Library / Literary Works

    Pietro Metastasio

    La deliziosa imperial residenza di Schönbrunn

    Come, Euterpe, al tuo Fedele
    come mai la cetra usata,
    polverosa, abbandonata
    or di nuovo ardisci offrir?
    Ch'io la tratti ah speri in vano:
    pronta or più non è la mano
    a rispondere al desir.

    Tempo fu che l'aure intorno
    risonar facesti ardita,
    non dal Nume mal gradita
    che ti accolse, e ti nutrì:
    or a lui sarebbe ingrato
    rauco suon che, mal temprato,
    più non è qual era un dì.

    Di Belfonte il gran recinto
    tu da me vuoi che s'onori,
    che d'eccelsi Abitatori
    scopre il genio, ed il poter:
    io cantarlo! Ah no, perdono:
    i miei pari atti non sono
    tanto peso a sostener.

    Se in mirar mi trema il core
    sol qual sia l'esterno aspetto,
    quanto d'aria il regio tetto,
    quanto ingombri di terren;
    se innoltrarsi osasse il piede
    nell'interna augusta sede,
    che farebbe il core in sen?

    Là la mente creatrice
    tutto il grande, e tutto il bello
    della squadra, e del pennello
    ingegnosa radunò.
    L'arricchì regia larghezza;
    ma il saper della ricchezza
    ogni vanto superò.

    I ricetti luminosi
    passa quindi, e di', se puoi,
    quanto s'offra agli occhi tuoi
    di delizia, e di stupor.
    Di', se a prova in altra parte,
    come qui, natura, ed arte
    quanto può mostrasse ancor.

    Vasto pian, terren sublime,
    chiare fonti, e selve amene,
    vie distinte in varie scene
    ben può quindi ognun scoprir:
    ma non già facondia alcuna
    le bellezze ad una ad una
    ne saprà giammai ridir.

    Ti farà stupida, e muta
    l'immortal mole eminente,
    ch'alto in faccia al Sol cadente
    regio cenno sollevò:
    non formar voci saprai,
    ma in te stessa ammirerai
    chi tant'opra immaginò.

    Là, marmorea emula loggia
    in altezza ai gioghi alpini,
    d'onde agli Ungari confini
    giunge il guardo ammirator,
    fa corona all'ampia fronte
    del frondoso aprico monte,
    degno ben di tanto onor.

    Corron là di balza in balza
    da recondite sorgenti
    acque impide, e ridenti
    vasto pelago a formar:
    dal poter d'arte sagace
    tutto il pian che a lor soggiace
    destinate a rallegrar.

    Scossa poi dal tuo stupore
    se di là volgi le ciglia,
    d'una in altra meraviglia
    porterai dubbiosa il piè:
    nè saprai se questa, o quella
    di più rara, o di più bella
    debba il vento aver da te.

    Se le chiare aperte vie
    d'ordinate annose piante,
    dove stanca il passo errante
    il sorpreso passaggier:
    dove l'occhio adombra, e in vano
    cerca il termine lontano
    su le tracce del pensier.

    O se l'altre opache, e brune,
    dove ogni arbore sublime
    curva docile le cime,
    e fa scudo ai rai del Sol:
    ove scherzan delle fronde,
    quando l'aura le confonde,
    l'ombre tremule nel suol.

    Se i festivi laberinti
    del Meandro imitatori,
    dove il piè va in lieti errori
    libertà cercando in van:
    spesso riede ov'era, e spesso
    par che giunga al varco appresso
    quando più ne va lontan.

    Se in recessi angusti e soli,
    cui la selva asconde, e a cui
    poco esposto al guardo altrui
    guida il comodo sentier:
    ove han grato asilo ombroso
    la stanchezza col riposo,
    l'innocenza col piacer.

    Qual sarà la tua dubbiezza
    nel veder che in faccia al verno
    qui ha Pomona autunno eterno,
    ha qui Flora eterno april:
    che qui mostra industre cura
    quanto sa produr natura
    di più caro, e più gentil.

    Qui non sol de' nostri lidi
    vedrai pesci, augelli, e fiere
    fender l'acque, errare e schiere
    nel bel carcere real;
    ma più d'un calcare il suolo,
    girne a nuoto, alzarsi a volo,
    che straniero ebbe il natal.

    Qui da ignoti augei canori,
    ch'altro ciel nutrir solea,
    imparò l'Eco europea
    nuovi carmi a replicar:
    pesci qui di strane sponde
    le lor vennero in quest'onde
    auree squame ad ostentar.

    Varie diere, e in varie guise
    tutte armate, o pinte il tergo
    tributarie a questo albergo
    l'Asia, e l'Africa mandò:
    che de' pregi, ond'è fecondo
    e l'antico e il nuovo mondo,
    queste piagge a gara ornò.

    Fin dell'arsa Taprobana
    questa or gode aura felice
    la gran belva adoratrice
    della Dea del primo ciel:
    e di Sirio il raggio ammira,
    che, il furor temprando e l'ira,
    tanto meno è qui crudel.

    Bella Euterpe, ah speri in vano
    che sian scorte ai miei pensieri
    quei portenti o finti, o veri
    che la Grecia celebrò:
    niun di quelli, o Musa amica,
    ch'esaltò la fama antica,
    dirsi a questo egual non può.

    Non d'Alcinoo i bei soggiorni,
    gran soggetto a illustri penne,
    dove naufrago pervenne
    l'Itacense pellegrin:
    non di lei l'opre ammirate
    che dell'Asia in su l'Eufrate
    seppe reggere il destin.

    Delle Esperidi Sorelle
    non le piante onuste d'oro,
    che guardò sul lido Moro
    l'incantato difensor:
    non qual altro i pregi agguaglia
    delle Tempe di Tessaglia
    dove Apollo errò pastor.

    No: mancava in altre sponde
    quella Dea che regna in queste,
    e le adorna, e le riveste
    di splendore, e maestà:
    quella Dea ch'ogni alma incanta,
    quella Dea di cui si vanta
    a ragion la nostra età.

    Ma tu ridi ai dubbj miei?
    so perché: stupisci, o Musa,
    ch'io mi scusi, e nella scusa
    già m'affretti ad ubbidir.
    Ah quell'impeto impensato,
    che apre il labbro al canto usato,
    è costume, e non ardir.

    Di quell'Astro è solit'opra
    che qui fausto è sempre a noi,
    che i benigni influssi suoi
    mai non seppe a noi negar:
    che valore all'alma inspira,
    che la muta annosa lira
    e di nuovo risonar.




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