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    Mario Rapisardi

    L'Empedocle

    IDILLIO

    Ben che umano l’aspetto e non diverso
    Dall’umana progenie abbia il costume,
    E veramente come ogn’altro io cibi
    Della terra le frutta, e la digesta
    Dape alla gleba, che sen giova, io renda,
    Pur tra voi, piccioletti uomini, esente
    Di morte e mai non generato io vivo:
    Chè tal davvero io son, quando nè stilla
    Di genitale umore, il desioso
    Germe nel femminil solco intridendo,
    Mi dispose al natal, nè con languenti
    Palpebre mai la fuggitiva luce
    Invocherò. Me (così muti in meglio
    Questa di colpe e di dolor nutrita
    Lacrimevole stirpe!) il sempre puro
    Etera concreò; me con benigna
    Temperie l’acqua onnifeconda emise,
    Quando fra mare e cielo erano ancora
    Confusi i dritti, e le immature glebe
    S’ammontavano pigre all’onde in seno.
    Non di pensanti allor, non d’animali
    Razze pascean la fruttuosa luce,
    Non alberi, non erbe, infin ch’io primo
    Vegetal seme in su la terra eruppi,
    In molli strati mi distesi, in alti
    Rami m’attorsi, e per immemorati
    Tramutamenti conquistando il moto,
    Come il senso da poi, fuor degli acquosi
    Baratri al Sol più temperato emersi.
    Me non conscio vibrar, me guizzar vide
    L’onda immensa da pria, me per le inferme
    Ripe reper la terra alma; a vicenda
    Correr duplice mostro il flutto e il lido.
    Snodar le spire sinuose e tendere
    Le pinne audaci ad usurpar le alture;
    Poi di salde ossa e d’acri nervi instrutto,
    Qual nave capovolta, imprimer l’erbe
    Di quattro orme ad un tempo, e nei muscosi
    Spechi gl’impauriti echi svegliando,
    Contendere ai men forti il covo e il cibo.
    Così, di forma in forma infatigato
    Peregrinando, all’uman grado ascesi,
    Non ultimo per fermo; e guida e legge
    M’ era un cieco voler, che per gl’immani
    Spazi diversamente il tutto incalza:
    Voler cieco da pria, che a mano a mano
    Si disvela a sè stesso, e ne’ profondi
    Organi si raccoglie e si ripete,
    Quale in mar fortunoso occhio di stella
    Or sì or no dove si spiana il flutto.
    Indi gli antri, indi i laghi ebber le tracce
    De’ miei dolori e dell’industrie mie;
    Indi al fragore di selvagge caccie,
    Onde già primamente inorridirò
    Di vivo sangue le foreste (ed ahi,
    Sangue solo di belve esso non era!)
    Il martellar metallico successe
    Per le montagne investigate e il lampo
    Delle falci tra’ solchi al sole aperti
    E il baccar ebbro tra ’l fervido mosto,
    Dator d’oblio caro ai mortali. Un suono
    D’ingegnose fatiche e d’innocenti
    Sollazzi, indicio di men fiero stato,
    Corse pe’ campi arati, e nel gran core
    Della Terra una gioja alta sorrise.
    Per murate castella e popolose
    Città quindi mi avvolsi, utili norme
    Persuadendo agli aspri uomini ed uso
    Di mutui dritti ed alleanze ed arti;
    E, poi ch’ ebbi di tutto esperienza.
    Tutto il mondo in me porto, e gli ordinati
    Ricordi a voi, tristi mortali, apprendo:
    Benchè saper di vane pompe ignudo
    Non sempre accetto a ixìzzi animi arrivi.
    Ma svelare a’ ritrosi utili veri
    Dover primo è del saggio; e chi di bieca
    Plebe, a gloria del Ver, l’ire non sfida,
    E chiusa in cor la verità si serba,
    Sordid’uomo il puoi dir, che l’oro accolto
    Veglia tremando, mentre a lui dintorno
    Affamato in tumulto il popol freme.
    Poichè, per l’aria e l’acqua e il foco e questa
    Terra, onde il grano s’alimenta, io giuro,
    Non d’occulte dottrine e d’intricati
    Filosofemi il vostro animo ha d’uopo.
    Anzi solo d’amore; e chi d’Amore
    Meglio intenda la legge e a lei s’inchini,
    Quegli è savio e beato: apriche e nude
    Splendono agli occhi suoi tutte le cose,
    Della scienza attinge il sommo, e i letti
    D’Iside, sposo innamorato, ascende.
    Nè perchè l’ Odio impetuoso irrompa
    In tra le corde dell’eterea cetra,
    E ne renda, ahi sì spesso, il suon discorde,
    Filo alcuno ei ne frange. Oh sciagurato
    Chi la fugace dissonanza accoglie
    Nella torbida mente, e dell’altrui
    Vita, qual ch’essa sia, la legge invade!
    L’armonia turba un tratto, ed orgoglioso
    Gavazza; ma su lei Nemesi piomba,
    E sotto al piede adamantino il preme.
    Nè chi dell’uom soltanto usurpa il dritto,
    Ovvia ha l’ira del ciel; ma chi per bieca
    Fede, a onor d’insensati idoli, bagna
    Di ferin sangue i vaporati altari,
    E chi non da bisogno orrido astretto.
    Ma per fiero costume insegue a morte
    Le innocue razze, o sia che di vellute
    Pelli d’agili piume o di squammose
    Scaglie protette, in prato, in bosco, in onda
    Traggan la vita ignara, alle sue case
    Non isperi benigna Iside mai.
    Non a se, non a’ suoi, però che in cura
    Sono a lei tutte le viventi cose.
