Library / Literary Works

    Luigi Pulci

    Cantare sesto

    Padre nostro che ne’ cieli stai,
    non circunscritto, ma per più amore
    ch’a’ primi effetti di lassù tu hai,
    laudato sia il tuo nome e ’l tuo valore;
    e di tua grazia mi concederai
    tanto ch’io possi finir sanza errore
    la nostra istoria; e però, Padre degno,
    aiuta tu questo affannato ingegno.

    Era il sol, dico, al balcon d’orïente
    e l’Aürora si facea vermiglia
    e da Titon suo antico un poco assente;
    di Giove più non si vedea la figlia,
    quella amorosa stella refulgente,
    che spesso troppo gli amanti scompiglia;
    quando Rinaldo giù calava il monte
    dove era Orlando suo, famoso conte.

    Come egli ebbe veduta la cittade,
    disse a Dodone: - Or puoi veder la terra
    dove è la dama c’ha tanta biltade.
    Vedi che il re Corbante già non erra,
    ch’io veggo di pagan gran quantitade:
    quivi è quel Manfredon che gli fa guerra. -
    Mentre che dice questo, ed Ulivieri
    conobbe Orlando sopra il suo destrieri.

    Vide ch’a spasso con Morgante andava
    e che faceva le genti ordinare
    per la battaglia che s’apparecchiava,
    e già faceva stormenti sonare.
    Ma del gigante ammirazion pigliava
    e cominciollo a Rinaldo a mostrare:
    - Quello è Morgante, e ’l conte Orlando è quello
    ch’è presso a lui: non vedi tu Rondello? -

    Rinaldo, quando vide il suo cugino,
    per gran dolcezza il cor si sentì aprire,
    e disse: - Poi ch’io veggo il paladino,
    contento sono ogni volta morire.
    Or oltre seguirem nostro camino:
    a Carador promesso abbiam di gire;
    tosto sarem con Orlando alle mani
    e con questi altri saracini o cani. -

    Come entrati fur poi drento alle mura,
    domandoron del re subitamente
    dicendo: - Cavalier siàn di ventura,
    dal re Corbante mandati al presente. -
    I terrazzan fuggivan per paura
    di quel lïon, sanza dir lor nïente.
    Rinaldo tanto innanzi cavalcòe
    che in sulla piazza del re capitòe.

    E come e’ furon veduti costoro,
    sùbito fu portata la novella
    dentro al palazzo al gran re Caradoro.
    Rinaldo intanto smontava di sella,
    Ulivieri e Dodon non fe’ dimoro.
    Ognun dintorno di questo favella:
    - Questo debbe esser - dicean - quel barone
    ch’è appellato il guerrier del lïone. -

    Meredïana, ch’era alla finestra,
    fece chiamar sue damigelle presto,
    ché d’ogni gentile atto era maestra;
    fecesi incontra col viso modesto,
    con accoglienza sì leggiadra e destra
    che nessun più non arebbe richiesto
    tra le ninfe di Palla o di Dïana
    che si facessi allor Meredïana.

    Rinaldo, quando vide la donzella,
    tentato fu di farla alla franciosa;
    a Ulivieri in sua lingua favella:
    - Quant’io, non vidi mai più degna cosa! -
    Disse Ulivieri: - E’ non è in cielo stella
    che appetto a lei non fusse tenebrosa. -
    Rinaldo presto rispose: - Io t’ho inteso
    che ’l vecchio foco è spento e ’l nuovo acceso.

    Non chiamerai più forse, come prima,
    la notte sempre e ’l giorno Forisena,
    ch’a ogni passo ne cantavi in rima:
    non sente al capo duol chi ha maggior pena;
    veggo che del tuo amor l’hai posta in cima
    e se’ legato già d’altra catena. -
    Ulivier disse: - S’io vivessi sempre,
    convien sol Forisena il mio cor tempre. -

    Eran saliti già tutta la scala,
    e grande onor da quella ricevuto
    che insino a mezzo gli scaglion giù cala,
    e rendutogli un grato e bel saluto.
    Intanto Caradoro in su la sala
    con tutti i suoi baroni era venuto.
    Rinaldo e gli altri baciaron la mano,
    come è usanza a ogni re pagano.

