Library / Literary Works

    Ippolito Pindemonte

    Il Mattino

    I.

    Candido Nume, che rosato ha il piede,
    E di Venere l’astro in fronte porta,
    Il bel Mattino sorridendo riede,
    Del già propinquo Sol messaggio e scorta.
    Fuggì dinanzi a lui Notte, che or siede
    Sovra l’occidentale ultima porta,
    Con man traendo a sè da tutto il cielo,
    E in sè stesso piegando il fosco velo.

    II.

    E intorno a lei s’affollano battendo
    Fantasmi e Larve le dipinte piume,
    E gli Amori, che lagnansi fuggendo
    Del sollecito troppo e chiaro lume.
    Più non s’indugi: sovra il colle ascendo?
    O in riva calerò del vicin fiume?
    Scelgo la via, che monta, e movo in fretta,
    Il Sole ad incontrar su quella vetta.

    III.

    Oh quali mi sent’io per le colline
    Fresche fresche venir dolci aure in volto,
    E ciò portar che accorte pellegrine
    Tra gli odor più soavi hanno raccolto!
    Pare che Voluttà l’aureo suo crine
    Abbia testè disviluppato e sciolto,
    E sparsa l’immortal fragranza intorno,
    Ond’è superbo il giovinetto giorno.

    IV.

    Non Voluttà, che dal procace aspetto,
    Dal sen nudo, e da gli occhi ebbrezza spira:
    Ma quella, che lo sguardo in sè ristretto
    O tiene, o a riguardar modesto il gira,
    Cui tra bei veli appena il colmo petto,
    Come Luna tra nube, uscir si mira,
    E che sparse ha le man del fior più gai,
    Che spesso odora, e non isfronda mai.

    V.

    Più non regna il Silenzio: ecco d’armenti,
    D’augei cantori mille voci e mille,
    Di carri cigolío, gridar di genti,
    Onde i campi risuonano e le ville;
    Mentre con iterati ondeggiamenti
    Scoppian le mattutine aeree squille,
    E gemer s’ode delle braccia nude
    Sotto all’alterno martellar l’incude.

    VI.

    Par sia Natura, quando il ciel raggiorna.
    Di mano allora del gran Mastro uscita,
    O almen ci appar di tal freschezza adorna,
    Che ben dirla un potria ringiovenita.
    Ma oimè che splende alquanto, e più non torna
    Il soave mattin di nostra vita.
    Splende, e non torna più quella, che infiora
    Gli anni prima dell’uom, sì dolce aurora.

    VII.

    D’alte speranze infiora e d’alte voglie,
    D’aurati sogni, e di felici inganni.
    Quella poi viene, che l’incanto scioglie,
    Grave alla faccia, al portamento, ai panni,
    Quella Filosofia, per cui l’uom coglie
    Nuova felicità conforme agli anni,
    E un ben, se certo più, meno vivace,
    Una tranquilla, sì, ma fredda pace.

    VIII.

    Benchè ancor celi l’infiammata fronte
    Il Sol dietro a quel giogo alto ed alpestro,
    Pur su le nubi, che dell’orizzonte
    Rosseggian qua e là nel sen cilestro,
    Pur lo vegg’io del contrapposto monte
    Su l’indorato vertice silvestro,
    Pur... Ma ve’ ch’egli è sorto, e che dal polo
    Scaccia ogni nube, ed imperar vuol solo.

    IX.

    Felice impero! Quanto bello ei luce,
    E in che soave maestà serena!
    Maestà di gentil Monarca o Duce,
    Che l’occhio ammirator ferisce appena.
    Come di un vivid’oro e d’una luce
    Tremolante e azzurrina egli balena!
    Poi la ristringe alquanto, e purga affatto,
    Onde men grande, e più lucente è fatto.

    X.

    Io ti saluto e inchino, o di Natura
    Custode, e ad occhio uman visibil Dio.
    Che senza te fora la terra? oscura
    Mole cadente nell’orror natio.
    Questa de’ prati a me cara verzura,
    Questi ombrosi passeggi a chi degg’io?
    Chi Primavera di bei fior corona?
    Chi di tante ricchezze orna Pomona?

    XI.

    Pur raro a te lo sguardo, e l’alma ingrata,
    O Re del Mondo, il mortal basso intende.
    Vive notturno, e in camera dorata,
    Quasi a te in onta, mille faci accende:
    Le cene allunga, e quando la rosata
    Luce nel suoi bicchier fere e risplende,
    Questa luce, che or me di gioja ingombra,
    L’odia, e la fugge, e cerca il sonno, e l’ombra.

    XII.

