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    Giacomo Leopardi

    Appressamento della morte - Canto III

    I’ lagrimava già per la pietate
    Di quella miser’alma che perduta
    Avea suo fallo e altrui crudelitate,

    E ’l ciglio basso e la bocca era muta,
    Quando ’l Celeste, Guata là quel duce,
    Disse, ch’ha man grifagna ed unghia acuta.

    È l’Avarizia, e dietro si conduce
    Gregge che ’n vita fu de l’oro amico
    Non perchè val tra voi ma perchè luce.

    Del nome di que’ duri io non ti dico,
    Che non sudar perchè ’l sapesse ’l mondo
    Quando lor tempo avria chiamato antico.

    Ve’ ch’ han sul collo di gran soma pondo,
    E van carpone e ’l capo in giù pendente,
    Sì che lor faccia è presso d’ogn’immondo,

    Però che prona al suolo ebber la mente,
    E di gloria e del ciel non ebber cura,
    Vivendo in terra come morta gente.

    Or vedi quanto è trista e quanto è dura
    Vostra vita mortal, che ’l fango e ’l fimo
    Più che la gloria e ’l ciel per voi si cura.

    Ben sete fatti di terrestre limo,
    Che tanta gente cerca morta terra,
    Per lo suo fine e per l’autor suo primo.

    E pur bell’alma vostro corpo serra
    Perchè ricerchi e trovi ’l sommo Amore,
    Che pace è vostro fin, non questa guerra.

    Qui tacque, e venne pallido ’l chiarore,
    Ch’iva aliando fosca tenebria
    Come nottola oscena, in quell’orrore.

    Venia Gigante altissimo, e ’l seguia
    Lunghissim’ombra piena di spavento,
    Cieco così che brancolando gia.

    Correa da prima ratto come vento,
    Poi tenne ’l passo per lo buio calle,
    Sì ch’iva al fine come neve lento.

    Gli era infinito esercito a le spalle,
    E di voci facea tanto certame
    Che tutta piena d’eco era la valle.

    Ivan latrando quelle genti grame,
    E su lor crespa fronte e su la cava
    Lor mascella parea seder la fame.

    Al lume i’ gli scorgea che s’avventava
    Da le Angeliche forme ai visi smorti,
    E men chiaro e più fioco ritornava.

    Questi tenner sentieri oscuri e torti
    In cercar verità, lo Spirto disse,
    D’errar volenterosi, o malaccorti.

    Vedi colui che così presto visse,
    Zoroastro inventor di scienza vana,
    E quel che ’nsegnò tanto e nulla scrisse:

    I’ dico ’l Samio mastro che l’umana
    Mente fe’ vil così che la ridusse
    A starsi con le fere in bosco e ’n tana:

    E quel da Citte che tanta produsse
    Gente al dolor sì come al piacer dura,
    E l’Abderita che la mente strusse,

    E la Cinica turba che sicura
    Da error non fu sotto ’l cencioso panno,
    E ’l lercio duce de la mandra impura.

    Ve’ come soli e pensierosi vanno
    Socrate e Plato e ’l magno di Stagira,
    Sdegnando ’l gregge e lo comun tiranno.

    Guata là que’ nefandi pieni d’ira
    Contra l’Eterno, sopra la cui testa
    Solcato da baleni un turbo gira.

    E sentigli ulular come foresta
    Allor che ’nfuria ’l vento, e che rimbomba
    Per l’aer fosco voce di tempesta.

    Oh quanta gente è qui che ne la tomba
    Non è fatta anco polve, oh quanta gente
    Al disperato lago or tra lei piomba!

    Come brulica giù l’onda bollente
    Per color cui fe’ vano il grande acquisto
    Spietato inganno di corrotta mente!

    Oh menti sciagurate, oh mondo tristo
    Cui lo pensier del vero tanto spiace
    Che par vergogna il ragionar di Cristo!

    Già contra ’l ciel latrava, ed or si tace
    Tua gente in guisa d’uom che non si cura,
    Come a Dio conceduta abbia la pace.

    Vedi, soggiunse, o figlio, com’è scura
    Vostra terrena via piena di doglia,
    E com’è fral quaggiù vostra natura.

    Che tanta gente di seguir s’invoglia
    Quel Gigante colà ch’è ’l tristo Errore,
    E tanta ignara il fa contra sua voglia.

