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    Nicola Sole

    Al mare Jonio

    I

    Bella, o classico mare, è la celeste
    Volta che t’incolora; o il suo più fosco
    Antelucano azzurro entro i tuoi brevi
    Seni rifletta, o le tue limpid’acque
    De la sua luce declinante irrighi,
    Bella, o classico mare, è la celeste
    Volta che t’incolora. Ove più cupo
    Sona il pianto di Scilla, ove solingo
    Di Leuca il capo sovra l’onde avvalla
    La tremula penombra e tu componi
    Le correnti de l’Adria e le Tirrene,
    Volsi la prua notturno; e a l’incessante
    Palpito invitto de’ fraterni mari
    In lungo amplesso quïetanti, il carme
    Volò fremendo sovra l’acque!

    II

    Io solco,
    Jonio, le tue pianure. Alta sul mondo
    Dorme la notte: pel tuo curvo lido
    I fochi de’ casali ardon remoti,
    Come stelle lucenti ultime: spira
    Il venticel più mite, e in candid’arco
    Del mio breve naviglio enfia le vele.

    III

    Quando tonò la voce onnipossente
    Che pose legge a l’acque, e sovra i mari
    Aura feconda trascorse Jehòva,
    Jonio, covrivi questi regni, o bello
    De’ tuoi giovani flutti altri velavi
    Interminati abissi? Immensa, arcana
    È de’ tempi la notte. Unica luce,
    E dubbia forse, che la rompa, è il grido
    De le passate genti a le novelle
    Genti creduto, o de’ pensanti il guardo
    Vïolator de la terra profonda.
    Altri, o Jonio, tu forse, altri tenevi
    Ceruli regni allora. Ove infiniti
    Vaneggiano i deserti, ove solinga
    Ride l’Oàsi ed il Sahàra avventa
    Verso un ciel senza sponde un mar di arene,
    Ivi tu forse il palpito primiero,
    Jonio, sentivi in grembo a le tonanti
    Acque novelle; e qui, dove tu posi,
    Furon campi, fiumane, alberi, ville,
    Uomini, colpe, e tracotante ingegno.
    Onde la provocata ira celeste
    Ruppe gli argini al mare, e l’empia terra
    Ne l’abisso deterse! — Oh allor tu pure,
    Or sì limpido e piano, a le contese
    Cime de’ monti il torbido attollevi
    Flutto ruggente a le vendette! — E quando
    Su la viaggiatrice arca sorrise
    L’iride giovinetta il riversato
    Mar seminando d’amorosa luce,
    E la nivea palomba iva radendo
    Le refluenti acque vittrici, e gaie
    Saliano a l’aria le montagne, e Dio
    Perdonava a la terra, allor tu forse
    Per novo imperio agli ospiti migravi
    Liti che bagni. Maraviglia al sole,
    Fiorir di boschi i discoperti abissi,
    E sonâr di città.

    IV

    Salve! Tu prima
    (Se ne le antiche età non erra il carme)
    Prima ponevi le capanne in queste
    Rive odorate, o generosa e bella
    Tirrenia prole! Vergini boschetti
    Di mortelle e d’aranci eran ghirlanda
    A queste onde lucenti; e mentre al sole
    Le cavalle pascean per la pianura,
    Tu, riposata a l’ombra, inni campestri
    Meditavi, l’estiva ora ingannando.
    Sovente io vidi la dïurna luce
    Romper da l’acque e alluminar l’estreme
    Zone del mar di timidi baleni;
    De’ monti azzurri circuir le cime
    Di porpora gentile; indi, fugate
    Le vaporose ombre supreme, in cielo
    Crescer sovrana e glorïosa, e tutta
    D’un manto d’oro avviluppar la terra.
    Così l’antica civiltà, per voi,
    O Tirreni vaganti, in queste piaggie
    I primi lampi del suo disco effuse,
    Ch’indi schiarò l’Occaso; e tal successe
    Il nomade Pelasgo a queste prode,
    Tipo miglior de l’uomo, e qui la santa
    De’ nostri padri sapïenza eterna
    Pura trasferse, che fu l’ampio stame
    De la superba tunica gemmata,
    Onde si cinse il barbaro Occidente;
    Fu vivo sol, che per mutar d’etadi
    Non venne manco di splendor, ma, pari
    Al Titon de le favole cadute,
    Giovane sempre e poderoso, informa
    De’ primi veri ogni novella idea,
    Ogni trovato degli umani.

