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    Mario Rapisardi

    Comizio di pace

    Quieta alla riva del fervido mare
    L’immensa pianura nel vespro si stende;
    Nel ciel di viole vermiglia si accende
    A specchio dell’onde la faccia lunare.

    Dai fiori di loto socchiusi alla brezza
    Vaporano brame di mondi ignorati;
    Siccome compresi d’un’intima ebbrezza
    Nell’ampio silenzio s’addormono i prati.

    Ed ecco dai flutti che lividi e torti,
    Quai mucchj di serpi, tormentan la riva,
    Su fragili barche molteplice arriva
    Con lieto susurro la turba dei morti.

    Da ville fastose, da inospiti glebe,
    Di voci diversa, d’età, di sembiante,
    Mancipj e tiranni, filosofi e plebe,
    Qui tutta conviene la folla esulante.

    Non cupida sete, non fame delira,
    Non ansia sleale di acquisti maligni,
    Ma un èmpito strano di sensi benigni,
    Ma un acre bisogno di pace li attira.

    Concordi nel vago pensiere, le membra
    Diafane adagian sull’erbe odorose,
    E intonano un canto, che il fremito sembra
    Che al torbido Enigma sollevan le cose:

    « O fiore, che in cima dell’alte ruine
    Cresciuto di pianto t’inalzi a le stelle,
    O sogno divino dell’anime belle,
    O candida Pace, sei nostra alla fine!

    A te fra le spire de’ draghi tenaci,
    Che annebbian col fiato la mente a’più prodi,
    A te fra le pugne di gloria feraci,
    Fra gl’idoli orditi di splendide frodi,

    Dal muto cenobio, dal fòro solenne,
    Dall’avida reggia, dal pio casolare,
    A te da la valle, dal monte, dal mare
    L’umano pensiere lingueggia perenne:

    Perenne lingueggia qual fiaccola, accesa
    Da un fulmine forse nell’ombra remota,
    Che ognor di sè stessa si ciba, ed illesa
    Traversa avvivando la tenebra ignota.

    Indarno? E chi il dice? Dell’arduo mistero
    Qual magica verga spezzato ha la chiostra?
    Al mar, che di sangue perpetuo s’innostra,
    Qual braccio ha rapito la coppa del Vero?

    Dell’opera ingrata che gli animi lima,
    Del torvo conflitto di stolti e di rei,
    O stella che sorgi dell’essere in cima,
    O candida Pace, tu il premio ben sei.

    Tu buona ci saldi le piaghe profonde,
    Che il ferro ci aperse d’un perfido iddio:
    Un’aura di blando perdono e d’oblio
    La rosea tua bocca nell’anime infonde.

    Tu, cinta alle chiome ghirlanda gradita
    Di bruni giacinti, di bianchi asfodeli,
    Dall’empie gorgoni, che impietran la vita,
    Nel nitido e fresco tuo peplo ne celi.

    Divina! e sei nostra. La sponda felice
    Che albeggia a’ tuoi miti crepuscoli è questa;
    De’ liberi ingegni qui suona la festa,
    Qui l’opra si compie di Nemesi ultrice.

    Discordia qui spegne la face fumosa,
    Qui l’irte battaglie de’miseri han tregua;
    La dolce Eguaglianza dall’urna pietosa
    Qui l’onda riversa che ogni ordine adegua.

    O fiore, che in cima dell’alte ruine
    Cresciuto di pianto t’inalzi a le stelle,
    O sogno divino dell’anime belle,
    O splendida Pace, sei nostra alla fine! »


    1895




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