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    Giacomo Zanella

    Milton e Galileo

    Quando la notte è nelle valli, e pende
    Scolorata la luna, alle montagne
    Mezzo velate, che gli fan corona,
    L’insonne mandrïan leva lo sguardo,
    Come a concilio di giganti, e giura,
    Se dell’aure il romor taccia ne’ boschi
    E nel burron non strepiti il torrente,
    Sotto le nubi dall’opposte cime
    Udirle conversar. Da questa Italia
    Di tempestosi nuvoli involuta,
    Di fieri dubbi ottenebrata e d’ odî,
    A te levo il pensier, Milton divino,
    Ed a te, Galileo, quando seduti
    Sui toschi poggi a libero sermone
    L’eccelse anime apriste. E non v’ intese
    Altri che l’ ombre della queta sera,
    Le mute siepi e le sorgenti stelle
    Che parean su’ romiti orti d’Arcetri
    Piovere ossequïose il primo raggio.
    Or voi spirate entro il mio petto, e gli ardui
    Ragionamenti mi ridite, o Sommi,
    Onde l’umane e le divine cose
    Tutte abbracciaste. Alla mia patria afflitta,
    Irata all’oggi e del domani incerta,
    Suoni di miglior fato augure il verso;
    E gli spirti, che torba onda travolve
    Di nemiche correnti, al ver richiami.


    I.

    Scendea nell’acque del Tirreno il sole,
    Nè quegli occhi il vedean che di spiarlo
    Primi fur osi. Il carezzevol fiato
    Occidentale a respirar, sul colle
    Sedea d’Arcetri l’Esule divino,
    E le spente pupille al moribondo
    Lume girava, un dì suo studio e vanto.
    Presso gli stava di virginee bende,
    Come a Suora s’addice, il crin velata,
    Guardïana fedel, Maria, la dolce
    Primogenita sua. Tra ramo e ramo
    Gli ultimi raggi dardeggiava il sole,
    Imporporando del vegliardo il capo
    Meditante. Ei tenea sovra una sfera
    La manca mano, e con la destra in aria
    Scrivea taciti cerchi. A quali stelle
    Eri volato allor? Quale seguivi
    Rivolgimento di lontan pianeta,
    Quando improvviso e per nascosti calli
    Alla solinga collinetta asceso
    Stette l’anglico Bardo al tuo cospetto?

    Maria si mosse e di legger rossore
    Le guance aspersa, “Giovane, dicea,
    Chi t’ha scorto quassù? Che cerchi incauto?
    Conosci il loco?” E tacita guatava.
    Non d’italo garzon era il sembiante,
    Quali abbruniti dalla lunga estate
    Del Po i figli veggiam, d’Arno e di Tebro;
    Non timido l’incesso, e sospettoso
    Dello sguardo il piegar, qual d’uom già domo
    All’ignominia del servir. Nel cenno
    Della fronte superbo e nella franca
    Sicurtà dell’andar riconosciuto
    Immantinente d’Albïone avresti
    Libero alunno. Le distese chiome
    Fluttuavano in onda di giacinti
    Sull’omero viril: candido il volto
    Nobilmente severo, e come il cielo
    Azzurreggiante la pupilla e mista
    Di profondi splendori. “Al pellegrino,
    Prorompea lo straniero, Iddio le porte
    Del suo tempio non serra: abita Iddio
    In queste mura. Che baciar la falda
    Del sacro manto al suo Veggente io possa,
    E la parola udir che rivelata
    Ha la gloria de’ cieli.” In piè rizzossi,
    Come atterrito, Galileo; la mano
    Incontro al suon distese e, “Se non vieni
    Della vista a gioir di mie sventure;
    Se non vieni, dicea, d’atroce riso
    L’onta a versar sul mio capo cadente,
    Già percosso dal folgore, chi sei
    Che volger osi lusinghier saluto
    Al mortal che gli oracoli di Roma
    Hanno diviso da’ viventi? Il guardo
    Esplorator de’ tuoi passi paventa,
    L’erma sede paventa e la mia notte
    Ch’è sì splendida altrui. Lunga è la mano
    Che m’ha prostrato: valica le nubi;
    E fin tra gli astri il peccatore abbranca.”

    “Di Roma il minaccioso occhio paventi,
    L’altro riprese, l’infelice volgo
    Che superstizïon schiavo trascina
    Per questa lieta di montagne e d’acque
    Vasta prigione italica, non io.
    Me di liberi spirti austera madre
    Inghilterra nudrì: Milton mi chiama
    La patria mia. Furor d’illustre alloro
    Dall’età prima mi divora. In sogno
    A me spesso venîan l’ombre de’ vati
    E mi dicean: del glorïoso monte,
    Figlio, dispera guadagnar le cime,
    Se la terra gentil, che di Marone
    E di Torquato il divo ingegno accese,
    Pria non saluti. L’Oceàn varcai,
    Vidi Liguria e dell’Olona il piano:
    Vidi Eridano e Tebro: i colli ascesi
    Di Partenope: piansi in sulle tombe
    Della gloria caduta e non risorta,
    Se tu non fossi, o Galileo, che torni
    L’inconscia Italia a’ suoi regali onori,
    E coll’omero atlantico la porta
    Del profondo universo apri a’ mortali.”

