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    Alessandro Manzoni

    Amore a Delia

    A te non noto ancora,
    se non di nome, io vengo, io quel di Cipri
    fra gli uomini e gli Dei fanciul famoso;
    dubbio innoltrando il pie’, che già due lustri
    da queste stanze ad altre sedi io trassi,
    quando la Madre tua savia divenne,
    e cessò d’esser bella. Or riconosco
    de’ miei trionfi i monumenti; or veggio
    il fido letto, ch’io nel dì lucente,
    la notte il sonno coniugal calcava,
    e or sola, dopo il sibilar di molte
    preci e molto sbadiglio, in su la sera
    l’accoglie. Imen vuol che dapprima i suoi
    seguaci il sonno abbian comune e il cibo
    indi fuor che la mensa a parte il tutto.
    Qui gli sdegni, le tregue, indi le paci,
    indi novelli sdegni e nove paci
    lungo tempo alternati ad arte usai.
    Su questa sedia or per età vetusta
    cader lasciossi da gelosa rabbia
    oppressa a un tratto, i languidi chiudendo
    occhi, scomposta il crin, madido il fronte
    di sudor freddo; il natural rossore
    sbbandonolle il volto, e sol restovvi
    l’imposta rosa; l’innocente lino
    provò le ingiurie de l’acuto dente.
    Qui l’immaturo Giovane inesperto
    modesta accolse in pria, che dopo lungo
    conversar con Minerva e con le Muse
    s me pur venne alfin, piena la mente
    di sermon Lazio e di raccolti Dommi.
    Qui si sdegnò de l’ardir suo, qui ruppe
    un nascente sorriso, qui compose
    s matronal severitade il guardo;
    e con la dotta man compose il velo
    in modo tal che ne apparisse il seno.
    Placossi alfin: più debolmente alfine
    l’audace man respinse; l’ostinata
    garrula voce infievolissi, e tacque;
    e con un guardo di sdegno, e d’amore
    parea dicesse: a te do in sacrificio
    mia virtù novilustre; e stanca ormai
    di sonanti virili ispidi nèi,
    anco sentì sollicitarsi il volto
    da la molle lanuggine cedente
    che ancor la mano del tonsor non seppe.
    Ma quali veggio a le pareti appese
    nove immagini, tetri simulacri
    d’occhi incavati, e di compunti visi?
    Oh strano cangiamento! or finta in tela
    la penitente grotta di Marsiglia
    sostiene il chiodo, onde pendea dipinto
    il Latmio bosco e la Vulcania rete.
    Addio pertanto, o meste stanze! A voi
    ritornerò quando novella Nuora
    venga a mutar le imagini e gli arredi;
    e dato esiglio a le canute chierche,
    i bei tumulti e i giochi e me richiami
    e la letizia, di giocondi amici
    popolando la casa del marito.
    ...
    Già i Parenti e i Congiunti e i fidi Amici
    van disegnando ne lo stuol crescente
    di te degno e di lor Genero, cui
    nuova cura di pubbliche faccende
    e veste di pretorio oro insignita
    faccia illustre, o i non ben dimenticati,
    con l’arse pergamene e con le rase
    da l’alte porte e dai lucenti cocchi
    mistiche insegne, titoli vetusti.
    Ben nel mio Regno inviolata io serbo
    equalitade; io spesso anche al sublime
    talamo esalto del Signor beato
    il rude Servo, a lui per indomata
    fedeltade e destrezza e pronto ingegno,
    e a la sposa di lui per giovanili
    membra caro e per inguine possente.
    Anco avran caro, a cui rivestan molti
    le Briantee colline arsi racemi,
    onor d’Insubri mense: e molti buoi
    rompan le pingui Lodigiane glebe
    e chiomate cavalle, e quel che il latte
    dona armento minor pascan gli acquosi
    immensi prati, onde lo sguardo è vinto.
    Perché tai cure oggi al giurato altare
    conducano i garzoni e le nolenti
    donzelle, ascolta. Acerba lite un giorno
    ebbi con Pluto; ei per vendetta Imene
    d’una catena d’or tutto ricinse
    e lo trasse con seco e sel fe’ schiavo.
    Ma il favor de l’eterne ali avea tolto
    a sue ricerche. Egli al sacrato patto
    solo presieder volle. Io con la stessa
    catena ambo gli avvinsi, e donno e servo
    sottoposi a mia legge. Indi ei sovente
    a viso aperto e con mentite forme
    in mio favor combatte. Ei ne le ricche
    officine s’innoltra, e di lucente
    crisolito o di limpido adamante
    in aureo anello o di gemmata cifra,
    quasi Proteo novel, prende l’aspetto.
    Come talor quel che non fecer preghi
    e sospiri e bellezza, egli m’ottenne!
    E spesso ne’ tuguri anco il condussi
    col villeggiante Cittadin, che sazio
    di profumate mogli, ebbe disio
    di Venere silvestre; ivi la dura
    per più Lune ad un sol serbata fede
    ruppe il fulgor del magico metallo.
    Così dopo gran pugna il buon Atlante
    a lo scudo fatal toglieva il velo,
    ricorso estremo ne le dubbie cose;
    e abbagliati i Cavalli e i Cavallieri,
    facendo agli occhi de la destra schermo,
    lasciate l’arme al suol, cadean prostesi,
    abbandonando l’ostinato arcione.
    Già intorno a te molta oziosa turba
    di Giovani s’aggira, e parte, e torna,
    come a rosa sbucciante in sul mattino
    ronzanti pecchie. Altri agli esperti inchini
    e a le accorte parole assai più grato
    ti fia degli altri tutti; a cui matura
    gioventude le gote orna di folta
    gemina striscia, che il cammin del mento
    segna a l’orecchio. Ah fuggi, incauta, il troppo
    dolce periglio. Egli ne’ miei misteri
    già troppo è dotto, ei sa l’ore diverse,
    che al Castaldo ed al Tempio ed a Licori
    sacre ha più d’un Marito; ei le secrete,
    non da profano pie’ trite, conosce
    anguste scale, onde ai beati vassi
    aditi de le mogli mattutine.
    Ivi è Signor, fin che di nuovo giunto
    seguace di Gradivo indi nol cacci,
    che da l’Alpi a bear venne la ricca
    di messi Insubria e d’uomini sinceri;
    senza cura o timor, che il mal mentito
    guascone inviso accento, onde cotanto
    in fine orecchio Parigin s’offende,
    i titoli smentisca, e l’ampie case,
    che in Lutezia ei possiede, e le cagioni
    ond’ei di Marte le abborrite insegne
    prima seguì, per evitar la cieca
    famosa falce, che trovò l’acuto
    gallico ingegno, onde accorciar con arte
    la troppo lunga in pria strada di Lete,
    e la curva strisciante in su le selci
    stridula scimitarra in rilucente
    breve spadina, ed il calzar ferrato
    in nitida calzetta, che il colore
    agguaglia de le perle, onde Amfitrite
    il sen s’adorna e la stillante treccia,
    cangiò, come a me piacque e a l’alma Pace.
    Quei de’ mutati sguardi e del rivolto
    viso intende il linguaggio, e si ritira
    quasi Marito, ma nel cor fremendo.
    E cangiato sentier, giù per le late
    scale vien saltellando, e per le vie
    cercando va col curioso sguardo
    qual fra le case abbandonata Moglie
    rinchiuda; ed anco da maligno Genio
    spinto, a le incaute Vergini s’appiglia,
    a lor tentando il cor, non senza qualche
    sguardo a la madre e a la fedele Ancella.




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