    V

    O Magna
    Grecia, qui fosti! Questo mar fu specchio
    A le tue scole cittadine, ai tuoi
    Interrogati oracoli profondi,
    Ai tuoi sonanti portici! Qui fosti,
    Divin paese, unica gente! Ah dite,
    Stelle del ciel, che de la stessa luce
    Le sue notti allegraste, esser può core,
    Italo cor, che di potenti affetti
    Su queste onde non arda, e di quei monti
    Pe’ lucidi contorni alto su l’ale
    Del sovvenir non voli? Oh quante ville,
    Quante città per quel tacito lido!
    Quanta gagliarda gioventù, qual forte
    Popol vi stette, splendido, gigante,
    Immaginoso! Eran per lui le nubi
    Popolate di eterni: alberi, laghi,
    Fiumi, boschi, dirupi eran di arcane
    Intelligenze alberghi. Armonïose
    Nereïdi quest’acque ivan fendendo;
    Fuor da l’intime selve uscian le ninfe
    Al niveo lume, onde ridea Diana.
    Fatidiche cortine ondavan lente
    Sul limitar de’ delubri; perenni
    Ardean le fiamme sul riposto altare.
    Ridea l’Olimpo su quest’onde aperto,
    O radiante mare, e tu parevi
    Anfiteatro azzurro, a cui spalliera
    Eran verdi colline, ardue montagne
    Greche, Japige, Sicule, Lucane,
    E di Morea le balze; anfiteatro,
    Ove fragranti de l’elisia rosa
    Scendean gli eterni a visitar la terra.
    Lucenti cocchi ivan per l’aria, ignote
    Melodie da quest’onde uscian, rapite
    Dai Zefiri fuggiaschi e da’ Favoni.
    Compaginata di più forti nervi,
    Men dal tedio evirata, emunta meno
    Da ridolenti ozi superbi, un’alta
    Stirpe tenea queste montagne e queste
    Verdeggianti pianure. Irrequïeti
    Scendeano i Geni de la patria intorno
    Agl’inaccessi lari, ai vigilati
    Sacri pomerî. De la guerra al grido
    La federata gioventù pugnava
    Glorïose battaglie. Odi remote
    Sonar le trombe: sconfinato piano
    D’alta messe coperto è il circo orrendo
    De’ vindici guerrieri: ecco da lunge
    Di sfrenati cavalli onda crescente
    Venir col suon de la tempesta incontro
    Ad un’altra onda di cavalli; avanti!
    Avanti, o prodi! De’ poeti il grido
    Le pianure discorre e l’aria e l’onda:
    Freme il vento ne’ grani, e in flutti d’oro
    Batte la spica ai sanguinosi fianchi
    Degli anelanti alipedi: le folte
    Messi vastate un mar di sangue allaga!
    Nel tripudio de l’ira ecco caduti
    Mille gagliardi giovinetti! Anch’essi
    I fumanti cavalli al cor feriti,
    Spirando esultan resupini al sole!
    Bello è morir sul campo; avanti, avanti!
    Sul niveo carro la Vittoria appressa
    Le festanti città; scende la morte
    Coi mille estinti a l’Erebo. Beati,
    Più beati i caduti! Eterna ad essi
    La cittadina lode, il pianto e i fiori
    De le discinte vergini deserte,
    E la luce del canto! O voi del Brada
    Floride sponde! Sinuose rive
    De l’Aciri e del Sinno, e sacri pioppi!
    O famosa Cotrone! O Tarentino
    Golfo, speranza, asilo ultimo, e tomba
    Ai tornati da l’Ida eterni Achei!
    O mura di Petilia! O Locri! O verdi
    Campi del Nieto! Io vi saluto, e piango!
    Noverator di divinate zolle
    Su voi non langue il pensier mio, ma caldo
    Di carità profonda in un concento
    Di tanta età le ricordanze avvolge!

