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    Mario Rapisardi

    A Dante

    Poi che dal nido antico
    In bando ti cacciò la parte avversa,
    E quattro lustri indarno,
    Ramingando magnanimo e mendico
    Per le tinte di sangue itale prode,
    Invocasti l’amico
    Sorridere degli astri e la diversa
    Di profumi e di fior sponda de l’Arno,
    Teco venía secreta
    L’itala Musa, o primo
    Del futuro d’Italia astro e profeta;
    E allor che più da l’imo
    Cor la vigil sentivi ira rompente
    E scolorarsi i sogni e l’ardimento
    De lo spirto sdegnoso, ella venía
    A incorarti col canto i giorni mesti,
    Ed il desío longanime e bollente
    Con la speranza e l’avvenir lenía.

    Disingannato e stanco
    Di sì lunghi fraterni odi e dolori,
    Onde questa deserta itala donna
    Lacerato e gemente
    Dimostrò lungamente il petto e il fianco
    Ed infusi di fango i primi allori,
    Pellegrin novo e solo
    Da questo aer corrotto ai primi veri.
    Del presago pensier levasti il volo,
    Ardimento immortal. Siccome larve
    Dileguar ti fu visto al novo lume
    Del ciel le fiere e tante
    Sanguinose e cozzanti itale insegne,
    Precipitar da l’usurpate sedi
    Turba di regi e di levíti avari
    Che irta discordia avean nei petti accesa,
    E troni infranti e rovesciati altari,
    Da cui Giustizia e Dio moveano in bando,
    E al lontano orizzonte
    Sorger sul Campidoglio
    Una sola bandiera, un tempio, un soglio.

    Or che la presagita,
    Dopo lunga d’affanni aspra fortuna,
    Ora a noi sorge, se di noi pur serbi
    Da la luce ove sei memoria alcuna,
    Se di nostr’armi gloriosa il suono
    Fino a te si levò, benchè terrena
    Gloria in faccia alla tua sia polve ed ombra,
    Vieni a mirar costei
    Che, battezzata nella tua parola,
    Scote il mesto sudario e il brando cinge;
    E riaccesa l’itala saetta
    A la mortal tenzone
    Rugge de l’Alpe minacciata in vetta
    L’allobrogo leone.

    Sopra cocchio fulmineo e in viso ardente
    Dei ridestati lampi
    Dal pian lombardo a la sicana sponda
    Scorre stridendo l’itala vendetta;
    Sui combattuti campi
    Passa la Morte sibilando e ingombra
    D’ammucchiati cadaveri nemici
    Ai vincitori il varco;
    Siede Vittoria all’ombra
    Dei nuovi lauri del sabaudo trono,
    E nell’immense braccia
    Le partite città Concordia abbraccia.

    Padre, sul fronte ardito
    De la rinata prole
    Rinnovata or non è d’Ausonia il serto?
    Splender non vedi il sole
    Entro ai lor occhi e di Quirino il foco?
    Dal più rimoto loco
    Mover vedi ciascun devotamente
    A baciar la tua sponda
    E a deporre al tuo piè le sue corone,
    Onde, o padre, tu sei la prima fronda.
    Così soleva il giovinetto Argivo
    Vittorioso dell’elèo cimento
    Al genitor canuto
    Superbo rassegnar l’inclito ulivo,
    Ed era intorno a lui lungo saluto
    Di gareggianti carmi.
    Sorgon dai sacri marmi
    Ove dormìr lunghi anni in Santa Croce
    I magnanimi spirti,
    Ripetendo il tuo nome ad una voce;
    Da l’iperboreo nido
    Leva pauroso la squallida faccia
    II domato stranier, chè il novo e santo
    Di speranze e d’amori italo grido
    Gli par voce d’oltraggio e di minaccia.

    Ma a l’italo banchetto
    Propizianti non vedrai due sole
    Su la cui fronte pensierosa e mesta
    Nullo raggio ancor manda il nostro sole.
    E, mentre ornate a festa
    Convengono a libar l’itale suore,
    Sui tuoi memori colli,
    O sposa di Quirin, siede il dolore;
    E, di cipresso cinta e in veste bruna,
    La violata sposalizie antica
    Piange Venezia da la sua laguna.

    Pur del tuo sdegno il fulmine su noi,
    Padre, non piombi ancora,
    Chè in noi, benchè repressa, ira non dorme;
    Nè vi sdegnate, o voi
    Del Tirreno e de l’Adria esuli mesti,
    Cui non è dato incoronar la prora
    Del novo italo mirto,
    E pellegrin con voi recate il santo
    Penate a queste etrusche ospiti mura,
    Ove agli accolti eroi
    Sarà stille di foco il vostro pianto.

    E già del gran mattino
    Feconda aura commove Adige e Tebro;
    Su le fuggenti nubi io veggio, o parmi,
    L’Aquila di Quirino;
    Per ogni loco io sento
    Scalpitar di cavalli e fragor d’armi:
    Ecco Furio, ecco Bruto, ecco le cento
    Legioni di Roma, ecco son carchi
    D’ostili spoglie i trionfanti carri,
    Ecco avvinti i monarchi
    A la ruota de l’itala fortuna.
    Sorgi, mio Genio, e a’ prodi
    Leva, chè teco è un Dio,
    Su le corde tebane itali modi.

    Caggia l’inauspicato
    Giorno dal tempo, che sui nostri petti
    De la mesta Reina oblio s’assida
    Ed il mavorzio alloro
    Non verdeggi di nuovo ai còlli eterni,
    E fra’ plausi fraterni
    Di votive corone inghirlandato
    Alle nozze non torni il Bucintoro;
    Caggia quel dì che l’italo soldato,
    Come timor di strana ira lo sprona.
    Fulmini i nostri voli
    E brutti inesorato
    Del miglior sangue l’itala corona!

    Tu, se vedrai su l’Arno
    Addormentarsi l’itala vendetta
    E fremer l’ira in pochi petti indarno,
    Pria che sui clivi profumati e molli
    L’aquila scordi la tarpea saetta,
    Sveglia, o padre, il temuto estro possente
    E come turbo investa
    I codardi d’Ausonia e i traditori;
    Fra gli obliati allori
    Caccia a Italia la destra, e il regio serto
    Sfrondale in su le chiome,
    Onde, se alfin si desta,
    Di sè stessa vergogni e del suo nome!


    Aprile 1865.




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