzo il cielo.

    E alle Carite aggiunte, iro ne’ campi
    Dell’ odorato lucido orïente,
    Ove accende l’ Aurora i primi lampi
    Quando il novello dì reca alla gente.
    Quanti sono i colori ond’ è si stampi
    Qualunque cosa qui si fa parvente,
    Tanti sono colà, dov’ è quel duce
    Che li versa dal carro della luce.

    E là deposto nel divin terreno,
    Più bello e vivo il nuovo fior germoglia;
    E mille rose e mille aprono il seno
    Fra lo smeraldo della verde foglia;
    Qual s’ incappella in giro, e qual vien meno
    Tutta rendendo al suol la rossa spoglia;
    Qual mostra sol sua cima, e qual nel fôce
    Arde, e fa pompa del rinchiuso croco.

    La sacra Aurora, che finor si cinse
    De’fior del melograno e n’ empiea il grembo,
    Gli aurei capei di fresche rose avvinse
    La prima volta, e le versò dal lembo.
    Il cacume de’ monti allor si pinse
    Sotto la pioggia del soave nembo;
    S’ imporporò la nebbia mattutina,
    E il largo tremolar della marina.

    Della notte e del dì l’ eterne ancelle
    Trattando il ciel con pinte ali leggere.
    In brune e bianche vergate gonnelle.
    Mossero pronte alle superne spere;
    Tenéan converso il volto in ver’ le stelle
    Liete danzando, e de’ fior nôvi altere,
    Ch’ alto levavan sulle chiome d’ oro
    Chiusi in canestri di divin lavoro.

    All’ odor novo ed al novel colore
    Tutta esultò degli Dei la famiglia.
    Giove i talami suoi del sacro fiore,
    E la gran mensa d’ ôr fece vermiglia;
    Ridea Saturno del novello onore,
    Con fronte crespa e rilevate ciglia;
    E la superba Giuno il suo depose
    Cerchio di gemme, e s’ andornò di rose.

    L’ annoda Febo al verde lauro amato.
    E ’l lungo crin ne pinge e l’ aurea cetra;
    Oblia Bacco il corimbo, e al suo beato
    Capo la rosa più vaghezza impetra;
    Amor tutto di rose incoronato,
    Fiammeggiar ne fa I’ arco e la faretra;
    E’ in mezzo al coro de’ celesti assiso.
    Sciolse la voce e lampeggiò di un riso.

    - Salve, o Rosa gentil: del’ universo
    Tu letizia e dolcezza ognor sarai;
    Sempre vedràssi di te il suol cosperso;
    Sul letto degli Dei sempre arderai;
    Di qual donna è più vaga il labbro asperso
    Del minio tuo divin sempre farai;
    E qual più è bella, tanto più fia nota
    Quant’ ornerà del lume tuo la gota.

    Così ti guardi da ogni oltraggio il cielo,
    Così eterna ti rida primavera;
    Nè uccidati giammai notturno gelo.
    Nè Sol di state dalla calda spera.
    Io, côlto un ramo di quest’ almo stelo.
    Paso ne adornerò, Cipro e Citera;
    E a chi ben ama non sarà mai cosa
    Che ben guidi ad amor meglio che Rosa. -

    Voi, dunque, le cogliete, o Verginelle,
    Finch’ esse ridon sul mattino adorno.
    Fugge il tempo d’ Amore a par di quelle,
    E anch’ei trapassa al trapassar d’ un giorno;
    Ma quando torna april, tornano anch’ elle;
    Sola la verde età non fa ritorno;
    Cogliete, dunque, o giovinette, il fiore,
    Il fior leggiadro che simiglia Amore.


    1829




    POTRESTI ANCHE ESSERE INTERESSATO A


    © 1991-2023 The Titi Tudorancea Bulletin | Titi Tudorancea® is a Registered Trademark | Condizioni d'uso
    Contact