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    Giovanni Pascoli

    Romagna

    a Severino


    Sempre un villaggio, sempre una campagna
    mi ride al cuore (o piange), Severino:
    il paese ove, andando, ci accompagna
    l’azzurra visïon di San Marino:

    sempre mi torna al cuore il mio paese
    cui regnarono Guidi e Malatesta,
    cui tenne pure il Passator cortese,
    re della strada, re della foresta.

    Là nelle stoppie dove singhiozzando
    va la tacchina con l’altrui covata,
    presso gli stagni lustreggianti, quando
    lenta vi guazza l’anatra iridata,

    oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
    e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
    gettarci l’urlo che lungi si perde
    dentro il meridïano ozio dell’aie;

    mentre il villano pone dalle spalle
    gobbe la ronca e afferra la scodella,
    e ’l bue rumina nelle opache stalle
    la sua laborïosa lupinella.

    Da’ borghi sparsi le campane in tanto
    si rincorron coi lor gridi argentini:
    chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
    desco fiorito d’occhi di bambini.

    Già m’accoglieva in quelle ore bruciate
    sotto ombrello di trine una mimosa,
    che fiorìa la mia casa ai dì d’estate
    co’ suoi pennacchi di color di rosa;

    e s’abbracciava per lo sgretolato
    muro un folto rosaio a un gelsomino;
    guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
    chiassoso a giorni come un biricchino.

    Era il mio nido: dove, immobilmente,
    io galoppava con Guidon Selvaggio
    e con Astolfo; o mi vedea presente
    l’imperatore nell’eremitaggio.

    E mentre aereo mi poneva in via
    con l’ippogrifo pel sognato alone,
    o risonava nella stanza mia
    muta il dettare di Napoleone;

    udia tra i fieni allora allor falciati
    de’ grilli il verso che perpetuo trema,
    udiva dalle rane dei fossati
    un lungo interminabile poema.

    E lunghi, e interminati, erano quelli
    ch’io meditai, mirabili a sognare:
    stormir di frondi, cinguettìo d’uccelli,
    risa di donne, strepito di mare.

    Ma da quel nido, rondini tardive,
    tutti tutti migrammo un giorno nero:
    io, la mia patria or è dove si vive:
    gli altri son poco lungi; in cimitero.

    Così più non verrò per la calura
    tra que’ tuoi polverosi biancospini,
    ch’io non ritrovi nella mia verzura
    del cuculo ozïoso i piccolini,

    Romagna solatìa, dolce paese,
    cui regnarono Guidi e Malatesta;
    cui tenne pure il Passator cortese,
    re della strada, re della foresta.




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