    Fece ordinar di sùbito vivande
    e’ lor destrier fornir di strame e biada;
    per la città la lor fama si spande,
    e per vedergli assai par che vi vada.
    Venne la cena, e fuvvi altro che ghiande;
    Ulivier pure alla donzella bada.
    Poi che cenato fu, re Caradoro
    in questo modo a dir cominciò loro:

    Io vi dirò, famosi cavalieri,
    quel che ’l mio cor da voi disia e brama.
    Per tutti i nostri paesi e sentieri
    dell’Orïente risuona la fama
    di vostra forza e de’ vostri destrieri,
    e questa è la cagion che qua vi chiama.
    Come vedete, ogni campagna è piena
    di gente qua per darci affanno e pena;

    ed ècci un re famoso, antico e degno,
    che innamorato s’è d’esta mia figlia
    e vuol per forza lei con tutto il regno,
    e molti ha morti della mia famiglia;
    ogni dì truova qualche stran disegno
    per oppressarci, e ’l mio campo scompiglia;
    e per ventura un cavaliere errante
    v’è capitato con un gran gigante:

    con un battaglio in man d’una campana,
    sia che armadura vuol, che ne fa polvere,
    e molti già di mia gente pagana
    ha sfracellati e dato lor che asciolvere;
    ovunque e’ giugne, la percossa è strana:
    non c’è papasso che ne voglia assolvere;
    io il vidi un giorno a un dar col battaglio,
    e ’l capo gli schiacciò come un sonaglio.

    Se con quel cavalier vi desse il core
    a corpo a corpo, ché così combatte,
    e col gigante d’acquistare onore,
    le genti mie non sarebbon disfatte.
    Ed io vi giuro pel mio Dio e Signore,
    s’alcun di voi di questi ignuno abbatte,
    ciò che saprete domandare arete,
    se ben la figlia mia mi chiederete. -

    Era presente a quel Meredïana,
    ed una ricca cotta aveva indosso
    d’un drappo ricco all’usanza pagana,
    fiorito tutto quanto bianco e rosso
    come era il viso di latte e di grana,
    ch’arebbe un cor di marmo ad amar mosso;
    nel petto un ricco smalto e gemme ed oro
    con un rubin che valeva un tesoro,

    ed un carbonchio ricco ancora in testa
    che d’ogni oscura notte facea giorno;
    avea la faccia angelica e modesta
    che riluceva come il sol dintorno.
    Ulivier, quanto guardava più questa
    tanto l’accende più il suo viso adorno,
    e fra suo cor dicea: «Se tu farai
    quel che dicesti, re, tu vincerai».

    Rinaldo vide Ulivier preso al vischio
    un’altra volta, e già tutto impaniato,
    e dicea: «Questo ne vien tosto al fischio»;
    cognobbe il viso già tutto mutato,
    vedeva gli occhi far del bavalischio;
    disse in francioso un motto loro usato:
    - A ogni casa appiccheremo il maio,
    ché come l’asin fai del pentolaio.

    Ma non vagheggi a questa volta come
    solevi in corte far del re Corbante;
    ché se ti piace il bel viso e le chiome,
    piace la spada a costei del suo amante:
    queste son dame in altro modo dome.
    Non c’è più bello amar che nel Levante! -
    Ulivier sospirò nel suo cor forte,
    quasi dicessi: «Sol non amai in corte».

    E ricordossi allor di Forisena
    che del suo cor tenea le chiavi ancora;
    ma non sapeva, omè, della sua pena:
    - Prima consenta il Ciel - dicea - ch’i’ mora,
    che sciolta sia dal cor quella catena
    che sciòr non puossi insino all’ultima ora;
    e se fra’ morti poi vorran gli dèi
    che amar si possi, amerò sempre lei.

    Non si diparte amor sì leggiermente,
    che per conformità nasce di stella:
    dovunque andremo, in Levante o in Ponente,
    amerò sempre Forisena bella,
    però che ’l primo amor troppo è possente;
    non son del petto fuor quelle quadrella
    ch’io non credo che morte ancor trar possa
    prima che cener sia la carne e l’ossa. -

    Lasciam costoro insieme un poco a mensa.
    Aveva alcuna spia re Manfredonio,
    come colui che’ suoi pensier dispensa
    d’aver di ciò che si fa testimonio;
    e poi, chi ama, giorno e notte pensa
    come e’ si tragga l’amoroso conio:
    non si può dir quel ch’un amante faccia
    per ritrovar della dama ogni traccia.

