Library / Literary Works

    Ippolito Pindemonte

    La Notte

    I.

    Già sorse, ed ogni stella in ciel dispose
    Notte con mano rugiadosa e bruna;
    Piena nell’orbe suo splende, e le cose
    Di soave color tinge la Luna;
    E della villa, e delle popolose
    Città la gente si rinserra e aduna:
    Ma qui su questa rupe, ond’uom non veggio,
    Signor del Mondo abbandonato, io seggio.

    II.

    Come nella Natura, che sospende
    Ogni opra agli occhi, è la quïete augusta!
    Come da un cor, che la sua voce intende,
    Questo silenzio universal si gusta!
    Universale, se non quanto il fende
    Cupo tenor di musica locusta,
    E romorosi più nella profonda
    Quïete o rio tra i sassi, o al vento fronda.

    III.

    Insieme con le fresche aure notturne
    Volan le dolci Calme, e i bei Riposi,
    E i Genj, che dormir nelle diurne
    Ore, e godon vegliar co’ cieli ombrosi,
    E con sordo aleggiar le taciturne
    Gioje tranquille, ed i Piacer pensosi:
    Mentre su colle e pian disteso giace
    Quell’orror bello, che attristando piace.

    IV.

    Quale nella rapita alma s’imprime
    Forza di melanconico diletto!
    Com’è gentile a un tempo, ed è sublime
    Del gran teatro, ove ora son, l’aspetto!
    Qui non s’ascolta, è ver, sospiri e rime
    Da non virile uscir musico petto,
    È ver, qui non s’ammira in pinta scena
    O danzar Ninfa, o gorgheggiar Sirena.

    V.

    Nè qui gran sale d’immortal lavoro
    Sorgon, dove le faci a mille a mille
    S’addoppian ne’ cristalli, illustran l’oro,
    E l’aria tutta accendon di faville;
    Ed in giostra venire osan tra loro
    Tremule gemme, e cupide pupille:
    Regna lo scherzo, e il riso, ed ire, e paci,
    Care più, se più son l’ire vivaci.

    VI.

    Mirabile è ciò tutto; e di quel bene,
    Che dal Mondo gentil tanto s’apprezza,
    di quelle, ch’ei dice utili pene,
    Me pur nell’età mia punse vaghezza.
    So i misteri d’un ballo, e delle cene
    La non vulgare ed erudita ebbrezza;
    So di quanta ventura è l’andar vinto
    Da due ciglia, due guance, e un cor dipinto.

    VII.

    Ma o ch’io vaneggi in questi giorni meno,
    O che or di follía saggia in preda io sia
    (Chè per necessità dell’uom terreno
    Forse s’annida ognor qualche follia),
    Questo pian fosco, questo ciel sereno,
    La visibil di tanti astri armonia,
    D’ogni scena, o palagio, e di quel raro,
    Che mai l’arte offrir possa, è a me più caro.

    VIII.

    E parmi nuocer men quella che in loco
    Notturno, sì, ma liber’aura nasce,
    Che la chiusa, di cui l’avido foco
    Delle infinite fiaccole si pasce.
    Perchè la danza e dell’incerto gioco
    Duran così le ricercate ambasce,
    Che ogni fiamma, al mancar dell’esca pura,
    Languendo accuserà le infide mura.

    IX.

    Quindi ogni guancia al fin pallida e smunta,
    Più che per colpa del vegliar, del ballo:
    Nè val, se ad arte colorita ed unta
    Fu prima in faccia al consiglier cristallo,
    Che sotto il rosso ancor trapela e spunta
    Vittorïoso il crudel bianco e il giallo,
    E, come stelle d’annebbiato cielo,
    Le infelici pupille appanna un velo.

    X.

    Deh splendan sempre a me le care stelle
    In così puro ciel, come or le miro!
    Mentr’io su l’ali del pensiero a quelle
    M’ergo, che tragge ignota forza in giro,
    E nelle terre incognite e novelle,
    Audace pellegrino, entro e m’aggiro,
    Veggo abitanti, e sovra tutto impressa
    Con vario stil la Sapïenza istessa.

    XI.

    E se, fermando l’instancabil passo,
    Per quel di Mondo in Mondo alto vïaggio,
    Dal freddo Urano estremo il guardo abbasso,
    La terra scorgo, e quest’uman legnaggio,
    Come oscuro il potente, il grande basso,
    Semplice il dotto, e mi par folle il saggio!
    Come vario, ma l’uom sempre vegg’io
    Sotto la scorza dell’Eroe, del Dio!

    XII.

    Ma quale dal vicin secreto bosco
    Soavissimo canto si dischiuse?
    Dolce usignuol, la voce tua conosco,
    Che il suo nettare sempre in me diffuse.
    Sempre io t’amai; tristo è il tuo genio e fosco,
    E te compagno lor dicon le Muse:
    Ebbi genio conforme io pure in sorte,
    Ed entrai giovinetto a quella corte.

    XIII.

    Pera chi al bosco tuo t’invola, e udirti
    Crede rinchiuso in carcere molesto!
    Cantor non compro tra gli allori e i mirti
    Udir ti dee; chè il tuo teatro è questo.
    Solo di terra, e ciel può convenirti
    Tacito aspetto, e dolcemente mesto,
    E libero varcar di ramo in ramo:
    Schiavo, e avvilito alcun veder non amo.

    XIV.

    Tu, benchè l’ombre da presenza rotte
    Non sien di Luna, o d’astro alcun, pur suoli
    Tesser musiche voci, e della Notte
    L’orror più tenebroso orni e consoli.
    Ambo il canto innalziam tra rupi e grotte,
    Paghi, quantunque non uditi e soli:
    Chè non cerca il piacer nell’altrui lode,
    Chi al proprio cor di soddisfar sol gode.

    XV.

    O Notte, antica Deità, che nata
    Sei pria del Sole, e più del Sol vivrai,
    Venerata da me, da me cantata,
    Fin ch’io respiri aura di vita, andrai.
    In quella prima età, chiusa e celata
    Tra un manto oscuro tutto e senza rai,
    Stavi ozïosa, e nel pensoso ingegno
    Volgendo i fasti del vicin tuo regno.

    XVI.

    Poi sorta, e in cocchio d’ebano, frenando
    Sei destrier bruni con la manca mano,
    E con la destra argenteo scettro alzando,
    Regina uscisti fuor dell’Oceàno,
    Coronata di stelle, e dispiegando
    Manto gemmato per l’etereo vano,
    E con impressa nella fronte nera
    La soave di Cintia argentea sfera.

    XVII.

    Salve, gran Dea: te da sue torri onora
    L’osservator d’arcani vetri armato,
    Se mai qualche tua gemma ignota ancora
    Nel velo, o nel crin tuo scoprir gli è dato.
    Ma tutta rimirarti, e tutte a un’ora
    Goder le tue bellezze è a me più grato.
    Notte, de’ vati, e cor teneri amica,
    Coroni il nome tuo la mia fatica.




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