Library / Literary Works

    Silvio Pellico

    Le Processioni

    Vexilla Regis prodeunt. (Eccl. hymn.).


    Dolce è l’aspetto
    De’ templi santi,
    Dove tra faci
    Sfolgoreggianti,
    Dove tra incensi,
    Dove tra canti
    Di Dio grandeggia
    La maestà;

    Dove al mortale
    Le sacre mura
    Tolgono il resto
    Della natura,
    Dove ogni oggetto
    Ch’ei raffigura
    Gli dice: « Adora,
    L’Eterno è là! »

    Nondimeno allorquando dal tempio
    Uscir vedesi l’Onnipotente,
    Tra le mani d’un debil vivente,
    Pe’ sentieri che tutti calchiam,
    Pare a noi che vieppiù ci sorrida,
    Che vieppiù ci si faccia fratello:
    Per pregarlo un impulso novello,
    Una nova speranza sentiam.

    Egli è il Re che diffondersi brama,
    Che pacifico vien dalla reggia,
    Che fra i sudditi amati passeggia,
    Che lor volge parole d’amor:
    Egli è il padre che visita i figli,
    Che s’appressa a ciascun de’ lor petti,
    Che lor mostra quant’ei si diletti
    Di cercarli, di starsi fra lor.

    Oh nel moltiplicar tuoi benefici,
    Ricca d’industrie amabili e sublimi,
    Religïon che a’ tuoi sinceri amici
    Con sì söavi grazie amore esprimi!
    Religïon, che pur ne’ tuoi nemici
    A lor dispetto meraviglia imprimi!
    Religïon d’imperscrutati veri,
    Bella in tuoi grandi lampi e in tuoi misteri!

    Splendono innumerati i santi modi
    Con che rammenti agli uomini il Signore,
    Con che il Signor medesmo offerir godi
    Alla vista de’ popoli ed al core:
    A te non basta in mezzo a preci e lodi
    Sull’ara alzar la diva Ostia d’amore;
    Fuor de’ salubri tu la traggi, e in pie
    Feste l’elevi per le dense vie.

    Perchè iroso talun le venerande
    Processïoni con ribrezzo guata?
    Perchè immagina ei tutta in miserande
    Cure avvolta la turba ivi adunata?
    In ogni loco, ottusa al Bello, al Grande
    Langue, è ver, più d’un’alma sciagurata,
    Ma gente è pur che il Grande, il Bello ancora
    Sente con forza, e, quando sente, adora.

    Almo sono, in cui ragione
    Ed amante fantasia
    Tal serbarono armonia
    Che abbellisce ogni pensier:
    Chi ragion vuol tutta gelo
    Senza slanci, senza affetto,
    Tarpa l’ali all’intelletto,
    Non s’innalza fino al ver.

    Tutto ciò che santo brilla,
    Che divelle dalla creta,
    Che solleva ad alta meta,
    Dobbiam credere ed amar:
    D’infelici sprezzatori
    Non confondaci lo scherno:
    Vile sforzo è dell’inferno
    Ogni cosa dissacrar.

    Quali volge a noi la Chiesa
    Rimembranze in tutti riti?
    Son materni, dolci inviti
    A speranza ed a fervor.
    Il Signor quando discende,
    Quando incede in mezzo a noi,
    Chiede amore a’ figli suoi,
    Chiede e in un largisce amor.

    Indelebil mi sei, giorno lontano,
    Allor che in giovenili anni a me stanza
    Era söave lido oltramontano:

    Cessava la sacrilega burbanza
    Dalla falsa republica ostentata
    Contro la dolce degli altar possanza;

    E l’ardito mortal che, rovesciata
    La licenza volgar, lo scettro prese,
    Volle che laude fosse a Dio ridata.

    Da lungo tempo augusta dalle chiese
    Pompa uscita non era d’alternanti
    Supplici turbe a fervid’inni intese,

    Ricordavano solo alcuni santi
    Vecchi le amate feste, ove il Signore
    Passeggiava cogli uomini preganti.

    Di repente riviver lo splendore
    Ecco di quelle feste a’ Franchi lidi,
    Ad un cenno del Corso Imperadore.

    E con gara magnifica allor vidi
    Il popolo esultar, che finalmente
    Fosser compressi di bestemmia i gridi:

    E la città del Rodano opulente
    Sfoggiò tappeti e drappi ed archi e troni
    Al quaggiù ridisceso Onnipotente.

    Gioiva la caterva udendo i buoni
    Racconti de’ vegliardi, ed esclamava:
    « Di novo esser del ciel vogliam campioni! »

    Intanto ognun con dignità n’andava
    Qua e là per le strade brulicando,
    O a’ pensili balconi susurrava,

    Lo spettacol santissimo aspettando.

