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    Francesco Petrarca

    Triumphus Pudicitie

    (Trionfo della Pudicizia)


    Quando ad un giogo ed in un tempo quivi
    dòmita l’alterezza degli dèi
    e degli uomini vidi al mondo divi,
    i’ presi esempio de’ lor stati rei,
    facendo mio profitto l’altrui male
    in consolar i casi e i dolor mei;
    ché s’io veggio d’un arco e d’uno strale
    Febo percosso e ’l giovene d’Abido,
    l’un detto deo, l’altro uom puro mortale,
    e veggio ad un lacciuol Giunone e Dido,
    ch’amor pio del suo sposo a morte spinse,
    non quel d’Enea com’è ’l publico grido,
    non mi debb’io doler s’altri mi vinse
    giovene, incauto, disarmato e solo.
    E se la mia nemica Amor non strinse,
    non è ancor giusta assai cagion di duolo,
    ché in abito il rividi ch’io ne piansi,
    sì tolte gli eran l’ali e ’l gire a volo.
    Non con altro romor di petto dansi
    duo leon feri, o duo folgori ardenti
    che cielo e terra e mar dar loco fansi,
    ch’i’ vidi Amor con tutti suo’ argomenti
    mover contra colei di ch’io ragiono,
    e lei presta assai più che fiamme o venti.
    Non fan sì grande e sì terribil sòno
    Etna qualor da Encelado è più scossa,
    Scilla e Caribdi quando irate sono,
    che via maggiore in su la prima mossa
    non fosse del dubbioso e grave assalto,
    ch’i’ non cre’ che ridir sappia né possa.
    Ciascun per sé si ritraeva in alto
    per veder meglio, e l’orror de l’impresa
    i cori e gli occhi avea fatti di smalto.
    Quel vincitor che primo era a l’offesa,
    da man dritta lo stral, da l’altra l’arco,
    e la corda a l’orecchia avea già stesa.
    Non corse mai sì levemente al varco
    d’una fugace cerva un leopardo
    libero in selva o di catene scarco,
    che non fosse stato ivi lento e tardo;
    tanto Amor pronto venne a lei ferire
    ch’al volto à le faville ond’io tutto ardo.
    Combattea in me co la pietà il desire,
    ché dolce m’era sì fatta compagna,
    duro a vederla in tal modo perire.
    Ma vertù che da’ buon non si scompagna
    mostrò a quel punto ben come a gran torto
    chi abbandona lei d’altrui si lagna,
    ché già mai schermidor non fu sì accorto
    a schifar colpo, né nocchier sì presto
    a volger nave dagli scogli in porto,
    come uno schermo intrepido et onesto
    subito ricoverse quel bel viso
    dal colpo, a chi l’attende, agro e funesto.
    Io era al fin cogli occhi e col cor fiso,
    sperando la vittoria ond’esser sòle,
    e di non esser più da lei diviso.
    Come chi smisuratamente vole,
    ch’ha scritte, inanzi ch’a parlar cominci,
    negli occhi e ne la fronte le parole,
    volea dir io: - Signor mio, se tu vinci
    legami con costei, s’io ne son degno;
    né temer che già mai mi scioglia quinci! -,
    quand’io ’l vidi pien d’ira e di disdegno
    sì grave, ch’a ridirlo sarien vinti
    tutti i maggior, non che ’l mio basso ingegno;
    ché già in fredda onestate erano estinti
    i dorati suoi strali accesi in fiamma
    d’amorosa beltate e ’n piacer tinti.
    Non ebbe mai di vero valor dramma
    Camilla e l’altre andar use in battaglia
    con la sinistra sola intera mamma,
    non fu sì ardente Cesare in Farsaglia
    contra ’l genero suo, com’ella fue
    contra colui ch’ogni lorica smaglia.
    Armate eran con lei tutte le sue
    chiare Virtuti (o gloriosa schiera!)
    e teneansi per mano a due a due.
    Onestate e Vergogna a la fronte era,
    nobile par de le vertù divine
    che fan costei sopra le donne altera;
    Senno e Modestia a l’altre due confine,
    Abito con Diletto in mezzo ’l core,
    Perseveranza e Gloria in su la fine;
    Bella Accoglienza, Accorgimento fore,
    Cortesia intorno intorno e Puritate,
    Timor d’infamia e Desio sol d’onore,
    Penser canuti in giovenile etate,
    e, la concordia ch’è sì rara al mondo,
    v’era con Castità somma Beltate.
    Tal venia contr’Amore e ’n sì secondo
    favor del cielo e de le ben nate alme,
    che de la vista e’ non sofferse il pondo.
    Mille e mille famose e care salme
    torre gli vidi, e scuotergli di mano