    Detto gli fu come e’ son capitati
    tre cavalier famosi a Caradoro,
    e paion molto arditi e bene armati;
    ma non sapeva alcun de’ nomi loro,
    se non che tutti assai s’eron vantati
    alla sua gente dar molto martoro;
    e ch’egli avevon sotto corridori
    che mai si vide i più belli e maggiori.

    Orlando pose orecchio alle parole:
    «Sarebbe questo Rinaldo d’Amone?».
    Ma poi diceva: «Rinaldo non suole,
    come color dicean, menar lïone».
    Poi disse: - Imbasciador mandar si vuole,
    per uscir fuori d’ogni suspizione,
    a Caradoro, e dirgli così parmi
    ch’io vo’ con questi cavalier provarmi. -

    A Manfredonio piacque il suo parlare
    e sùbito mandorno imbasceria.
    Erano ancor coloro a ragionare;
    Caradoro a Rinaldo si volgìa
    dicendo: - Pro’ baron, che vuoi tu fare? -
    Rinaldo sfavillava tuttavia:
    pargli mill’anni d’esser con Orlando,
    e disse: - Io sono in punto al tuo comando. -

    Ed Ulivier soggiugneva di costa:
    - Del diciannove ognun terrà lo ’nvito,
    e così fate per noi la risposta. -
    (Ah, Ulivieri, amor ti fa sì ardito!)
    - Dite che al campo ne venga a sua posta. -
    Lo imbasciador tornò, ch’aveva udito,
    e disse a Manfredonio: - E’ son contenti,
    e prezzan poco te colle tue genti.

    E’ mi pareva, a guardàgli nel volto,
    che tra lor fussi del combatter gaggio,
    ch’ognun pel primo volessi esser tolto:
    tanto fier si mostravan nel visaggio. -
    Rispose Orlando: - E’ non passerà molto
    che parleranno d’un altro linguaggio. -
    Disse Morgante: - Io vo’ con un fuscello
    di tutti a tre costor fare un fardello,

    e vòmegli alla cintola appiccare:
    lascia pur ch’egli assaggino il metallo
    e ch’io cominci un poco a battagliare.
    Che penson di venir costoro, al ballo?
    Or oltre, io vo’ col battaglio sonare
    perché e’ non faccin gli scambietti in fallo. -
    Ma in questo tempo Rinaldo era armato
    e dal re Caradoro accomiatato;

    ed avea fatte cose in su la piazza
    che ’l popol n’avea avuta maraviglia:
    di terra collo scudo e la corazza
    saltato in sella e pigliata la briglia.
    Carador disse: - Questa è buona razza. -
    E molto lieta si fece la figlia,
    ch’era venuta per diletto fore,
    a vedergli montare a corridore;

    ed avea prima aiutato Ulivieri
    armar, che molto di questo gli giova,
    e saltato di netto è in sul destrieri
    e fatto innanzi alla dama ogni pruova
    che far potessi nessun cavalieri;
    e Dodone anco nel montar non cova:
    ognun di terra a caval si gittòe,
    e tutto il popol se ne rallegròe.

    Aveva fatti tre salti Baiardo
    ch’ognun fu misurato cento braccia,
    tanto fiero era, animoso e gagliardo;
    ed Ulivier, perché alla dama piaccia,
    di Vegliantin faceva un leopardo;
    Dodon al suo gli spron ne’ fianchi caccia;
    e finalmente dal re Caradoro
    a lanci e salti si partîr costoro.

    Poi che furono usciti della porta,
    fino alle sbarre del campo n’andorno.
    Rinaldo tanta allegrezza lo porta
    che cominciò a sonar per festa un corno.
    Fu la novella a Manfredon rappôrta;
    Orlando presto e Morgante n’andorno
    dove aspettavan questi tre baroni,
    e salutorno in saracin sermoni.