    *

    Del cannone il fragor nuncio prorompe,
    E da ogni parte ecco seguir silenzio;
    La procedente pompa in quell’istante
    Prese le mosse avea del tempio. E oh quale
    In tutta quella turba apparìa senso
    Misto di gaudio, di stupor, d’ossequio,
    Di terror sacro! E nel quadrivio tutti
    Protendeano la testa, impazïenti
    D’appagar le pupille in quel sublime
    Intervenir del Re dell’universo
    Tra le infelici vie che de’ mortali
    Cingon le case!
    Il cinguettìo s’andava
    A poco a poco intorno rïalzando,
    Sin che ad un capo della via rifulse
    La prima Croce, è la seguia drappello
    Di devoti cantanti. Allor di novo
    Regnò silenzio. A quella prima Croce
    Ed al suo stuolo, stuoli altri seguìro,
    Con altre Croci ed elevate insegne,
    E varii ammanti, onde scerneansi varie
    Affratellanze di civili uffici
    E di sacerdotali. Inteneriva
    Quell’ineffabil mistica armonia.
    Degli aspetti moltiplici, e dell’inno
    Da tante bocche e tanti cuor sonante,
    E del brillar dell’infinite faci,
    Il pio simboleggianti amor ridesto.
    Bello il mirar là sovra antiche gote.
    Lagrime di piacer! Là, sovra gote
    Di dolci verginelle e di lor madri
    Lagrime d’agitate alme, ferventi
    Di carità reciproca e di gioia!
    E là l’ansante genitrice in alto
    Il suo bimbo elevar, sì ch’egli scorga
    La maestà del rito, ed insegnargli
    A riportar la tenera manina
    Sulla fronte e sul petto e sulle spalle,
    Balbettando la trina alma parola,
    Che de’ cattolici è gloria e salute!
    Poi tragittate le abbondanti schiere
    Che annunciavan l’Altissimo, ecco un nembo
    Di timïàmi, e fra quel nembo pria
    Vago drappello d’angioli incensanti,
    E fiori per la sacra aura spargenti;
    Indi — oh spavento! oh amore! — indi Colui
    Che la terra creò, che creò i cieli,
    Che l’uom creò, che all’uom s’unì, e divisa
    Dell’uom l’ambascia, il consolò e redense!
    A cotal vista l’adorante folla
    Genuflessa cadeva, ed i singhiozzi
    Udii di molti che dicean: « Signore,
    » Pietà di me che te cotanto offesi,
    Ed ammenda desìo! »
    — Stava fra i mille
    Colà prostrato un giovane infelice,
    Ch’empio non era stato, e sempre in core
    D’amor favilla avea per Dio nodrita,
    Ma pur sovente dal demòn superbo
    Delle dubbiezze invaso avea lo spirto.

    E certo le dubbiezze eran flagello
    Da Dio permesso, perchè umìl non era
    Di quel giovin lo spirto, e si credea
    D’altissima natura, atto all’acquisto
    D’ogni saper cui non s’aderge il volgo;
    E lungh’ore ogni dì sedea solingo
    Fra libri ottimi e pessimi, e scrutava
    La verità — dimenticando spesso
    D’invocarla dal ciel. Ma in quel gran giorno
    Dell’adorabil pompa, in quel momento
    Che a mille a mille si prostràr gli astanti,
    Ed anch’egli prostrossi; il giovin, pieno
    Poco prima di tenebre, una luce
    Vide novella, e umilïò l’altero
    Intelletto con gioia, e senza orgoglio
    Fu per più giorni e immacolato e forte.
    E quando quell’audace irrequïeto
    Tornava a’ suoi deliri, investigando
    Con indagin profana alti misteri,
    Scontento si sentiva e sen dolea;
    Ed in sè di quel giorno Lugdunense
    La ricordanza ridestava, in cui
    S’era con fede innanzi a Dio gettato;
    E tale avventurosa ricordanza
    Lui consolava, e gli rendea sovente,
    Od accresceagli della fede il raggio!

    *

    V’amo, o Processïoni! e v’amo tutte,
    Pubbliche preci dalla Chiesa alzate
    Ad inforzarci in perigliose lutte!

    Io son quell’un, che da dubbiezze ingrate
    Afflitto in gioventù, pur vi cercai,
    Ed hovvi schiettamente indi onorate.

    E non sol nelle feste, ove, i suoi rai
    Nascondendo, intervien l’Ostia divina,
    D’indicibil dolcezza io m’esaltai;

    Ch’ovunque l’uom pregando pellegrina
    Affratellato al suo simile e canta,
    Sento un poter che a Dio mi ravvicina.

    Quant’amo l’adunanza umile e santa
    De confidenti nell’amor di Quello
    Che di bei fiori le convalli ammanta!

    Congregati alle miti aure d’un bello
    Mattin di maggio, in copia anzi la chiesa
    Ecco stan villanel con villanello.

    Ed ecco, il piede innoltran per la scesa
    Giovani donne, e nel tugurio resta
    L’avola antica alle faccende intesa.

    Ed il sacro Pastor move la festa,
    Guidando i parrocchiani in mezzo ai prati,
    E in mezzo a’ campi e in mezzo alla foresta.