    VI

    Stretta di muri e di colonne il cinto,
    Di cupole e di torri incoronata,
    La Jonica Cibele il pié tuffava
    Giù ne l’acque del Bradano; l’antica
    Metaponto famosa, alta Metàbo.
    Per dovizie potente e per costante
    Pietade avita, prezïose lampe
    Ed aurei busti ai deprecati offerse
    Templi di Delfo: onde feconda e bella
    Venia la messe ne’ suoi campi e il pingue
    Provvido olivo e la purpurea vite.
    A la parete del suo tempio appese
    Splendean l’ascia e la pialla, onde d’Epeo
    Si armò la man quando commesse i fianchi
    Al miro inganno espugnator di Troia.
    Col Sinno a ritta e l’Aciri a mancina
    Sovra un facile colle alta Eraclea
    Incontro al raggio orïental posava.
    Ne la memoria de l’età lontane
    Città famose; venerandi altari,
    Onde la fiamma del saver Pelasgo,
    Pari al foco di Vesta, arse, rompendo
    De l’Occaso le folte ombre ritrose.

    VII

    Or la spica e il lentisco occupa i seggi
    Di quelle auree città: silenzïoso
    Volge il Bradano al mar l’onda romita.
    Spesso il Lucano agricoltor, spezzando
    Quei putridi novali, in elmi aperti
    E in rotti brandi coll’aratro offende;
    E spesso il solco riconduce al sole
    Lapidi eterne, ove la man degli avi
    Pose leggi immortali. Ove Eraclea
    Stette, ombreggian le selve; e il cinghiai scava
    Fra le macerie e i lividi pantani
    Discontinue colonne. Entro quei boschi
    Sonò lunghi anni de’ romiti il salmo;
    Ed or biancheggia infra le folte macchie
    Turrito ostello ai circoli rurali
    E ai prandi amico onde la caccia è lieta.
    Talor, quando la notte alta più vola,215
    Per queste onde deserte ascolti il grido
    Del barcaiuol che trafficando in mare
    Da Taranto a Cotrone apre le vele.
    Ed or che passo e canto una indistinta
    Da l’acque esala melodia soave,
    E aleggia intorno al mio naviglio. Ah forse
    Tu sei, Calipso solitaria, errante
    Su questi flutti, a te sì cari? O questa
    Forse è la ricorrente eco del canto,
    Cui da l’aerea rupe ultimo sciolse
    Saffo infelice, allor che volta ai cieli,
    E date a l’aure le riverse chiome
    In grembo a le pietose acque disparve?
    O tu sei che rivieni ai molli climi
    Di Zacinto materna, ombra del fiero
    Foscolo mio? Tua lunga ansia, tuo lungo
    Disperato sospir questi sereni
    Spazi di cielo erano un dì fra i nembi
    D’Albïone! Ti allegra, anima ardente!
    Sovra i colli di Zante arde peranche
    L’ira de’ carmi, e di tua mente un raggio
    Di Sòlomos nel petto inni profondi
    Spira. Chi mai, chi non saria poeta
    Su queste piaggie, ove abitò colui,
    Che l’armonia de’ firmamenti intese?

    VIII

    Qui Pitagora eterno, allor che l’empio
    Pugnal Crotonïate incontro al santo
    Cor la sua nova carità gli mosse,
    Qui ramingò lunghi anni, e qui, sublime
    Per divino ardimento, i templi aperse
    De’ rinnovati studi. Un infinito
    Popol di alunni lo seguia ne l’ampie
    Scole di Metaponto; indomite alme,
    A l’esiglio, a la fame, a le catene,
    A la morte parate, anzi che vili
    Disdir la fede de la sua parola,
    I suoi dommi tradir. Venian le donne,
    Le gentili obblïando opre e le danze,
    Severamente a meditar sui marmi
    Del suo Liceo. Sofo immortal! Qual mente
    Corse dietro al tuo volo, e sì dappresso
    Vide ne’ cieli? Qual fu mai, de’ nati
    A le pugne del dubbio e del mistero,
    Qual fu mai che felice un tanto sguardo
    Gittar potesse ne l’età ventura?
    Ultimo raggio d’una età caduta,
    Raggio primier d’una sorgente etade,
    Di qui, sovrano, a federarle alzavi
    La tua profonda universal parola.
    Questo mare, quei monti, e questi cieli
    Erano il tempio e la fatal cortina,
    Onde parlavi ad erudir le genti;
    E mille età concelebrâr devote
    Questi cieli, quei monti e questo mare.
    Tu riflettevi l’universo, e nulla
    Stranier ti parve, o fondator del miro
    Italogreco socïal Liceo!
    Tu guerrier, tu potente unico sofo,
    Tu generoso cittadin, tu voce
    Conciliatrice di due mondi, ardente
    Martire del pensiero e de l’amore,
    Tu presentivi, meditando, l’alta
    Necessità d’una parola eterna
    Rivelata ai mortali. Astro sublime
    Del ciel pagano! Di solinga luce
    Per mille età rifolgorasti il mondo;
    Fin che temprato nel gran Sol di Giuda
    Su l’orizzonte cristïan salivi
    Come gigante a correre la via!
    Nel tuo splendor santificato, oh quanto,
    Quale altissimo volo aprìr sovrani
    L’Angiol di Bova e l’Angiolo d’Aquino!