    E pur quel caro a lui nettare acceso,
    Che su i colmi bicchier gli ondeggia e gioca,
    Ha da te quella grazia, e da te preso
    Ha quel nobile ardir, di cui s’infoca.
    Pur maturo da te quell’òr si è reso,
    Che su le vesti sue divide, e loca,
    E quel diamante, che polisce e intaglia,
    La man ne ingemma, e gli occhi al vulgo abbaglia.

    XIII.

    Chè qual rosseggi, rimenando il Maggio,
    Nella rosa, e biancheggi entro i ligustri,
    Tu sei, che in loro imprigionando un raggio,
    Il diamante e il rubin colori e illustri.
    Smanj dietro le gemme altri men saggio:
    Che son, senz’opra di sculture industri?
    Ma senz’arte o lavor vergine rosa
    Molcer due sensi può, bella e odorosa.

    XIV.

    Vidi talor la tua infocata sfera
    Uscir della tranquilla onda marina,
    E vidi l’Oceàn, che specchio t’era,
    Tutto acceso di luce porporina.
    Pregai che l’increspasse aura leggiera,
    E nuova meraviglia ebbi vicina:
    Scorsi di più color l’onde ripiene.
    E noi tanto dell’Arte amiam le scene?

    XV.

    Di sì vago e mirabile orïente
    Spesso godei, quand’io solcava il mare:
    Pur non vorrei la dolce erba presente
    Col soggiorno cambiar dell’onde amare.
    Qui pur del Sole i rai veggo sovente,
    Mentre da foglie e rami egli traspare,
    Rapirne il verde, e a me condur tesoro
    Di liquidi smeraldi, e d’ostro, e d’oro.

    XVI.

    Il rugiadoso prato, che biancheggia,
    Tutto al levar del Sol s’ingemma e brilla.
    Il rivo d’uno sguardo il Sol dardeggia,
    E il rio volge in ogni onda una favilla.
    Erge de’ fiumi ancor la muta greggia
    Talvolta al Sol l’attonita pupilla,
    E il Sole anch’ella in sua letizia muta,
    Quanto i belanti, e i volator, saluta.

    XVII.

    Congiungo a queste anch’io la mia favella,
    E de’ miei colli errando per le cime,
    Con meraviglia della villanella,
    Che l’estasi mia vede, alzo le rime,
    Fin che lunghe son l’ombre, e i campi bella
    Varïetà d’aureo, e di scuro imprime,
    E l’azzurro del ciel vincono i monti,
    Che lunge in faccia mia levan le fronti.

    XVIII.

    Meglio che tra cittade angusta e bruna,
    Volano al puro aere aperto i carmi:
    Qui Cirra in ogni colle, ed in ciascuna
    Fonte Permesso rimirar qui parmi.
    Forse giunge il mio canto in parte alcuna,
    Bench’io voglia tra lochi ermi celarmi:
    Che non giungano, o Silvia, a te sue note,
    Benchè romito, non bramar chi puote?

    XIX.

    Così appunto in quest’ora alma e vitale,
    Che il Sol de’ primi rai l’etere inonda,
    Lodoletta montante, che su l’ale
    Si libra, e nuota nella lucid’onda,
    Vibra il suo canto solitaria, e tale
    D’aureo lume Oceàno la circonda,
    Che si toglie allo sguardo, e in quello avvolta
    Nessun la vede, e da ciascun s’ascolta.

    XX.

    Oh, com’è questo ciel, sia tale il core!
    E più non ne rannuvoli il sereno
    O follía, che par senno, o dolce errore,
    Che offre tazza d’ambrosia, ed è veleno.
    Sol chieggo, che alle corte ed ultim’ore,
    Quando vien l’anno della vita meno,
    Quello almen tra i miei sensi, alle cui porte
    Sta l’alma per vedere, io serbi forte.

    XXI.

    Ma s’io, ciò, Sole, ascolta ancor, s’io mai
    Alla madre cessar l’omaggio antico
    Di rispetto e d’amore, o nel suoi guai
    Dovessi un dì non ascoltar l’amico;
    Se fosse per levar non finti lai,
    Senza un sospiro mio, l’egro mendico,
    O da me in vista nulla men dogliosa
    L’orfano per partire, o l’orba sposa;

    XXII.

    Possano d’improvviso entro un eterno
    Orror notturno gli occhi miei tuffarsi
    Ed al tuo, sacro Sol, lume superno,
    Di trovarlo non degni, invan girarsi:
    Nè più quindi apparisca a me l’alterno
    Delle varie stagion rinnovellarsi,
    Nè sul pallido ciel mirar vicino
    Goda il ritorno del gentil Mattino.




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