    Lagrimando al garzon stese la mano
    L’inclito vecchio. Su marmoreo seggio,
    Cui fean spalliera gelsomini e lauri,
    Taciturni si assisero. Di flutti
    Tal riverso non fia; non tal di spume
    Tempestoso bollor, quando i due mari,
    Che la sabbia d’Egitto ancor divide,
    L’onde discordi mesceranno insieme,
    E sul desco de’ popoli il tributo
    Porran d’avversi climi Orto ed Occaso;
    Come i due Grandi de’ sublimi sensi
    E de’ pensier la rattenuta piena
    Insieme allor confusero. Si trasse
    In disparte Maria: dissimulando
    E d’aiuola in aiuola il piè movendo,
    Come di fiori a far ghirlande intesa,
    Inavvertita dileguò. “T’accosta,
    L’Italo disse, a me più presso, e nudo
    Aprimi il ver. Son io creduto ancora?
    Fra i magnanimi pochi a cui rifulse
    De’ novi dommi il raggio, i miei volumi
    Ancor son vivi? Ovver dal dì che affranto
    Dall’etade e da’ morbi, io derelitto
    Vecchio tremante, delle corti ignaro,
    Avvolto di nemici e combattuto
    Da mortali terrori, alle minacce
    Del Vatican m’arresi e la parola
    Rinnegatrice di mie glorie emisi,
    Tutto forse perii? Perì la luce
    Ch’io primo accesi? Nell’antica notte
    Ricadranno le genti, a cui sì bella
    Di secolo miglior l’alba sorgea?”

    Levò la fronte l’ospite e rispose:
    “Ben può Giove del Caucaso alle rupi
    Prometeo catenar: ben può le membra
    Al gran Titano fiedere co’ nembi
    Eternali; ma pie da’ conturbati
    Talami le fanciulle Oceanine
    Vengon notturne ad ascoltar sue pene,
    Che sull’aurora ridiranno a’ fiumi
    Che solcano la terra. Oscuro giaci,
    Carcerato il pensier più che la salma
    E da te discordante, o Galileo;
    Ma la favilla, che rubasti al sole,
    Prigioniera non è: di gente in gente
    Ratto serpeggia ed in aperta fiamma
    Già minaccia avvampar, benchè dell’ara,
    Donde movea, sian raffreddati i marmi.
    Ne’ deserti del mar, quando le spume
    Fragorose sormontano, le antenne
    Caggiono avvolte e pe’ sdrusciti fianchi
    L’onda nemica nella stiva irrompe;
    Al chiaror de’ baleni il navigante
    Ultimi detti a picciol foglio affida
    Che in una fiala all’impeto abbandona
    Delle cieche correnti. Il mare inghiotte
    Colla nave il nocchier; ma viatrice
    Instancabile nuota alla tempesta
    Non men ch’alla bonaccia, e non riposa
    Nè per notte giammai nè per meriggio
    Quella pia cristallina urna, che un giorno
    Al pescator che la levò dall’alghe,
    Narrerà novi climi, isole nove
    E fiammante di nove Iadi la notte.
    Inavvedutamente a scura rupe
    Tu pur rompesti, o Galileo: sorrise
    De’ tuoi naufragi il Vaticano, e chiuso
    Nel silenzio sperò di questi colli
    L’odiato vero. Ma la tua parola
    Indefessa vïaggia, e non del Reno
    Alle rive soltanto e del Tamigi,
    Ove già franco de’ vetusti ceppi
    Liberissime vie batte il pensiero;
    Ma del nemico Tevere sull’onde
    Venerata risuona; e qualche pio,
    Cui la porpora ancor dell’intelletto
    Il lume non offese, a’ novi veri
    Segreto applaude, e sulle tue sventure,
    Che immortale di Roma onta saranno,
    Versa, arrossendo, generoso pianto.”

    “Roma! Roma!” interruppe e, scosso il capo,
    Seguì pensoso Galileo; “fatale
    O col brando de’ Cesari percota
    I troni tuttiquanti; o colla Fede
    Tragga al suo carro incatenato il mondo,
    Fatale è la sua possa, e tenta indarno
    A lei sottrarsi umano spirto. In cielo
    V’ha di stelle una via, che via di Roma
    Disser le genti. Da’ selvosi laghi
    Lo Scandinavo pescator la vede,
    E la vede da’ monti ond’esce il Nilo,
    L’Abissino pastor. Della capanna
    Il finestrel chiudendo e per più soli
    All’avverse stagioni abbandonando
    L’avito poderetto, a Roma ascende,
    Come all’ostello d’un’antica madre
    Che lasciò da fanciullo, il pellegrino.
    Sente passando di calcar la polve
    Di domestici eroi: dalle ruine
    De’ morti imperi uscir ode una voce
    Conosciuta che a’ secoli maestra
    Fu del viver civile; e nel sepolcro,
    Che le spoglie Apostoliche rinserra,
    Trova i ricordi dell’infanzia, i canti
    E la mensa comune, a cui redenta
    Ne’ primi giorni umanità si assise,
    Come a nozze col ciel. Nemici altrove
    E parati a svenarsi, in grembo a Roma
    Tornan fratelli i piccioli mortali.
    Pugnai gran tempo. Le vigilie e gli anni
    Soli non fur che di profonde rughe
    Questa fronte solcassero. Le lotte
    Sanguinose del cor che un vero apprende
    Terribile a ridir: l’ansia d’un nome
    Maledetto o deriso, innanzi tempo
    Fer sul mio capo biancheggiar le nevi.
    Il prisco giogo infrangere, la fronte
    Alle folgori oppor del Vaticano
    E la tenzone rinnovar di Bruno,
    Spesso un pensier mi suadea. Da’ flutti
    Di più torbido mar securo asilo
    Mi dischiudea fra le sue dighe Olanda;
    E quell’invitto, ad Austria e Roma orrendo,
    De’ Sveci inclito sir, che giovanetto
    L’arti campali alla mia scola apprese,
    La sua reggia m’apría. Quanto ti scaldi
    Della caliginosa Isola tua
    E de’ tuoi mari amor, garzone, ignoro;
    Ma noi figli d’Italia arde una fiamma
    Che intolleranda sede ogni contrada
    Ne fa parer che l’Apennin non parta.
    O miei cercati cieli! Are di Pisa,
    A cui pregando un dì tanto baleno
    Mi percosse di ver! Tomba materna!
    E tu, di gigli e di colombe albergo,
    Solitudine pia, che tanta parte
    Di questo cor ne’ tuoi recinti ascondi,
    Aura usciva da voi, che ventilando
    Il santo foco, ch’io credeva estinto,
    Alla gelata mia ragion di pugno
    L’arme scotea. Non ridere, straniero!
    Quando l’incendio la magion divora,
    Anche il bronzo si fonde, e vacillando
    Il simulacro dell’eroe dilegua
    In rivoli pel suol. L’età venture
    A me d’invitto non daran la palma;
    Ma de’ miei padri mi sarà giocondo
    Addormentarmi nella Fè: ne andranno
    Le mie figlie felici; e di riposo
    A questa faticata anima Iddio
    Largo sarà, di cui l’augusto accento
    A riverir nel Roman Padre appresi.”