    Quanti cercar saggezza e saldo onore
    Che trovar fama tetra e falsitate,
    E lor fu vano il trapassar de l’ore!

    Oh savissime sole oh avventurate
    L’alme che ricercar del sommo Bene!
    Fumo già non trovar né vanitate.

    Dier soda meta a lor non dubbia spene,
    Bramando uscir di questa terra bassa
    U’ torpe Error che così presto viene.

    Però ’l Gigante che tant’ombra lassa
    Sopra ’l dolente esercito seguace,
    Venne sì ratto e così lento passa.

    Già la piaggia parea tornare in pace
    Pel lontanar di quella turba folta
    Sopra cui ’l lume eternamente tace.

    Da lungi la s’udia come talvolta
    Di nembo cui sul mar lo vento caccia,
    L’urlar tra l’onde e ’l mormorar s’ascolta;

    O notturna del mar cupa minaccia
    Perchè’ l villan che presso il turbo crede
    Si desta e sorge ed al balcon s’affaccia.

    Allor ch’a un tratto sì come si vede
    Campo di secche canne incontr’al sole,
    Quand’e’ co’ rossi raggi a sera il fiede;

    O come andar tra noi di faci suole
    Notturno stuol, di Cristo appo ’l feretro,
    Il dì che di sua morte il ciel si dole:

    Cotal si vide in mezzo a l’aer tetro
    Un lampeggiar di scudi e lance e spade
    Che tremolava intorno a fero spetro.

    Sua scossa asta parea grandin che cade
    Con alto rombo giù da nugol nero
    Su i tetti rimbalzando e per le strade.

    Tentennava sua testa atro cimiero,
    E pendea ’l brando nudo in rossa lista,
    Digocciolando sangue in sul sentiero.

    Iva ’l membruto mostro e facea trista
    Tutta sua via, che dietro si lasciava
    Foco ch’ardea tra l’erbe in fera vista.

    Ve’, l’Angel disse, la crudel che lava
    Col sangue i campi, e col brando rovente
    Fa tante piaghe e tante fosse scava.

    Altro costume de l’umana gente:
    Cacciar lo ferro gelido e la mano
    Del prossimo nel corpo e del parente:

    Correre e disertar lo monte e ’l piano,
    E ’n un giorno e ’n un punto l’opra e ’l frutto
    Di sudor molto e molta età far vano:

    Strugger mura, arder tempi e farsi brutto
    Di cenere e vestirsi di terrore,
    E ’ngoiar le cittadi come flutto:

    Guastar campagne e al pavido cultore
    Messa la man tra le sudate chiome,
    Di sua casuccia strascinarlo fore:

    Brillar tra morti e ’nsanguinati come
    Lion che ’n belva marcida si sfama;
    Rider tra genti lagrimose e dome.

    Dunque far solo il mondo è vostra brama,
    E ’l viver vostro è per l’altrui morire,
    E sì tra voi si viene in seggio e ’n fama?

    Ve’ di quegli aspri le sembianze dire
    Lo cui passaggio al mondo fu guadagno,
    E ’l natale e la vita fu martire.

    Mira colui che nome ebbe di Magno,
    E fe’ di sangue Egizia frode rossa;
    E ’l Pelide che piange suo compagno,

    E Guerra maladice e la sua possa,
    E presso ha ’l re de’ re che ’l Teucro lido
    Copre di spoglie sanguinose e d’ossa,

    E vincitor perì di ferro infido,
    E per Guerra perdè la luce e ’l regno;
    E quel che ’nvan divenne a tanto grido:

    Il Macedone i’ dico, ch’ha disdegno
    Però ch’ir vana da la morta valle
    Di sua man l’opra vide e di suo ’ngegno:

    E Ciro e Brenno e Pirro ed Anniballe
    Che grandi un tempo e fur meschini allora
    Che fortuna lor dato ebbe le spalle;

    E come Sol per nembo si scolora,
    Vider lor fama intenebrarsi, e poi
    Venir pallida e muta l’ultim’ora.

    Così passa fortuna degli Eroi,
    E la gran mole in un sol dì fracassa
    Che tanto pianto fe’ versar tra voi:

    Com’onda a gli astri sorta che s’abbassa
    E cade in un baleno e al pian s’agguaglia,
    E di suo levamento orma non lassa.

    Tacque, e cadeva ’l suon de la battaglia
    Che giva di colei per lo sentiero
    Che tutto ’l mondo misero travaglia.