    Non ricognobbe Orlando il suo cugino,
    perché Baiardo è tutto covertato
    e lui parlava al modo saracino;
    vide il lïone, e molto ha biasimato:
    - Non è costume di buon paladino
    aver questo animal seco menato:
    non doverresti a gnun modo menarlo;
    per carità degli uomini ti parlo. -

    Disse Rinaldo: - Buon predicatore
    saresti, poi ch’hai tanta carità.
    Non ti bisogna aver questo timore:
    nel tuo parlar si dimostra viltà.
    Se tu sapessi, baron di valore,
    per quel ch’io il meno ed ogni sua bontà,
    non parleresti in cotesto sermone:
    sappi che ignun non offende il lïone,

    se non chi a torto quistion meco piglia
    ovver chi fussi traditor perfetto. -
    Il conte Orlando ha seco maraviglia;
    poi gli rispose: - Vegnamo all’effetto:
    se vuoi combatter sanz’altra famiglia
    a corpo a corpo, mettiti in assetto;
    ché in altro modo combatter non voglio.
    Farò di te come degli altri soglio. -

    Disse Dodon: - Tu sarai forse errato. -
    Il gigante gli fece la risposta:
    - Tu non cognosci il mio signor pregiato,
    però facesti sì strana proposta.
    Io non son come tu, barone, armato,
    e proverrommi con teco a tua posta. -
    Dodone allora pazienzia non ebbe,
    e pure stato il miglior suo sarebbe.

    La lancia abbassa con molta superba
    e percosse Morgante in su la spalla:
    e’ si pensò traboccarlo in su l’erba;
    Morgante non lo stima una farfalla,
    ed appiccògli una nespola acerba,
    tanto che tutto pel colpo traballa;
    e come e’ vide balenar Dodone,
    se gli accostava e trassel dell’arcione.

    Al padiglion ne lo porta il gigante;
    a Manfredonio Dodon presentava.
    Manfredon rise veggendo Morgante,
    e per Macon d’impiccarlo giurava.
    Morgante indrieto volgeva le piante,
    torna a Orlando ch’al campo aspettava.
    Rinaldo irato a Orlando dicìa:
    - Io ti farò, cavalier, villania.

    Aspettami, se vuoi, tanto ch’io vada
    a qualche cosa a legar quel lïone,
    poi proverremo e la lancia e la spada
    per quel ch’ha fatto il gigante ghiottone. -
    Rispose Orlando: - Fa’ come t’aggrada,
    o lancia o spada, a cavallo o pedone. -
    Rinaldo smonta e la bestia legava,
    poi verso Orlando in tal modo parlava:

    Non potrai nulla del lïon più dire.
    Oltre, provianci colle lance in mano:
    vedren se, come mostri, hai tanto ardire,
    ché ’l can che morde non abbaia invano. -
    Volse il destrier per tornarlo a ferire:
    Orlando al suo Rondel gira la mano,
    del campo prese e con molta tempesta
    si volse indrieto colla lancia in resta.

    Non domandar quel che facea Baiardo,
    con quanta furia spacciava il cammino;
    e Rondello anco non pareva tardo,
    anzi pareva quel dì Vegliantino.
    Rinaldo aveva al bisogno riguardo
    dove e’ ponessi la lancia al cugino;
    ma cognosceva ch’egli è tanto forte
    che pericol non v’è di dargli morte.

    A mezzo il petto la lancia appiccòe;
    Orlando ferì lui similemente,
    e l’una e l’altra lancia in aria andòe:
    non si cognosce vantaggio nïente;
    e l’uno e l’altro destrier s’accosciòe
    e cadde in terra pel colpo possente;
    tanto che fuor della sella saltorno
    i due baroni, e le spade impugnorno.

    E comincioron sì fiera battaglia
    che far comparazion non si può a quella;
    perché Frusberta e Cortana anco taglia,
    e ’l suo signor, che con essa impennella,
    disaminava e la piastra e la maglia.
    Rinaldo sempre all’elmetto martella,
    perché e’ sapeva ch’egli è d’acciaio fino,
    ché fu d’Almonte nobil saracino.

    Pur nondimen si voleva aiutare,
    però che Orlando vedea riscaldato,
    e cognosceva quel che sapea fare
    il suo cugin, quand’egli era adirato.
    Ma Cristo volle un miracol mostrare
    acciò che ignun di lor non abbi errato;
    e perché de’ suoi amici si ricorda,
    il fer lïone spezzava la corda.