    IX

    Sparso le nivee chiome a l’aura errante,
    Negli ampi seni del suo pallio avvolto,
    Per queste prode solingo vagava,
    Converso a lo stellato etere: ed era
    Una lira il creato, un infinito
    Ocean di splendori e d’armonia.
    Misterïoso angiol rimaso in terra,
    D’un idioma a consolar gli umani,
    La Musica dappria gemea ne l’onde,
    Ne le boscaglie sospiranti al vento,
    O nel gorgheggio de’ pennuti. Spesso,
    O da l’amore o dal dolor percosso,
    Armonïosi e disperati gridi
    Il mortale traea; soventi ancora
    Destò per caso ne le canne argute
    Modulati sospir, gemiti e suoni
    E meditovvi; e di voluttuosi
    Pur dubbi ritmi ingentili cogli anni
    Quanto il caso creò. Ma sempre arcano,
    Incomprensibil sempre angiol canoro
    La Musica spandeva intorno a l’uomo
    Inebbrïante rapimento. Ei primo,
    Pitagora, al sorriso aureo degli astri,
    Santi commerci instaurò col vago
    Angiol misterïoso; il vel gli tolse,
    E sì, riflesso in numeri soavi,
    Il diè nudo al mortai. De l’ardimento
    Si piacque il Divo, e sua perenne elesse
    Melodïosa reggia Italia intera.
    E a lui, che il vinse, le sorgenti aperse
    D’un’armonia più vasta, onde ordinati
    Van tanti mondi in una danza: i cieli
    Di soli e soli scintillàr sul capo
    De l’estatico sofo, ed ei, rapito
    Arcanamente pe’ celesti azzurri,
    La copïosa melodia bevea
    Che in onde eterne si riversa e spande
    Fra le correnti de l’eterea luce:
    E in quelle notti divinò le vie,
    Che, dopo il giro di si lunga etade,
    Tener dovea Copernico!.... Ah fin quando,
    Fin quando il sole irraggerà quest’acque
    Del suo riso vital, fin che l’aprile
    Rifiorirà queste campagne, e un cuore
    A questa luce batterà, quest’una
    Itala sponda splenderà su tutte
    Conservatrice e creatrice eterna
    De l’armonia, de l’arti e del pensiero!
    Senno è questo di Dio; senno di Dio,
    Che su quei campi seminò da l’alto
    Squadre, seste, compassi, arpe, colori,
    Onde la vita palpitò ne’ marmi
    Di Prassitele al cenno, onde la vita,
    Di Zeusi al tocco, come desta emerse
    Fuor da le radianti inclite tele.