    “Nel Roman Padre? E chi di Dio l’accento,
    Il Britanno sclamò, dal labbro attende
    Dello scettrato Antistite? Due lune
    Volte non sono ch’io lasciai le mura
    Della città che all’anima presume
    Le sue catene impor. Quale ti vidi,
    O già dai laghi di Giudea venuta,
    Pescatrice de’ cor, Chiesa di Dio,
    Fondata in povertà! Vidi delubri
    Sulle cui cime il sol che s’era ascoso
    In occidente, ancor splendeva: in giro
    Sovra rupi di porfido curvarsi
    Vidi le volte olimpiche; e di bronzo
    Ondanti padiglioni e simulacri
    Meravigliosi di grandezza e d’arte
    Cinger la tomba di colui, che visse
    D’una rete contento. Ah, non di Cristo
    L’umile banditor, ma d’Orïente
    Gioiellata barbarica possanza
    Contemplar mi parea, quando soffolto
    Da mitrate falangi e circonfuso
    D’una notte d’incensi, in aureo trono,
    Cui fean le piume del pavon ventaglio,
    Sulla testa de’ popoli passava,
    Come corrusca nuvola che sfiora
    Rispianato oceàno. O delle chiavi,
    Che disserrano i cieli, arbitro santo!
    O tolto all’amo ed all’officio assunto
    Di sovrano pastor, perchè la terra
    D’agi e di pompe noncuranza apprenda,
    E povertade, in te guardando, onori;
    Così l’obbligo adempi? Oh, valicati
    Mai non avesse Carlo Magno i monti;
    Nè di Gesù l’intemerata sposa
    Scesa fosse a tenzon d’ostro terreno!
    Piansero i cieli, e gemiti mandaro
    L’urne de’ Santi il dì che, il pastorale
    Giunto alla spada, in Vatican si assise
    Supremo regnator l’uom che de’ servi
    Servo si chiama. Allor dal tempio in bando
    Le virtù se n’andâr che fean la stola
    Venerabile al mondo. Allor d’imperi
    E di porpore e d’oro una superba
    Febbre i cori riarse: empio mercato
    Di mendaci dispense e di perdoni
    Entro il tempio s’aprì: la terra accorse
    Credula, e l’oro al poverel negato
    Cesse all’altar, perchè più sontuosi
    Ondeggiassero i manti al sacerdote,
    E di fuggenti colonnati e d’aule,
    Come il deserto, paurose, avvolti
    Fossero al molle Archimandrita i sonni.
    Te grande, augusto ed all’afflitta Italia
    D’aurei tempi dator chiaman, Leone,
    I leggeri nepoti. Stupefatto
    Lo stranier leva gli occhi all’ardue moli
    Che co’ tributi dell’illuso mondo
    II tuo genio ponea; nè da que’ marmi
    Vede il sangue gocciar, che Reno ed Elba
    Fe per lunga stagion correr vermigli.
    Dalla tua man condotte al nido antico
    L’Arti tornâr; ma dall’antico Olimpo
    Tornò con esse Voluttà. La greca
    Testa di mirti redivivi ombrata
    Mostrâr Venere e Bacco; e la cocolla
    Indossando per gioco, al romorío
    Si mescolâr de’ tuoi prandi notturni,
    O folleggiando carolâr per l’ombre
    De’ tuoi boschetti suburbani. O vigna
    Di Sion desolata! O del Signore
    Contaminata greggia! Un’altra volta
    Umanità corruppe le sue vie,
    E ne’ diletti della carne assorto
    Di Dio si rise e del suo ciel lo spirto.
    Tal Roma io vidi. E tu, Divino, a questo
    Di bugiardi splendori idol caduco
    La fronte inchini trepidando? Tu
    Sovra la curva de’ rotanti soli
    Uso a colloqui coll’Eterno, udirne
    Credi la voce d’un Urban sul labbro?”