    Venne a Rinaldo, ed Orlando dicìa:
    - Per Dio, baron, di te mi maraviglio:
    questa mi par da chiamar villania.
    Ma questa volta non hai buon consiglio,
    ché a te e lui caverò la pazzia. -
    Rinaldo indrieto volgea presto il ciglio:
    vide il lïone e funne mal contento,
    e cominciò questo ragionamento:

    Aspetta, cavalier, tanto ch’io possi
    questo lïon rimenar alla terra.
    La mia intenzion non fu, quand’io mi mossi,
    di venir qui col lïone a far guerra. -
    Rispose Orlando: - Qual cagion si fossi
    non so, ma infine è l’errato chi erra:
    s’io ti volessi guastare il lïone,
    guarda battaglio che ha quel compagnone. -

    Disse Rinaldo: - Noi farem ritorno,
    tu al tuo re ed io nella cittade;
    e domattina, come scocca il giorno,
    ritornerò per la mia lealtade,
    e chiamerotti, com’io fe’, col corno
    e proverremo chi arà più bontade:
    questo di grazia, baron, ti domando. -
    Tanto che fu contento il conte Orlando.

    E torna con Morgante al padiglione
    e per la via si doleva con quello,
    e dice: - Maladetto sia il lïone!
    S’avessi Vegliantin come ho Rondello,
    partito non saria questo barone;
    o segnato l’arei del mio suggello,
    s’avessi la mia spada Durlindana. -
    E duolsi assai ch’egli aveva Cortana.

    Ulivieri e ’l signor di Montalbano
    si ritornoron verso la cittate.
    Or ritorniamo al traditor di Gano
    ch’avea per molte parte spie mandate;
    ed ecco un messaggiero a mano a mano
    a Carador con letter suggellate;
    e per ventura al marchese s’accosta
    dicendo: - In cortesia, fammi risposta.

    Come si chiama la terra e ’l paese
    e ’l suo signor, se Dio ti dia conforto?
    Io ho paura indarno avere spese
    le mie giornate e di scambiare il porto. -
    A lui rispose il famoso marchese:
    - Alla domanda tua non vo’ far torto:
    non so il paese come sia chiamato,
    ma il suo signor ti sarà ricordato.

    Sappi che il re si chiama Caradoro
    e la figliuola sua Meredïana:
    per lei tal guerra ci fanno coloro
    che tu vedi alloggiati alla fiumana. -
    Disse la spia: - Macon ti dia ristoro
    e guardi sempre d’ogni morte strana. -
    E finalmente al palazzo n’andòe
    a Caradoro, e da parte il chiamòe.

    Disse: - Macon ti dia gioconda vita.
    Io son messaggio di Gan di Maganza,
    e quand’io feci da lui dipartita,
    questo brieve mi diè, ch’è d’importanza:
    vedi la ’mpronta sua qui stabilita
    perché tu abbi del fatto certanza. -
    Carador ricognobbe quel suggello
    del conte Gan, traditor crudo e fello.

    La lettera apre e ’l suo tenore intese.
    La lettera dicea: «Caro signore,
    sappi, re Carador, quel ch’è palese:
    che venuto è Rinaldo traditore
    nella tua terra e nel tuo bel paese:
    io te n’avviso, ch’io ti porto amore;
    e seco ha Ulivier, che è uom di razza,
    col suo compagno Dodon della mazza.

    E nel campo è di Manfredonio Orlando,
    e l’un dell’altro ben debbe sapere;
    e so che tutti a due vanno cercando,
    o Carador, di farti dispiacere:
    vengonvi insieme alla mazza guidando;
    quanto fia tempo, vel faran vedere.
    Non piace al nostro re qua tradimento,
    però ch’io ti scrivessi fu contento.

    Ed ha con seco menato un gigante
    che, se s’accosta un giorno alle tue mura,
    e’ le farebbe tremar tutte quante.
    Abbi del regno e di tua gente cura;
    e’ son cristiani, e tu se’ affricante;
    guarda che danno non abbi e paura,
    ché so ch’alfin n’arai da molte bande.
    Or tu se’ savio e intendi, e ’l mondo è grande».

    Era quel re pien d’alta gentilezza
    e ben cognobbe ciò che Gan dicea:
    fece pigliarlo con molta prestezza.
    In questo tempo Rinaldo giugnea,
    ed ogni cosa con lui raccapezza,
    ed in sua man la lettera ponea
    e d’Ulivier, ch’è nella sua presenzia,
    per dimostrare ogni magnificenzia.