    X

    Tutto, ah tutto vi arrise, Italogreci
    Figli de l’arte! Di beltà divina
    La Sibarita vergine splendea:
    Robuste forme v’offeria la terra
    Ove lottò Milone, ove del Sagra
    Pugnâr sui campi vigorosi atleti:
    E lunghi soli, e profumati climi,
    E nitore di cieli, e monti, e mari,
    E diffuse pianure.... oh ben l’albergo
    Degli artisti fu questo, e ben provvide
    Quando di Geni il popolò l’Eterno.
    Qui fra’ lucenti altari e su le svelte
    Salïenti colonne un portentoso
    Ordin correa di effigïati marmi.
    Ricche di vita e di memorie, sacri
    Monumenti de l’arte e del pensiero,
    Mille dorate tavole pendeano
    Per le Joniche sale. Ah, l’arti, dive
    Ricreatrici del civil costume,
    Non lascivia d’ingegno, erano allora!
    Del patrio amor sacerdotessa ardente
    La poesia di Nosside cantava
    Ai combattenti giovinetti. I numi,
    0 le memorie de’ vetusti Eroi
    Del rapsodo a la musa eran subbietto,
    E a l’armonia de’ marmi e de’ colori.
    Or chi ti svelse dal fulgido stallo,
    Terribile Tonante? Or chi ti ruppe
    La formidata clava, Ercol pensoso,
    Che su la combattuta idra spirante
    Con leonina maestà sedevi?
    Ove il tuo cinto, i tuoi colombi, e il tuo
    Di cangiante conchiglia etereo cocchio,
    Diva madre del riso e degli amori?
    E tu, più bianca de l’intatta neve
    Che de l’Olimpo in cima ultima cada,
    Giovinetta celeste, Ebe divina,
    Ove sei? Su quali aure erran tue bionde
    Trecce diffuse? Come te, raggiante
    Di profumata giovinezza eterna,
    Per questi lidi ricorrea serena
    La fantasia de l’arte Italogreca.
    Pura come la nova alba del mondo
    Fuor da quest’acque emerse in sua gentile
    Semplicità. Deh, perchè mai nel cielo
    Spaventata risalse? Anche il dolore,
    Anche il dolore ella vestia d’un vago
    Fulgidissimo velo: e non vedevi
    In quei marmi sublimi un disperato
    E di membra scompiglio e di sembianze;
    Ma un tal pensoso reclinar di fronti,
    E una grazia di teste, ed un soave
    Languor di sguardi, che svelar parea
    Le occulte gioie d’un dolor virile.
    Deh perchè mai, deh perchè mai nel cielo,
    E in eterno, risalse? Ah perchè mai
    De’ suoi portenti le reliquie estreme
    Con la gelida man disperse il Tempo?

    XI

    Chi può dir mai quanti tesauri accogli
    Sotto quest’acque, o mar? S’anco potessi
    Le tue glauche voragini profonde
    D’un cenno aprir novellamente al sole,
    Qui troverei le tavole sepolte,
    Ove Caronda suggellò col sangue
    Le sue leggi tremende, ed i civili
    Codici intemerati, onde d’Archita
    La carità parlava e la virtute.
    E voi, forti Lucani, a cui natura
    Maschio petto concesse e cor gentile,
    Voi che per lungo tralignar di etadi
    Non ismetteste l’ospital sorriso
    E la virtù de’ vostri padri, voi
    Qui, superbendo, i dissepolti avanzi
    De le vostre città contemplereste:
    De le vostre città, che la inquïeta
    Ala del tempo, ribellando i fiumi,
    Tutte sovverse e trasportò nel mare.
    Sotto quest’acque trovereste gli elmi
    De’ vostri antichi, e le corazze, e l’aspre
    Targhe di rame e i sandali guerrieri.

    XII

    Sepolcro eterno, o mia Lucania, è questo
    Ampio mar, che veleggio, a le tue prische
    Marittime città. Come sei bella,
    Terra de’ forti, or che distende il cielo
    Un manto azzurro su le tue montagne,
    E nel suo riso la recente luna
    I tuoi boschi inargenta! A me diletta
    Ride ogni itala zolla: eppur le tue
    Aure bebbi vagendo, e nel tuo seno
    Dormono i padri miei. Tutto a te diede
    Clemente il cielo; le montagne e i mari,
    I vulcani e le nevi, il fosco abete
    E l’aureo pomo orïental, franati
    Brulli dirupi ed ondulati piani
    Ricchi d’alberi e d’acque e di verzura,
    E pampinosi poggi, e lauri, e tutto!
    Ed i tuoi figli, rispondenti al suolo,
    Ne la battaglia eroi, soavi al canto,
    Ed atti al grave meditar profondo.
    Indi il Lucano Ocello, e la secura
    Fantasia di colui, che d’aurei strali,
    Adulando feria gli omeri olenti
    De la sua Roma tralignata, e tutti
    Del Bello i dommi in un concento accolse,
    Ed incarnò ne l’opre; e, a le supreme
    Regïoni del Genio aprendo il volo,
    Mostrò che sola per quegl’ignei giri
    Di Pindaro più l’ala ornai non era.
    Or l’angiol del passato erra solingo
    Fra le tue querce, e parla ai nembi: siede
    Sovra le ripe de’ tuoi fiumi, e muto
    Novera l’onde mormoranti al mare.
    Or come aquila offesa il vol raccoglie
    Sul Vulture fatale; e mentre il vento
    Le negre effuse chiome agita intorno
    A la fronte severa, i monti e l’acque
    Ei riguarda pensoso; indi, librato
    Su le penne sonanti, a larghe ruote
    D’Agri esplora e di Sinno i piani e i colli,
    E con voce di tuono i forti evoca,
    Che perîr su quei campi.

