Library / Literary Works

    Edmondo De Amicis

    La guerra

    I.

    S’allungano in ridente ampia catena
    Ombrose valli e floride colline
    E campi verdi e bianche palazzine
    E giardinetti rossi di verbena.

    S’alzan nell’aria vivida e serena
    Le lontane montagne cilestrine,
    E giù, sonando, per le molli chine
    La benefica e bella onda si sfrena.

    E tutto tace: e sol dai boschi neri
    Vien fori un crepitìo fitto e sonante
    E una striscia di nuvoli leggieri.

    Ah si rifiuta, si rifiuta il core
    A creder che c’è là, tra quelle piante,
    Tanta gente che sanguina e che muore.


    II.

    Ma è bello quando in mille onde ruenti
    L’esercito feroce il campo invade,
    A masse a gruppi, a file occulte e rade,
    A inaspettati vortici lucenti.

    Passan nel piano, turbini viventi,
    I sonanti squadroni irti di spade,
    E ne la polve de le bianche strade
    Ondeggiano i pesanti reggimenti.

    Lì una colonna sopra un verde clivo
    Di foschi bersaglieri impazienti
    Tremola tutta come argento vivo;

    Lassù di lancie il monte s’incorona.
    La valle qui sotto le rote ardenti
    De le veloci batterie risona.

    III.

    Oh l’eco de le musiche guerriere
    Che risona pei campi in quegli istanti,
    Che vigoría trasfonde ai corpi affranti,
    Che raggi accende ne le fronti nere!

    Suonano in quei concenti le preghiere
    De le madri deserte e palpitanti,
    Grida amorose di lontane amanti,
    E parole di padri alte e severe.

    Vola per l’aere aperto l’armonia
    Consolatrice, e ogni anima si sente
    Più serena, più franca e più gagliarda;

    E il contadino che a morir s’avvia,
    Pensando al borgo suo, furtivamente
    Terge una stilla che non è codarda.

    IV.

    Ma credi che fa in tutti un certo effetto
    Il fischio de le palle, amico mio:
    Par che in ciascuna abbia serrato Iddio
    Uno spirto dannato e maledetto.

    Mugge questa in suon d’ira e di dispetto,
    Manda quella un orrendo miagolio,
    Geme l’altra lontano in suon d’addio
    Lungo e dolente che ti stringe il petto.

    Sono sibili acuti, alti lamenti,
    Ciniche risa, insulti, urli feroci
    Di belve, d’assassini e di dementi;

    E arrantolati strilli di megere
    E ogni sorta di musiche e di voci,
    Fuor che una voce che ti dia piacere.

    V.

    E che razza fantastica ed amena!
    Una t’entra nel corpo e ci s’appiatta;
    Una scivola via; l’altra, distratta,
    Gioca coll’orologio e la catena;

    Una, gentile, t’accarezza appena;
    Una t’accoppa netto; un’altra, matta
    Entra nel petto, gira, s’arrabatta,
    E scappa allegramente per la schiena.

    Una ti buca un occhio, una il palato,
    Questa ti manda al diavolo il berretto,
    Quell’altra ti condanna al celibato;

    E ci son poi le palle dei cannoni
    Che se fan tanto di toccarti il petto....
    Ah! quelle non intendono ragioni.

    VI.

    Se li vedessi i poveri dottori!
    Nessun affanno il loro affanno eguaglia;
    E cuci e fascia e lega e stringi e taglia,
    Non han tempo di tergersi i sudori.

    Li vedi, ansanti, con la lingua fuori,
    Larve di pace in mezzo alla battaglia,
    Fra le scheggie saltar della mitraglia
    Sbalorditi dal sangue e dai dolori.

    Uno io ne vidi biondo e giovanetto,
    Esterrefatto all’orrido macello,
    Ma d’immensa pietà fervido il petto

    E i moribondi ricopria di baci
    E il suo santo terrore era più bello
    Che la calma superba degli audaci.

    VII.