    Quando Rinaldo intese quel ch’è scritto,
    ringrazia il suo Gesù con sommo effetto;
    a Ulivier si volse tutto afflitto;
    disse: - Tu vedi quel che Gano ha detto. -
    La damigella tenea l’occhio dritto:
    quando sentì che ’l suo amante perfetto
    era Ulivier che tanta fama avia
    non domandar quanto gaudio sentia.

    E poi mandò nel campo un messaggiere
    al conte Orlando, e in questo modo scrisse:
    «Poi ch’abbiam fatto triegua, cavaliere,
    acciò che grande inganno non seguisse,
    contento sia di venirmi a vedere
    alla città sicuramente», disse:
    «cose udirai che ne sarai poi lieto;
    ma sopra tutto sia presto e secreto».

    Il messaggiero Orlando ritrovava,
    che si chiamava nel campo Brunoro;
    segretamente la lettera dava.
    Orlando lesse, e sanza più dimoro
    a Manfredon la lettera mostrava.
    Manfredon disse: - Forse Caradoro
    potrebbe qualche inganno fabricare,
    e quel baron tel vorrà rivelare:

    mentre che è triegua, va’ sicuramente.
    Chi sa chi sia quel guerrier del lïone?
    Pel mondo attorno va di strane gente.
    Io ti conforto d’andarvi, barone. -
    Morgante a ogni cosa era presente,
    e disse: - Forse ch’egli ha del fellone:
    egli ebbe voglia insino oggi di dirti
    qualche trattato, e ’l suo segreto aprirti.

    Io vo’ con teco alla terra venire,
    che non ci fussi qualche inganno doppio,
    e in ogni modo con teco morire;
    e insin del campo udirete lo scoppio,
    se col battaglio s’avessi a colpire:
    perché, se bene ogni cosa raccoppio,
    di chieder triegua e tornarsi oggi drento
    segno mi par di qualche tradimento. -

    Alla città n’andorno finalmente.
    Rinaldo immaginò la lor venuta:
    fecesi incontro al suo cugin possente,
    e giunto appresso, in francioso saluta.
    Orlando rispondea cortesemente
    quel che gli parve risposta dovuta;
    e pur parlava come saracino,
    ché non cognosce il suo caro cugino.

    Dicea Rinaldo: - A Caradoro andremo,
    se non ti fussi, cavalier, disagio. -
    Orlando disse: - A tuo modo faremo,
    ché di piacerti mi sarà sempre agio. -
    Disse Morgante: - Andate, noi verremo. -
    E finalmente n’andorno al palagio.
    Rinaldo a Carador gli rappresenta,
    perché e’ voleva che ogni cosa senta.

    Re Caradoro, quando Orlando vede,
    tosto della sua sedia s’è levato;
    Orlando gli volea baciare il piede,
    ma Carador l’ha per la man pigliato;
    disse: - Macone abbi di te merzede.
    Il tuo venir m’è troppo, baron, grato,
    per veder quel che non ha pari al mondo
    come se’ tu, Brunor, baron giocondo. -

    Meredïana, quando fu in presenzia
    d’Orlando, sospirò la damigella.
    Orlando prese di questo temenzia;
    verso la dama in tal modo favella:
    - Are’ti io fatto oltraggio o vïolenzia,
    che tu sospiri sì? Dimmel, donzella. -
    E ricordossi ben di Lïonetto,
    tanto ch’egli ebbe al principio sospetto.

    Disse la dama: - Tu m’innamorasti
    quel dì che insieme provamo la lancia
    e con quel colpo l’elmo mi cavasti,
    tanto che ancor n’arrossisco la guancia,
    e questa treccia tutta scompigliasti
    come se fussi un paladin di Francia;
    poi mi dicesti: «Tórnati alla terra,
    ché con le dame non venni a far guerra».

    Questo mi parve un atto sì gentile
    che bastere’ che fussi stato Orlando:
    tu disprezzasti una femina vile:
    per questo venni così sospirando. -
    Orlando è corbacchion di campanile
    e non si venne per questo mutando;
    e disse a Carador: - Séguita avante
    quel che vuoi dir dopo mie lode tante. -

    Carador disse: - Tu lo intenderai
    da questo cavalier che t’ha menato. -
    E disse al prenze: - Tu comincerai
    a dir perché per lui fussi mandato. -
    Ma tu, Signor, che i sempiterni rai
    governi, e reggi il bel cielo stellato,
    grazia mi dona che nel dir seguente
    segua la storia ch’io lascio al presente.




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