    mille vittorïose e chiare palme.
    Non fu ’l cader di subito sì strano
    dopo tante vittorie ad Aniballe
    vinto a la fin dal giovine Romano;
    non giacque sì smarrito ne la valle
    di Terebinto quel gran Filisteo
    a cui tutto Israel dava le spalle,
    al primo sasso del garzon ebreo;
    né Ciro in Scizia, ove la vedova orba
    la gran vendetta e memorabil feo.
    Com’uom ch’è sano e ’n un momento ammorba,
    che sbigottisce e duolsi, o colto in atto
    che vergogna con man dagli occhi forba,
    cotale era egli, e tanto a peggior patto,
    che paura e dolor, vergogna et ira
    eran nel volto suo tutte ad un tratto.
    Non freme così ’l mar quando s’adira,
    non Inarime allor che Tifeo piagne,
    non Mongibel s’Encelado sospira.
    Passo qui cose glorïose e magne
    ch’io vidi e dir non oso: a la mia donna
    vengo et a l’altre sue minor compagne.
    Ell’avea in dosso, il dì, candida gonna,
    lo scudo in man che mal vide Medusa.
    D’un bel dïaspro er’ ivi una colonna,
    a la qual d’una in mezzo Lete infusa
    catena di diamante e di topazio,
    che s’usò fra le donne, oggi non s’usa,
    legarlo vidi, e farne quello strazio
    che bastò ben a mille altre vendette;
    ed io per me ne fui contento e sazio.
    I’ non poria le sacre e benedette
    vergini ch’ivi fur chiudere in rima,
    non Calliope e Clio con l’altre sette;
    ma d’alquante dirò che ’n su la cima
    son di vera onestate; infra le quali
    Lucrezia da man destra era la prima,
    l’altra Penelopè: queste gli strali
    avean spezzato e la faretra a lato
    a quel protervo, e spennachiato l’ali.
    Verginia appresso e ’l fero padre armato
    di disdegno e di ferro e di pietate,
    ch’a sua figlia et a Roma cangiò stato,
    l’una e l’altra ponendo in libertate;
    poi le Tedesche che con aspra morte
    servaron lor barbarica onestate;
    Judith ebrea, la saggia, casta e forte,
    e quella Greca che saltò nel mare
    per morir netta e fuggir dura sorte.
    Con queste e con certe altre anime chiare
    triunfar vidi di colui che pria
    veduto avea del mondo triunfare.
    Fra l’altre la vestal vergine pia
    che baldanzosamente corse al Tibro,
    e per purgarsi d’ogni fama ria
    portò del fiume al tempio acqua col cribro;
    poi vidi Ersilia con le sue Sabine,
    schiera che del suo nome empie ogni libro;
    poi vidi, fra le donne pellegrine,
    quella che per lo suo diletto e fido
    sposo, non per Enea, volse ire al fine
    (taccia ’l vulgo ignorante); io dico Dido,
    cui studio d’onestate a morte spinse,
    non vano amor com’è ’l publico grido.
    Al fin vidi una che si chiuse e strinse
    sovra Arno per servarsi; e non le valse,
    ché forza altrui il suo bel penser vinse.
    Era ’l trionfo dove l’onde salse
    percoton Baia, ch’al tepido verno
    giuns’e a man destra in terra ferma salse.
    Indi, fra monte Barbaro et Averno,
    l’antichissimo albergo di Sibilla
    lassando, se n’andar dritto a Literno.
    In così angusta e solitaria villa
    era il grand’uom che d’Affrica s’appella,
    perché prima col ferro al vivo aprilla.
    Qui de l’ostile onor l’alta novella,
    non scemato cogli occhi, a tutti piacque,
    e la più casta v’era la più bella.
    Né ’l trionfo non suo seguire spiacque
    a lui che, se credenza non è vana,
    sol per trionfi e per imperi nacque.
    Così giugnemmo alla città sovrana,
    nel tempio pria che dedicò Sulpizia
    per spegner ne la mente fiamma insana.
    Passammo al tempio poi di Pudicizia,
    ch’accende in cor gentil oneste voglie,
    non di gente plebeia ma di patrizia.
    Ivi spiegò le glorïose spoglie
    la bella vincitrice, ivi depose
    le sue vittorïose e sacre foglie;
    e ’l giovene Toscan che non ascose
    le belle piaghe che ’l fer non sospetto,
    del comune nemico in guardia pose
    con parecchi altri (e fummi ’l nome detto
    d’alcun di lor, come mia scorta seppe)
    ch’avean fatto ad Amor chiaro disdetto:
    fra gli altri vidi Ippolito e Joseppe.




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