    Nè patisce che impune un uom mortale
    Lutti rechi ed esizio a cui gioconde
    Nozze e libera pace ella concesse.
    Lacrimabil Fenice egli dal rogo
    Illacrimato sorgerà, non gli alti
    Regni del sole a spaziar, ma in sozzo
    Corpo di bruto ad abitar dannato.
    Gli strazj patirà che il dente ingordo
    Del vulgo e il crudo pueril talento
    Ai bruti inermi spensierato infligge.
    Parimenti colui che per abjetta
    Smania di lucro o per litigj i sacri
    Boschi col ferro e con la fiamma insulta,
    ameni arbusti e frondi ombrose e fiori,
    Ridenti occhi dei prati, in empia guisa
    Scerpa, sparge, conculca, infruttuosa
    Rivivrà pianta in selva, e da villana
    Mano all’acre stagion sterpata e guasta.
    Nutrirà di sue membra palpitanti
    Plebee fornaci e signorili alari.
    Ma chi la legge della vita e i dritti
    Delle specie rispetta, ordine e stato
    Non solo in meglio cangerà, ma forma
    Vieppiù leggiadra a più bei sensi adatta
    E più pura sostanza e in più capace
    Mente idee sovrumane avrà in retaggio,
    Finchè di sfera in sfera indi sorgendo,
    Giungerà là dove ignoranza e morte
    E vecchiezza e dolor son mostri ignoti.
    Questo, questo sol un (così le vostre
    Menti illumini appieno il detto mio! )
    Col mio tutto soffrente animo in tanto
    Peregrinar di cosa in cosa appresi,
    E questo a’ vostri egri intelletti io reco
    Ospitai dono, or che tra voi mi aggiro
    L’ultima volta, e sorgere all’eccelsa
    Regíon la redenta alma si appresta.
    Nè mattutino sogno o consueto
    Carme di Proteo in sul meriggio estorto
    Rivelato ebbe a me l’occulta trama
    Dell’umano destin (meravigliosa
    Storia e pur vera a’ vostri orecchi io fido)
    Ma quel desso che tutto anima, il primo
    Di tutti i numi e il solo eterno. Amore.
    Di giovinetto mandriano in vista
    Mi s’offerse egli un dì, mentre alla riva
    D’Acraganto io sedea, famoso fiume
    Che a famosa città dà nome ed acque,
    E a cui nato m’estima il popol folle.
    Sol perchè primamente ivi in sembianza
    D’uom nutrito di pane errar mi vide.
    Pensieroso io figgea l’occhio ne’ biondi
    Flutti, e quasi da un fascino rapita
    L’ anima mia per la volubil china
    Trascorrea trascorrea languidamente
    Al mar che ondeggia e mormoreggia eterno,
    Paga di profondarsi entro l’abisso,
    Pur di rapire il vero ultimo ai ciechi
    Visceri dell’Enigma. Una parola
    Misteriosa bisbigliavan l’erbe
    Tremule al vento in su’ corrosi greti;
    Una parola si dicean tra’ rami
    Gli augelletti felici, aeree cimbe
    Che il cielo importuoso in lieti cori
    Solcano cinguettando; i monti azzurri.
    Le selve in fiore, i prati palpitanti
    Al bacio della rosea Primavera
    Si scambiavano all’aure una parola,
    Ch’era da ognun, fuor che da me, compresa.
    Pur dalle tempie mie pendea la sacra
    Infola; al mio passar, quale ad un dio,
    S’inchinavano popoli e monarchi,
    Mentre di terra in terra alto cantando
    Gloriava la Fama il saper mio,
    E s’ergeano le menti de’ mortali.
    Come dorici templi, ad onorarmi!
    Dispettoso mi volsi, e al giovinetto.
    Che fatto erasi intanto a me da presso,
    E di sottecchi con amabil ghigno
    Mi sguardava e tacea, non senza un qualche
    Stupore m’affisai, però che fuori
    D’ ogni costume pastoral, di tanto
    Grazioso decoro ardea negli atti
    E più nell’ineffabile sorriso,
    Che tutta intorno a lui d’iridi accesa
    La trepid’aura radiar parea.
    A me lo trassi con un cenno; sopra
    L’eburno e ben tornito omero, quasi
    A un dolce nato mio, posi la destra;
    E mentre il roseo collo e il ricciutello
    Capo io gli andava carezzando, e vaghe
    Dimande gli movea, nulla badando
    A carezze, a richieste, ei con la punta
    Di un suo virgulto su la bionda arena
    Scrisse e guardommi sorridente: Amore.
    Mai così non mutò magica verga
    Del ciel l’aspetto e della terra, come
    Diversa a un punto alla mia vista apparve
    La sembianza non pur, ma la natura
    Intima delle cose: un sentimento
    Novo acquistar l’aria, la terra e l’acque.
    Come se tutto in lor fosse trasfuso
    Quell’arcano potere, onde il venusto
    Garzon segnato avea pur ora il nome.
    Degli augelli, de’ fior, delle montagne
    La voce occulta allor compresi; il verbo
    Della vita fu mio; l’immensa luce
    Del Sol m’entrò per le pupille in core.
    Tetro baratro un tempo, or luminosa
    Pagina, in cui dell’universo in chiare
    Note la storia ed il destino io leggo.
    Trasfigurato intanto erasi al mio
    Sguardo il mirabil giovinetto, e quasi
    Dilatandosi all’aere sorgea,
    Finchè del capo il cielo ultimo attinto.
    Tutti occupò gl’immensi spazj, e fuse
    Nell’infinito suo splendore il mondo.


    1892




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