    Gli ardenti detti placido ascoltava
    Nè di negar nè d’assentir fea segno
    L’alto Toscano. Poi dicea: “Se brama
    Del poetico allor, figlio, ti punge,
    Ben le tue chiome un dì n’andranno altere;
    Così fervida hai l’alma, e così piena
    Rompe facondia dal tuo sen. Tonava
    Non altrimenti, e contro Roma il fulmine
    Vibrava dell’indomita parola
    Lutero. Intorno a lui d’audaci prenci
    E di popoli armati era un tumulto
    Procelloso. Cantavano di Roma
    Dissipato l’altar: del Quirinale
    Sulle macerie la ripresa rete
    Nudo asciugava il Pescatore antico.
    Che fu, garzon, che fu? Di tanti moti
    Qual fin si vide? Dal profondo emerse
    Roma immortale, che il discisso velo
    Ricompone longanime, e la preda
    Con lenta pugna al predator ritoglie.
    De’ Pontefici il fasto, o figlio, assali,
    E l’immago di Dio scerner ricusi
    Nel coronato Aronne. Il guardo hai breve,
    Se dall’ombra scevrar non sai la luce
    E come il vulgo del parer ti pasci.
    Visibil sir di non visibil regno,
    Di Dio la possa e d’uom le colpe ei veste;
    Tu nell’uman t’affisi. Ostro e corona
    Venner co’ tempi e dileguar potranno
    Anco co’ tempi: per cangiar di foglie
    Virtù la trïonfale arbor non perde,
    Perchè profonde ha le radici in Dio.
    Nè di soverchie pompe io ti diniego
    Ingombrato talora il nostro rito;
    Ma se del tempio le dorate volte,
    Le simboliche lampe e la diffusa
    Pegli anditi sacrati onda del canto,
    Vano tu credi popolar trastullo,
    Figlio, dell’uomo tu nel cor non leggi,
    E poeta non sei. L’Onnipotente
    Ben io nel volto delle stelle adoro:
    Pur quando all’alba l’umile chiesuola,
    Che vedi là, m’accoglie, e l’inno ascolto
    Delle devote vergini, lo Sposo
    Propizïanti a’ nostri error, più cara
    Nè men solenne dentro mi risuona
    La voce dell’Eterno. Il cor s’indura
    Di scabro ver nella ricerca: usato
    Colla materia a trattenersi, il lezzo
    Tosto ne bee, lezzo di fauno e tigre,
    Se l’onorande lagrime felici,
    Appiè dell’ara prorompenti, il gelo
    Non accorrano a sciorne e la fragranza
    Evaporata a rinnovarne. Immondo
    Di loto e sangue i lidi della vita
    L’infante afferra; ma la Fè nel grembo
    Virginal lo raccoglie, e de’ suoi riti
    Per la cerchia magnifica, dall’onda
    Rigenerante a’ balsami lo guida
    Che al moribondo atleta ungon la fronte.
    Così per questo di chiarori e d’ombre
    Barlume antelucan passa il credente,
    Sul fango il piè, ma coll’aurora a fronte,
    Che di misterïose aure la chioma
    Sudata gli carezza. E chi si vanta
    Gl’intelletti snebbiar? Chi dritta ostenta
    Carità pegli umani, a cui gli eccelsi
    Simboli invola che un celeste Padre
    Svelano al cor, l’origine celeste,
    Celeste il fine? A fratellanza educa
    L’altare, o figlio; ed il tapin che vede
    A sè dallato genuflesso il grande
    Che nell’aurea quadriga ha maledetto,
    Sente che al nappo d’un comun dolore
    Tutti beviam; che tutti bisognosi
    D’un’alta aita trascorriam quest’ora
    D’assegnato cimento. Appien gli arcani
    Dell’uom Roma comprende: a tutti madre,
    Tutte l’umane dissonanze accorda,
    Le altezze appiana; e di più saldo schermo,
    Che ferree leggi e carceri non fanno,
    Il comun dritto carità circonda.”

    Di lieta meraviglia or si pingea,
    Come chi ascolti non atteso vero;
    Ora a sogghigno incredulo le labbra
    Atteggiava il poeta e soggiungea:
    “Parlante al core, alla ragion conforme,
    Degna di Dio, benefica a’ mortali,
    È la Fè che dipingi. Ma di Roma
    Questa è la Fè? Le vie son queste e l’arti,
    Onde all’omaggio de’ suoi dommi alletta
    I popoli volenti? Affettüosa,
    Provvida madre in ver, ch’ove sue poppe
    Altri non sugga, le bipenni affila,
    E alla catasta, in cui de’ figli ambuste
    Crepitan l’ossa, allegra benedice.
    Lei mansüeta e di fraterne cladi
    Immacolata attestano Tolosa
    E le valli del Rodano cruente
    Di gusmanico eccidio. Agape santa
    Era la notte che le bianche chiome
    Trascinar vide Colignì nel fango;
    E di misere fughe e d’ululati
    Fur piene le tue vie, Francia tradita.
    Madre costei? Chè non la chiami astuta
    De’ comuni tesori usurpatrice,
    Che lo Spirto di Dio, retaggio e lume
    D’ogni vivente, fa suo proprio; e chiusi
    Gli evangelici paschi e le fontane
    Disuggellate dall’Agnello, impugna
    L’armi terrene a rincacciarne i volghi
    Assetati di Fè? Tempio vivente
    Dell’Eterno noi siam: verace parla
    Di Dio la voce in noi. Qual altro accento
    Infallibil può dirsi, a cui s’opponga
    L’oracolo del cor? Dal lungo intanto
    Ossequio delle menti insuperbita
    Roma nel regno delle pie credenze
    Più non contien l’orgoglio, e vïolenta
    I cheti imperi alla ragione invade.
    Arbitra non veggente il vol prescrive
    All’umano pensier: spegne la lampa
    Vestigatrice in man del sapïente,
    E nel nome di Dio rabbuia il mondo.
    Tu lo sai, Galileo! Ma delle posse
    Tenebrose di Roma e de’ tormenti
    Nel tempio orditi al libero pensiero,
    Già passata è stagion. Dall’officine,
    Che pria vide Magonza, emulo al giorno
    Esce un fulgor che d’ignoranza i mostri
    Dalla terra disperde. Agl’intelletti
    Sgomentata tirannide prepara
    L’ultime pugne. O d’Anglia e di Lamagna
    Nobili figli, a cui men dura è morte
    Che mental servitù; se vi par lenta
    La vittoria del ver; se questa inferma
    E decrepita Europa con orrendo
    Spettacolo di guai l’alma v’attrista,
    Volate all’Oceàno. Immensa terra
    Ch’oltre il confin d’Atlante a’ dolorosi
    Di tutto il mondo il Genovese aperse,
    Di sue vergini selve e de’ suoi fiumi
    L’alte latèbre vi dischiude. O d’oro
    Troppo feconda America, che un tempo
    Allettasti il furor d’ispane belve,
    Tal che squarciato ancor ne porti il fianco;
    Le pietose tribù, che all’empio giogo
    Si sottrasser d’Egitto, e salmeggiando
    Entrano i tuoi deserti, ove una tenda
    Libera alzar, non sospettosa accogli.
    A te non fune nè staffil che il tergo
    Laceri a’ figli tuoi: non de’ molossi
    L’orrido ceffo a lanïar le reni
    Della schiava fuggiasca: a te de’ padri
    Portan l’austera Fè; puro costume
    E ne’ mali temprate anime invitte.
    Ove giacquer paludi, ombrâr foreste,
    Sorgon ville e città: d’arti, di leggi,
    Di sodalizi e di commerci in pace
    Io già veggo fiorir le glorïose
    Cittadinanze; e libertà che varca
    Gli Erculei segni, e la divina pianta,
    Svelta d’Europa, a nuove Rome apporta.”