    Là si scoprono sì gli animi umani!
    Vedi fronti di prodi impaurite,
    E fanciulli di cor semplice e mite
    Tranquilli, e mezzi morti dei Titani

    Altri con gesti buffoneschi e strani
    Nascondono le faccie illividite,
    Altri per divertir l’alta spaghite
    Cantano; pensa che cantar da cani.

    Altri bisbiglia paternostri ardenti,
    Altri rimane estatico e insensato,
    Chi stringe i pugni e chi digrigna i denti.

    Altri al momento di cacciarsi sotto....
    No, per esempio, un uomo in quello stato
    Non lo farei seder nel mio salotto.

    VIII.

    Ma v’è pur la grand’anima possente,
    L’inconscio eroe terribile ed oscuro,
    Che tratta colla morte a muso duro,
    Con un freddo disprezzo impertinente.

    Dirgli: — Non fare il pazzo inutilmente,
    È tale e quale come dirlo al muro,
    Ha sempre l’aria d’essere al sicuro
    In mano di Dio padre onnipotente.

    E nel momento di tentar l’attacco
    È capace di far l’ira di Dio
    Perchè gli han preso un’oncia di tabacco;

    E terminato appena il tramestío,
    Tergendo il sangue da un profondo spacco,
    Ridir: — Compagno, quel tabacco è mio!

    IX.

    Scendono intanto dalle vette ai piani
    Muti drappelli insanguinati e fieri,
    Vecchi bendati, mesti prigionieri
    Col braccio al collo e con le vesti a brani;

    E barelle velate, e capitani
    Sorretti a braccia dai soldati austeri,
    E cavalli disciolti, e cavalieri
    Brancolanti nell’oro alto dei grani.

    Scendono tutti a lento passo eguale
    Col pensier de la estrema ora sui volti
    Come un lungo convoglio funerale,

    E tratto tratto, curïosi e ansanti,
    Volgono il guardo agli alti colli avvolti
    Di minacciose nubi lampeggianti.

    X.

    Da tutta la fumante ampia corona
    Dei monti alfin l’esercito fremente
    Agitando le man sanguinolente
    De la vittoria il grande urlo sprigiona;

    E d’insolenti squilli il ciel risona
    E si scopron le fronti al sol morente
    E il bronzo vincitor superbamente
    Dalle vette gli oltraggi ultimi tuona.

    E sui fuggenti giù per ogni china
    Una valanga di spietate lame
    Con delirante voluttà ruina,

    E tutto stampa di sanguigne impronte
    E travolge e disperde il brulicame
    Miserando dei vinti all’orizzonte.

    XI.

    Oh il maledetto cumulo d’orrori
    Per gli orti, per i campi, e pei giardini!
    Gli orribili ruscelli porporini
    Che tra le zolle colano e tra i fiori!

    E i mutilati miseri, che fuori
    Dei fossi alzano, urlando, i moncherini,
    E i mille morti per le vie supini
    Deformati dal piè dei vincitori;

    E le piazze dell’arso paesello
    Maculate di viscere fumanti
    E di pezzi di cranio e di cervello;

    E il fioco suon dei gemiti lontani
    E i bianchi giovinetti agonizzanti
    Che invocano la madre a giunte mani!

    XII.

    Ah! un giorno finirà l’orrida lite,
    Disseccherà l’amore in fra le genti
    Questo fiume dai vortici cruenti
    Questo mare di lacrime infinite.

    Ma quelle razze dall’affetto unite
    Ricorderan devote e reverenti
    Le stragi enormi e il sangue e gli ardimenti
    A cui dovranno quell’età più mite.

    E gli stendardi venerati e santi,
    Delle trascorse età pegno e memoria,
    Avranno onor di cantici e di pianti;

    Ed alzerà ogni gente un arco immane
    E scriverà sulla sua fronte: Gloria
    A tutti i morti de le guerre umane.




    POTRESTI ANCHE ESSERE INTERESSATO A


    © 1991-2023 The Titi Tudorancea Bulletin | Titi Tudorancea® is a Registered Trademark | Condizioni d'uso
    Contact