    E mostro altro pareva onde più fero
    Non vede orma stampar su neve o sabbia
    Lo Scita algente o ’l divampato Nero.

    Aveva umane forme e umana labbia,
    E passeggiar parean la guancia scura
    L’invidia fredda e la rovente rabbia,

    E a suo passaggio abbrividir natura,
    Seccarsi l’erbe, e tremolar le piante
    Scrollando i rami come per paura.

    Nel buio viso l’occhio fiammeggiante,
    A carbon tra la cenere, che splenda
    Solingo in cieca stanza, era sembiante.

    Al crin gli s’attorcea gemmata benda,
    E scendea regio manto da le spalle
    Com’acqua bruna che di rupe scenda.

    Sprizzato era di sangue, e per lo calle
    Di sangue un lago fea la sozza vesta,
    Che in dubbia e torta striscia iva a la valle.

    Seguialo incerto rombo di tempesta,
    Ed egl’iva sospeso, e ogni momento
    Il serto si cercava ne la testa.

    Parea pien di sospetto e di spavento,
    Guardavasi d’intorno, e tenea ’l passo
    Al suon de’ rami e al transito del vento.

    Ecco ’l gran vermo d’uman sangue grasso,
    Lo qual però che ’l mondo ha ’n sua balia,
    Ben si conviene andar col ciglio basso.

    Ecco ’l figliol di vostra codardia,
    Cominciò quegli, ecco la belva lorda,
    Ecco la perfid’, ecco Tirannia.

    Quella che sempre vora e sempre è ’ngorda
    Quella ch’è cieca come marmo al pianto,
    Quella ch’è al prego come bronzo sorda.

    O mondo gramo e se’ codardo tanto
    Ch’uom su tuo’ seggi può seder sicuro
    Di sangue intriso la corona e ’l manto?

    E quando etade ha suo passar maturo,
    Passa ’l tiran già sazio, e allor pur anco
    Trovar chi ’l biasmi e chi l’accusi è duro?

    E di soffrir quest’orsa non se’ stanco
    Che ti ficca e rificca l’unghia e ’l dente
    Nel rosso petto e ’n lo squarciato fianco?

    Oh sciagurato mondo, oh età dolente,
    Oh progenie d’Abisso atri tiranni,
    Oh infamia eterna de l’umana gente!

    Quest’è la bestia che da’ tuoi verd’anni
    T’arse di rabbia, e del cui lercio sangue
    Tinta bramasti aver la mano e i panni.

    Quest’è l’orribil idra, quest’è l’angue
    Che gonfia sopra ’l mondo alza la cresta,
    Perchè virtude è morta e ’l saper langue.

    Vedi come la piaggia si fa mesta
    Al passar de la fera, e ve’ ’l pugnale
    Ch’ha per iscettro, e ’l sangue che calpesta.

    Vedi ’l nefando stuol che fu mortale
    A lo sgraziato mondo, e da cui ’l mondo
    Non ebbe che ’l campasse brando o strale.

    Vedi Tiberio là, vedi l’immondo
    Gregge di que’ che ne l’età più nera
    Italia tua gravar di tanto pondo.

    Ve’ ’l furbo più vicin che spinse a sera
    La libertà Romana, e n’ebbe fama,
    E ancor d’amici al mondo ha tanta schiera.

    Ve’ Periandro lo tristo che brama
    Tenne d’aver tra’ greci saggi onore,
    E sua Corinto misera fe’ grama.

    Pur ve’ che di vergogna e di furore
    Arse talor la gente, ed avventosse
    Col ferro nudo del tiranno al core.

    Allora Armodio vidi ch’avea rosse
    Le man de l’empio sangue, e per man rea
    Cadde, e per fama a un punto rilevosse.

    E ’l gran Corintio vidi che piangea
    Sul prosteso fratel che venia manco
    Pel colpo onde suo brando lo spegnea.

    E Bruto del tiranno aprir lo fianco,
    E del Romano Imperador primiero
    Squarciato ’l petto vidi e ’l volto bianco.

    I’ tenea ’l guardo fiso ed il pensiero
    A quella truce vista, allor che sparse
    Ogni chiarore, e ’l ciel si fe’ più nero.

    E ’n un momento ’l vidi spalancarse:
    Uscinne un tuono, e un fulmine strisciosse
    Per l’etra, e su la fera cadde e l’arse,

    E misto di faville un fumo alzosse.




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