    Alla fervida voce, all’ispirato
    Presagir del magnanimo Cantore
    Di gioia un lampo le severe gote
    A Galileo trascorse. I continenti
    E gl’immensi arcipelaghi, agli stormi
    Cogniti or sol de’ volteggianti cigni,
    Popolarsi di vele ei rimirava;
    E civiltà su’ conquistati scogli
    Erger festosa il redentor vessillo.
    Nel superbo pensier tutto raccolto,
    “Perchè, dicea, perchè l’eroica gente
    Che pe’ lati Oceàni alle venture
    Schiatte prepara gli opulenti seggi
    D’inclite industrie, se comuni i fasti
    Ed il sangue ha comun, perchè l’altare
    Non ha comune, ed unica non suona
    De’ fratelli la prece? A suo talento
    Perchè ciascuno Iddio si foggia, e muta,
    Come muta stagion, riti e costumi?
    Ah, se custode de’ celesti veri
    Autorità non siede e sola il pane
    Di sapïenza a’ parvoli non frange,
    D’umane fantasie ludibrio, o figlio,
    Vedrai farsi l’Eterno; e stanca l’alma
    Del vano fluttuar, come fanciullo
    Indispettito che le case atterra
    Fabbricate per gioco in sulla sabbia,
    Gl’idoli suoi respingere, e la creta
    Delirando abbracciar, ultimo nume.
    Allor virtù fian le ricchezze, e l’ebbra
    De’ sensi voluttà bene supremo.
    Allor dalla venale Africa onusti
    D’umana carne scioglieranno i pini
    Glorïosi di libera bandiera;
    E nettaree bevande e molli vesti
    All’ignavo colono appresteranno
    Nel pien meriggio trambasciando i Neri;
    Allor più dura d’ogni duro giogo
    Libertà fia che vieti al cittadino
    Trar di sua notte l’abbrutito schiavo.
    Ma nè Pisa nè Genova, che fide
    Al cattolico rito i patrii fôri
    Cinser devote di marmorei templi,
    Fur men libere e grandi; e le tue vele,
    Prode Vinegia, al musulman furore
    Men tremende non fur, perchè le spoglie
    Delle vittorie al Dio grata appendevi.
    Equa fortuna infaticabilmente
    Volve sua rota: ad altre genti il sommo
    Or è dato tener. Del santo raggio,
    Che le strade di Dio segna a’ mortali,
    Guardïana severa, in ogni soffio
    Roma paventa insidïoso assalto,
    E la ragion, se non concessi voli
    Tentar le sembri, minacciando affrena.
    Ma de’ roghi il racconto e delle scuri
    Per cattolica rabbia insanguinate
    Lascia, garzone, al rétore ventoso
    Che lo stral drizza a Roma e non s’avvede
    Che l’uom percote. E dove e quando ardente
    Religïosa furia i petti invase
    Che il sangue non piovesse? Umani capi
    Quelli non fur, che del Tamigi a’ ponti
    La man confisse dell’ottavo Enrico?
    Men cocenti e voraci eran le fiamme
    Che Calvino accendea? Sulle vergogne
    Di questa cieca umanità gettiamo
    Il manto, o figlio; e finchè spunti il giorno
    Che rimondata del terrestre limo
    Novellamente a’ bianchi padiglioni
    Roma gli erranti accolga ed un l’ovile
    Torni ed uno il pastor; l’ire, le pugne
    E le colpe comuni e le sventure,
    Che fanatica erinni in terra addusse,
    De’ placati nepoti abbiano il pianto.”

    Qui tacque il Grande. Già scomparso il giorno,
    Cadean l’ombre più folte e la campana
    Di San Matteo coll’argentino squillo
    Salutava la sera. A lento passo,
    Dal lato opposto del giardin, Maria
    Verso il padre traea, di poche rose
    Legando un serto. Nel crescente buio
    Già le siepi sparian, sparian le piante;
    Ed ella ritta in piè presso i seduti,
    “Padre, dicea, se non t’incresce, è l’ora
    Della preghiera.” Il venerando capo
    Si scoperse il vegliardo, e non pensando
    Altrettanto fe l’Anglo. Allor la Donna
    Le man giungendo e le serene luci
    Devotamente al ciel levando, orava:
    “O de’ cieli regina, o di perdono
    E di misericordia immenso fonte,
    Madre d’amore, aura vital, dolcezza
    Unica nostra ed unica speranza,
    Salve! A te solleviamo il nostro sguardo
    Noi d’Eva esuli figli: a te gementi
    E lagrimanti sospiriam da questa
    Bassa valle del pianto. Or tu pietosa
    Soccorritrice a noi cotanto afflitti
    Que’ tuoi miti amorosi occhi converti
    E non tardar. Fa che di questo esiglio
    Uscir possiamo avventurosi, e mostra
    A noi, tuoi fidi, il benedetto frutto
    Del ventre tuo, Gesù! Salve, clemente,
    Umile e pia, che di dolcezza avanzi
    Quante vergini fur, salve, Maria.

    II.