    XIII

    Armi e cavalli
    E carri e picche e fere aquile di oro
    Colà recava la virtù latina.
    E allor che in mezzo ai sanguinosi brandi
    Terribilmente soverchiâr le schiene
    D’improvvisi elefanti, onde paura
    Torse in fuga i Romani innanzi a Pirro,
    Quell’ampie chiane di cotanti uccisi
    Morte covrì, che il vincitor fremendo
    A la vittoria maledisse. I fiumi
    Menar sangue. A la notte, in mezzo al campo,
    Del Molosso lo spettro alto vagava
    Chiuso in armi corrusche; e, sogghignando
    Su tanto fior di gagliardia mietuto,
    Il proprio fato ricordò, quand’egli
    Fra le correnti del fulvo Acheronte,
    Imprecando a quel dì ch’ei piantar volle
    In paese non suo l’asta guerriera,
    Sotto al brando Lucan cadea trafitto,
    E giù da le cruente acque rapito
    Appo le porte d’Eraclea festante
    Lutulento cadavere percosse.
    Ed, ahi, que’ campi depredò crudele
    Il clamoroso Saraceno, ed irte
    Minacciose castella in quella vaga
    Classica sponda fabbricò lo Svevo,
    Ed il Normanno dissetò nel Brada
    I suoi negri cavalli. Indi la fame,
    I tremuoti, le pesti, il tempo in muta
    Deserta landa converser quell’alma
    Popolosa contrada, unica al mondo!

    XIV

    Ahi! Ben per lunga obblivïon la terra
    Isterilisce! e non un arbor vedi
    Che d’ombra amica le pianure allegri,
    Ove tu, Metaponto, un dì sedevi
    De le tue ville suburbane al rezzo.
    Despota il sole e inesorato incende
    Quelle mute campagne, allor che infoca
    Le fulve giubbe del Leon: non odi
    Aura che spiri fra le secche ariste,
    O gli spazî del mar, che fuman lenti,
    Colla punta de l’ale agiti. Immoto
    Pestifero, affannoso aer si addensa
    Per questo cielo solitario; i fiumi
    Spiran la morte del villan, che, adusto
    E resoluto ne le membra, indarno
    I venticelli de l’april, le fresche
    Rugiade del mattin, morendo, invoca!
    Eppur quei campi torneran serena
    Feconda sede di città fiorenti
    Popolose e felici. Entro quei campi
    Novellamente spunteran selvette
    Di cederni e d’ulivi; entro le verdi
    Ombre novelle il rossignuol le care
    Sue melodie ripeterà. Le melme
    Non veleran le tue correnti, o sacro
    Bradano antico; ma deterso e puro
    Per assiduo lavoro, in grembo al mare,
    Ville e campagne fecondando, andrai!
    Salve, tornante a queste piaggie, o diva
    Potente aura d’amor! Dove tu spiri,
    Anche i deserti allieti! Al tuo susurro
    Canta il villan su la feconda zolla,
    Carole intreccian le fanciulle, al cielo
    Sorgon le torri e le città, la terra
    Di fior s’ingemma e di navigli il mare!

    XV

    Senza vergogna la ventura prole
    E senza pianto guarderà le tue
    Sponde, o Jonio sublime! A questi lochi
    Trarrà sovente ad ispirarsi. E voi,
    Adriache antenne, e voi, Tirrene, in festa
    Approderete fra quest’acque, e fide
    Concordi voci da la ricca sponda
    Vi accoglieran! Le grandi alme sublimi
    Di Colombo e di Gioia alte pe’ mari
    V’ enfieranno le vele, e a novi liti
    Vi guideranno, o gloriose navi,
    Messaggere d’un mondo!....

    XVI

    Or salve, o sole,
    Su queste vote abbandonate rive!
    Tu vi reddivi in altra età posando
    Sovra mille città l’aureo tuo cocchio,
    Stanco de’ climi boreali, ond’oggi
    Ne vien l’insulto de’ superbi, ed ove
    Inorridito illuminavi, o sole,
    Per impervie foreste umane belve,
    Ed empi riti e scellerati altari!


    Aprile 1847.




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