Library / Literary Works

    Ippolito Pindemonte

    Al Cavaliere Clementino Vannetti

    A Roveredo.


    O CLEMENTINO, del cadente onore
    Dell’Italico stil fermo sostegno,
    Sotto qual ombra le lunghe ore estive
    Vai sagace ingannando? Obblío ti prese
    Di Pindo amato? O la sonante cetra
    Scotendo vai, pien di furor giocondo,
    E immemore del tuo fedele Amico,
    Che nè lieto, nè mesto, per le belle
    Avesane colline si raggira
    E legge tua gentil Prosa, che adorna
    Del chiaro tuo concittadin le Rime?
    Scuri cipressi che a quel colle in cima,
    Fate dell’Eremita al sacro albergo
    Di triste, e pur soavi ombre corona;
    Sapete voi, se dell’Amico il nome
    Odon queste fontane e queste rupi,
    O che l’orïental Sole dispieghi
    Tutta la pompa dell’ardente luce,
    O che in partendo le montane cime
    Pinga ed inauri di più dolce foco.
    Sapete, ancor se dal frondoso ramo
    Staccai per altri le sonore corde
    Dal dì, che la pietosa arte di Coo
    Dure leggi m’impose, e vietò il caro
    Succo dell’uva, allegrator dell’alme,
    E di note Febée maestro altero.
    Ma tazza colma di salubre latte
    Mi viene innanzi sul mattin rosato,
    E sul caldo meriggio in gelid’acque
    Mi raccapriccio: indi m’assido a mensa,
    Non che frugal, presso che nuda, e quale
    Non disdiria d’uom penitente al labbro.
    Oh! quando fia che ritornare io veggia
    (Come tutta di brame e di speranze
    Si regge, e si mantien nostra natura)
    Autunno pampinoso, il qual per mano
    Tenga, e rimeni a me l’alma Salute,
    Vaga Dea, se a noi mostra il roseo volto,
    Dea, se da noi l’asconde, ancor più vaga.
    Liete vendemmie allor faremo: al suono
    De’ crepitanti cembali, ed a quella
    Di rurale canzon grazia selvaggia,
    Con Lalage, e con Delia, unite al coro
    Delle contadinelle, quasi Dive
    Tra mortali fanciulle, allegri balli
    Condur saprò: di Bacco i rossi doni
    Succederanno ai candidi di Pale,
    E allor fia tempo da stancar la cetra.
    Intanto giovi a me questo securo,
    Che ingannare non sa, viver tranquillo,
    E i piacer solitari, onde son cinto;
    Contento pur, se alle mie nari il grato
    Odor dell’ammontata erba recisa
    Recan le passeggiere aure cortesi;
    Se al vicin faggio, sotto conscia notte,
    Memore l’usignuol farà ritorno,
    Non imparate a scior musiche voci,
    Gli amor suoi gorgheggiando, e i miei diletti.
    Qualunque vita, sia ridente, o grave,
    Tumultuosa, o cheta, oscura, o chiara,
    Porta in sè stessa i suoi piaceri, e il folle,
    Che d’altri beni vuole ornarla, sempre
    Del piacer troverà maggior l’affanno.
    O cieca stirpe di Prometeo, quando
    Di gridar cesserai contro le date
    Sorti ineguali? Un comun senso, Amico,
    E un contento comune havvi non meno,
    Ed in ogni destin, quant’uomo il puote,
    Felice è l’uom; sol che virtù non fugga:
    Virtù, Ninfa bellissima, che a tazze
    Bee, dove nulla mai d’amaro ha il dolce,
    Che del par gode se riceve, o dona.
    Danzar la vedi? Un fortunato evento
    Coronò l’opra, che da lei tentossi.
    Ebbe triste novelle? Oscura doglia
    Non spiega in fronte; e se talvolta piange,
    Non è letizia d’altra Ninfa, o riso,
    Che più soave di quel pianto sia,
    Di quel pianto, onde torna anche più bella.
    Suda, nè stanca è mai; ricca, ma parca,
    Fruisce il ben, nè però sazia resta.
    Nulla le manca: chè bramar non puote,
    Ch’esser più bella ancora, e sol che l’aggia
    Bramato, ci basta; già più bella è fatta.


    Poesie campestri




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