    Grande, rossastra, come vela in fiamme,
    Di dietro all’Apennin salìa la luna,
    E di limpido albor le sottoposte
    Pensili selve e le dormenti valli
    Inondava dell’Arno. Assorto il vate
    Nell’alte cose udite e nell’incanto
    Di quell’itala notte, occhio e parola
    Più non movea. Per entro al vaporoso
    Candido mar spiccavano le torri
    Della bella Firenze, e come vetro,
    Che il sol percota, qua e là dall’ombra
    Il fiume uscìa riscintillando. Al bosco
    Le fronde non stormían: le vie deserte
    E senza voce i casolari. Il volto,
    Su cui pieno battea l’argenteo raggio,
    Maria da’ cieli non toglieva ancora,
    Quando il padre chiamolla, e pochi detti
    Sommesso mormorò. L’orme rivolse
    Vêr l’attigua magion quell’amorosa;
    Ed il cieco divin, la man premendo
    Del poeta, dicea: “Mio sol, mio giorno
    Era un tempo la notte. Allor che l’alba
    Tingea di perla all’orizzonte il lembo,
    Su me scendean le tenebre: caduto
    Dalle stellate altezze io lagrimava.
    Or, come vedi, cecità mi fascia;
    E la mia vita nebulosa un verno
    Sconsolato sarebbe, ove sostegno
    A’ dolenti miei dì Maria non fosse,
    Quell’angiol mio che tu scorgesti. Edipo
    Io di gran sfinge decifrai l’enimma;
    E questa dolce Antigone al mio fianco
    Posero i cieli. Dal vicin convento
    A me vien desïata, e non le grava
    L’estasi sante della cheta cella
    Per me lasciar, mondano ancor.” Di pianto
    Gli occhi velârsi all’ospite: la guancia
    Declinò sulla palma e taciturno
    Stette alcun tempo. Poi dal cor turbato
    Sospirando parlava: “E che rimane,
    Tolta la luce, di giocondo in terra,
    Se non l’amor? Che se contesa un giorno
    A me pur fosse, nè le dolci tinte
    Dell’aurora e del vespro, estiva rosa;
    Pascenti greggi, o la divina faccia
    Dell’uom più non vedessi; astro nascoso
    Sulle tenebre mie splenda l’amore
    D’ingenua figlia che a Maria somigli.
    Ma questa tua caligine è meriggio
    D’infinito fulgor. Nella tua mente
    Oceanica, o padre, il ciel discese
    Radïante: de’ soli e de’ pianeti
    Tu l’armoniche danze ancor misuri,
    E dall’ombroso tuo sedil le fughe
    Ignee d’Arturo e d’Orïon governi.
    Ciechi siam noi. Che se cortese hai l’alma,
    Come eccelso il pensier, padre, di tante
    Meraviglie, che primo in ciel leggesti,
    Fa che alcuna contempli, e dall’Orebbe,
    L’orma veduta del Signore, io torni.”

    “Figlio, rispose Galileo, precorsi
    Al tuo desir; nè tarderà Maria
    A soddisfarlo. Ma tu, nato a’ sogni
    Della mente leggiadri, e d’Elicona
    Alle velate finzïoni avvezzo,
    Pago sarai che il ver ti disasconda
    L’austera faccia ed al tuo sguardo involi
    Il lieto error che t’abbellía natura?
    Se t’accada, garzon, che sordo Amore
    I tuoi voti ricusi, or più non fia
    Che i notturni tuoi lai la Luna accolga
    E compagna fedel venga nel bosco
    A pianger teco. Io l’imperlata biga
    E l’arco le rapii: cinerea larva
    Le umane valli indarno ella contempla.
    E questa Terra che un vetusto orgoglio
    Dell’universo salutò reina,
    Stabil reina, a cui ministri intorno
    Il sole si aggirassero e le stelle
    Disseminate per l’immenso vano,
    Io, giusto librator, balzai di trono
    E fra l’ancelle rilegai. Le toghe
    Furibondi squarciâr, d’alti clamori
    Assordarono i chiostri e le tribune
    I novi Scribi, a cui l’adulterato
    Aristotile e l’irto sillogismo
    Fruttavan agi, riverenza e fama.
    Me temerario novator; di Roma
    Me schernitor gridarono i maligni,
    Me blasfemo e sacrilego: le genti
    Teser l’orecchio abbrividendo; un motto
    Poi lanciâr sul caduto e dileguaro.
    Io di Roma nemico? Se di Dio
    A lei cale diffondere l’onore,
    Opra feci diversa io, che nel tempio
    Delle divine glorie non fumante
    Cera o vile licor, ma sterminati
    Gruppi di soli, pria non visti, accesi?
    Io rapitor di sua corona all’uomo?
    Io che tratta di dosso al vanitoso
    Una porpora irrisa, ale gli diedi
    Da spazïar nell’Infinito, e gli astri,
    Ultime scolte a’ limiti del mondo,
    Di sua ragion sommettere al comando?
    Rota la Terra: obbedïenti al Sole
    Si volgono con lei Marte sanguigno
    E Venere falcata: enorme Giove
    Quattro lune discopre, a cui securo
    Più ch’all’Orse il nocchier fida le vele.
    Prossimo al Sol Mercurio avvampa; e move
    Pe’ novissimi spazi in gelo avvolto,
    A vedersi tergemino Saturno.
    E tu, vase di fiamma, astro gigante,
    Che regalmente la movenza affreni
    De’ seguaci pianeti, augusto Sole,
    Dell’immoto tuo soglio e de’ torrenti
    Lucidi, che pel nero etra diffondi,
    Non superbir! Col vindice baleno
    Le mie pupille saëttasti intente
    Nel tuo volto sovran; ma non sapesti
    Già le tue macchie ascondermi, o nebbioso
    Genitor della luce. Ampi di fumo
    Oceàni io distinsi e rubiconde
    Isole fluttuar entro il tuo seno
    Ch’incessante bufera agita e squarcia.
    Ben sei giovane ancor; nè le tue tende,
    Se la rimota vista non m’inganna,
    Sono ancor fisse, o Sol! Splendi dal centro
    Agli opachi vassalli, e portentosa
    Aura intanto ti volve a’ sconosciuti
    Porti, che il costellato Ercole alluma,
    Nell’azzurro profondo. Entro la zona,
    Che Lattea nominaro e primo io scorsi
    Di stelle innumerabili corrusca,
    Tu, negletto monarca, umil veleggi;
    E tra le sfere turbinanti illeso
    D’invisibil nocchier la man ti scorge.
    Gloria a Lui, gloria a Lui! Scender di soli
    Fitta una pioggia per l’Immenso io vidi,
    Quali di rosa colorati e d’oro,
    Quali d’indaco aspersi; astri con astri
    Avvicendarsi e mobili universi
    D’altri universi discovrir la via,
    Io vidi esterrefatto; e quando giunta
    Al limitar del vuoto e della notte
    La veduta moría, l’agil pensiero
    Correva ancor gli spazi immensurati
    E novi soli dal fecondo abisso,
    Come sabbia dal mar, nascer vedea.
    O sventurato, cui de’ cieli aperto
    Il volume non fu! Più sventurato
    Chi nell’ardente poesia de’ cieli,
    Stupido testimon, non sente Amore!”

    Taceva Galileo. Collo strumento
    Conquistator della distanza al padre
    Tornata era la donna e l’occhio immane
    N’avea volto al tuo disco, aerea Luna,
    Che a mezzo il tuo cammino alta splendevi.
    Lo sguardo v’appressò, nè lungamente
    Stette l’Anglo a mirar, che si ritrasse
    Impaurito dell’arcana possa
    Che al ciel pareva avvicinarlo. Immota
    Maria sorrise; ed ei riscosso alquanto
    Dall’immenso stupor, “Montagne e valli,
    Esclamava, toccai! Tra mondo e mondo
    Qual ponte hai steso, o Galileo! Ma dimmi:
    Quegli aspetti son veri? O vana immago
    Svia con bugiarda somiglianza il senso?”
    Il Tosco rispondea: “Non hai veduto
    Come l’ombra lassù si allunghi e scemi,
    Non altrimenti che far soglia in terra?
    Non hai veduto alle montagne in vetta
    Furtiva rosseggiar prima la luce,
    Poi scender dilatata entro le valli,
    Come avviene quaggiù?” L’Anglo riprese:
    “E vi son mari e fiumi? Il suol s’ammanta
    D’erbe e di mèssi? Le felici lande
    Sguardo rallegra d’anime viventi?”
    E l’austero Geometra: “Tu chiedi
    Più che non possa mia scïenza apporti;
    Nè mai giorno verrà che a tanto attinga
    Intelletto mortal. Ma quando io scerno
    Che abitabili piagge han Marte e Giove,
    E di spirabil aëre vestita
    Iride e nembi Venere conosce,
    Credibile non parmi che Colui,
    Che l’ostel fabbricò, voto il lasciasse
    D’abitatori. Esìl grano d’arena
    Nell’oceàn degli esseri è la terra.
    Se noi, cotanto in fondo, i firmamenti
    Pur abbracciam coll’alma, e contemplando
    Di giro in giro ci leviamo a Dio,
    Chi torrammi la fè, che popolate
    Sian di più pure, amanti Intelligenze
    Le più nobili sfere, e ripercosso
    Da tutti quanti i cieli, unico, immenso
    Inno di lode al Creator risuoni?
    Tal mi detta una fè; sull’alto arcano
    Tace scïenza. Dall’audaci inchieste
    Che di qua dall’avel non han risposta,
    Tempo è ben che si tolga, e di glossemi
    Più non faccia tesoro a cui suggello
    Legittimo non pose esperïenza,
    Paragone del vero. Allor ch’io venni
    Ne’ suoi giardini, a me disse Sofia:
    Figlio, del mondo le riposte origini
    Non ricercar, nè a qual lontano termine
    L’universo si volva: impervie tenebre
    All’umana ragion, quando la fiaccola
    La Fè non alzi e l’atro calle illumini.
    Modesta più, ma men fallace indagine
    A te fia di natura il libro svolgere
    Che chiuso giace, di segrete sillabe
    Tutto vergato e d’incompresi numeri.
    Così la dea parlommi, ed una chiave,
    Che già tennero Euclide ed Archimede,
    Dal sen si trasse ed a me porse. I moti
    Perenni e le mutabili sembianze
    Del creato mirai. Come di notte
    Fanciul smarrito alla foresta intende
    Strani romor, per cui giganti e mostri
    Vede atterrito grandeggiar nel buio;
    Tal di natura i penetrali entrando
    Io d’incognite posse il guizzo intesi
    Meravigliose, onnipossenti. I germi
    Sciolti fervean. Nel fior che i rabescati
    Petali attorce in calice; ne’ fiocchi
    Della neve cadente e de’ cristalli
    Nelle rigide facce egual misura,
    Numero egual m’apparve. Assidua vece
    Di forma in forma l’atomo sospinge
    Primordïal; ma non flessibil Parca
    Regge con ferrea man nozze e dissidi.
    Tal di vita e di morte alterno fato
    L’universo ritempra! Ove s’accampa
    Bella di molti tremolanti fochi
    Presso l’Orsa minor Cassiopea
    Sorger fu visto subitano un sole
    Che più tempo rifulse: a poco a poco
    Poi scolorossi e sparve. E tale ardevi
    Forse nell’alba del creato, o Terra,
    E lenta ti spegnevi! Invitte posse
    Che ancor tremoti pascono e vulcani,
    Ti sconvolsero un tempo. Alghe e conchiglie,
    Cangiate in sasso, d’Apennin sul dorso
    Il mandrïan raccoglie, e d’elefanti
    Cavi teschi in Valdarno urta l’aratro.
    Laghi di fiamma e di metalli ondeggiano
    Nelle viscere tue: venti e baleni,
    Geli ed ardori, grandini e rugiade
    Vivide forze accusano, che avara
    All’occhio esplorator natura asconde.
    Io scovrirle tentai. Nell’ardua prova
    La vecchiaia m’incolse; e dell’ignota
    Contrada a cui tendea, novo Colombo,
    Visti non ho che ramoscelli e fiori
    Rari, per l’acqua galleggianti. I tempi
    Son nondimen maturi: al cor presago
    Novi cieli fan cenno e nove terre.
    Già delle scole a tirannia devote
    Taccion gl’inani oracoli che d’ombre
    Fascinatrici e di pompose ambagi
    L’egre menti nudrian: per sè le porte
    Si spalancan del tempio e sgomentati
    Dalla luce del ver gli dei sen vanno,
    Cui cento età curvarono la fronte.
    Animosi intelletti alla natura,
    Provando e riprovando, i chiusi arcani
    Ad uno ad uno involano: di seste
    Ardimentose e di scandagli armato
    L’uom trascorre la terra, ed al suo cocchio
    Docili aggioga le selvagge forze
    Che gli evi tenebrosi empiean di larve.
    L’ali incatena al fulmine: il listato
    Cinto fura alla luce; e gli elementi
    A suo senno stemprando, a novi corpi
    Origin dona: civiltà procede,
    E di saper, di costumanze e d’agi
    Più nobil fassi e più gentil la vita.
    Cotanta di trofei mèsse corranno
    Lungo il sentier, che ritentando io schiusi,
    Le non remote età! Di sue conquiste
    Il mortal tuttavia non inorgogli;
    Nè sè creda alle cose unico sire,
    Unica legge e fine. I monti adegui:
    Misuri i mari: annoveri le stelle;
    Ma dì non sia, che baldanzoso usurpi
    Trono non suo. Segreto affanno il core
    Talor mi stringe, o figlio. Arme tagliente
    Misi in pugno al mortal. Contro il suo petto
    Ch’ei forsennato non la volga, ed ebbro
    Di miseranda insania, — È mio lo scettro,
    Sclami, del mondo: alfin mel rendi, Iddio.”

    La fronte si percosse, e somigliante
    Ad uom, ch’immago luminosa afferri
    Nell’ansia mente d’improvviso apparsa,
    Il poeta levossi. Indi ristette
    Sospeso alquanto, e posto al labbro il dito,
    Lo sguardo a terra, in gran pensier s’immerse.
    Poi di subita fiamma il volto acceso,
    Acceso le pupille, “E che paventi,
    Sclamava, o Galileo? L’orma di Dio
    Chiara così nell’universo appare,
    Che a Lui naturalmente il cor s’innalza
    Non gravato di fango. Ove pur fosse
    Che rigida scïenza, a’ corpi intesa,
    L’alme obbliasse: riprendesse i regni
    Atei la carne: le robuste fedi,
    I magnanimi istinti e le speranze
    Immortali dell’uomo orrenda piena
    Di torbidi marosi travolgesse;
    Conservatrice del superno foco
    Che l’avvenir rallumi, arca di Dio,
    Sul tetro abisso Poesia galleggi;
    E alle giovani stirpi, che redente
    Scendon dal monte a ripigliar gli alberghi,
    L’antico ver, che gli avi tralignati
    Ebbero a scherno, un’altra volta impari.
    Odimi, o padre. D’amoroso ospizio
    Nella regal Partenope cortese
    L’aureo Manso mi fu. Dagli anni oppresso
    E da fortuna, vacillante, infermo
    Visto avean quelle soglieil gran Torquato
    Cercarvi asilo. In riva al mar torreggia
    L’ampio palagio. Il nobile signore
    La stanza m’additava, e ne’ viali
    Ombreggiati d’aranci e di cipressi
    Il memore sedil, dove posava
    Muto guardando la natal marina
    Il Grande melanconico e piangea.
    Piene dell’alta deità le selve
    Mi parean: per l’immoto aere melodi
    Correre udiva e arcane consonanze
    D’arpe celesti. Perocchè la Musa
    Che d’Aminta le pene e di Goffredo
    L’armi cantato avea, di Dio lo Spiro
    Che feconda l’abisso e l’universo
    Ordinando distingue in Sette Giorni,
    Fra quelle piante celebrò. Gran tela
    Di battaglie e d’amori io nel pensiero
    Ordita avea giovenilmente. Un lampo
    Sperse que’ sogni e mi spirò subbietto,
    Che virtù nova dalla tua parola
    Attinge, o Galileo. Veglio divino!
    Poi che sinistro antiveder t’accora,
    E paventi che tumida d’orgoglio
    Scïenza contro Dio l’armi non prenda;
    Io rammentando al secolo superbo
    L’antico fallo, ond’abbia esempio e freno,
    Dell’uom la prima inobbedienza e ’l frutto
    Canterò del vietato arbore, amaro
    Frutto letal, che sulla terra addusse
    Onda infinita di sciagure e morte,
    Oltre l’Eden perduto; infin che scende
    Da’ cieli a ristorarne Alma più grande
    E ne racquista le beate sedi.”

    Alzossi Galileo. Congratulando,
    Come l’uom fa ch’alti proposti intende,
    Il giovane abbracciò. L’aura notturna
    Già le membra pungeva: all’orizzonte
    Chinata era la luna. Al fedel braccio
    Di Maria s’appoggiò l’augusto vecchio,
    E verso la magion prese il sentiero.
    Per un istante il capo ella rivolse,
    E sparsa di rossor, le poche rose
    Ch’avea raccolte e timido saluto
    Diede al garzon, che ravvolgendo in core
    Sublimi visïoni, inscio de’ fati
    Che in patria l’attendean, scese dal colle.




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