    Mirano con dolcezza i germogliati
    Frutti di quel terreno, e pel ricolto
    Litanïando invocano i Bëati;

    E il passegger da lunge dando ascolto
    Alla rustica prece, si commove,
    Ed anch’egli a pregar sentesi volto,

    E forse da mal opra indi si move.

    *

    Udran certo la prece devota
    I Bëati che sono appo Dio;
    L’udrà l’Angel del bosco e del rio,
    L’udrà l’Angel del monte e del pïan;
    E le debili umane parole
    Commutando in concento divino,
    Le alzeran fino all’Unico-Trino,
    E felice la messe otterran.

    Ma se pur le parole dell’uomo
    In concento divin commutate
    Al Signor non salissero grate,
    E vibrasse tremendo flagel,
    La preghiera che alzaro i credenti
    Infeconda giammai non si fora,
    Sempre i cor la preghiera migliora,
    Sempre l’uom riconcilia col ciel.

    E dopo l’anno in cui sole o procella
    Di frutti la campagna han desertato,
    Riedono i contadini in la novella
    di maggio al supplicare usato.
    Di sue peccata ognun castigo appella
    L’arsura o i nembi del trist’anno andato;
    Ognun con penitenza più sincera
    Da Dio depreca tai sciagure, e spera.

    Venga a que’ giorni il vate ed il pittore
    Sulla bella collina d’Eridàno,
    E contempli quel quadro incantatore
    Cui son limite l’alpi da lontano.
    Di bellezza uno spirito e d’amore
    Diffuso è là sui monti, e là sul piano,
    E qui sui poggi, e sui due fiumi, donde
    Accarezzan Taurin le amabil onde.

    Il vate ed il pittor vedrà un incanto
    A sì bel quadro unirsi novo ancora:
    Escon le forosette in bianco ammanto
    Da diversi tuguri anzi all’aurora,
    Ed affrettano il passo al loco santo,
    Ove la campanetta suona l’ora;
    Passar indi tra questo albero e quello
    Vedesi colla Croce il pio drappello.

    Pingetemi raggiante dall’Empiro
    Degli Angiol la Regina che sorride:
    Dicesi che talor nel sacro giro
    Delle Rogazïoni alcun lei vide;
    Dicesi che commossa dal sospiro
    Di quell’anime semplici a lei fide,
    Col divin Figlio i campi benedisse,
    Nè gragnuola per molti anni li afflisse.

    *

    E belle son le supplici
    Pompe di penitenza in alto lutto,
    Quando da morbo orribile
    A gran terrore un popolo è condutto.

    Per alcun tempo attonite
    Portano le cittadi il flagel rio,
    Indi, poichè ogni provvida
    Arte inutile appar, volgonsi a Dio.

    Ed allor sorgon uomini
    Per eloquenza e santo cor sublimi,
    E con ardir magnanimo
    Rinfacciano lor colpe ai grandi e agl’imi.

    Della rampogna ridere
    Vorrìa il perverso, e già il malor lo afferra:
    Jeri con vil tripudio
    Opprimea l’innocenza, oggi è sotterra.

    Prendon la Croce gli umili,
    E più d’un già superbo anche la prende,
    E il penitente cantico
    Da migliaia di cuori al cielo ascende.

    Religïon fortifica
    Gli animi che depressi avea paura,
    E quindi all’aer malefico
    Più robusta resiste anco natura.

    Religïon le torbide
    Coscïenze deterge, indi le calma,
    E più efficaci i farmachi
    Opran nell’uom, qualor pacata è l’alma.

    Accumular prodigii
    Potria certo il Signor, ma senza questi
    Pur con sue leggi solite
    Sana e protegge chi a ben far si desti.

    Il penitente popolo
    Dopo le preci meno ismorto riede,
    E più costante esercita
    Sua carità, perchè doppiata ha fede.

    *

    Ed allor men sovente abbandonati
    Van gli egri da’ famigli e da congiunti;
    E più d’un egro che di duol perito
    Fora per l’abbandon, s’altri l’aiuta,
    Forze ritrova, e più del morbo i dardi
    A lui non son mortiferi. In tal guisa
    Scema la strage a poco a poco, e cessa.

    Ah! in questi miseri anni Europa invasa
    Dall’indica per l’aer corrente lue,
    Quanta per ogni loco alzar dee lode
    A te, Religïon! Dove i più ardenti
    Soccorritori delle inferme turbe?
    Eran color che a benefIcio spinti
    Venìan da fede! Eran le pie fanciulle
    Vincolate da voto a farsi ovunque
    Ancelle de’ languenti! Eran dell’are
    Degni ministri! Erano illustri o scuri
    Concittadini che schernir solea
    La vigliacca empietà, perchè prostesi
    Sovente all’are onde traean virtude!
    E te fra tanti ardimentosi egregi,
    Ottogenario Vescovo, annovrava
    La nostra Cuneo dianzi, a’ più tremendi
    Lunghi giorni di morte e di spavento!
    Te col drappello de’ tuoi forti amici
    Cingeano indarno gli ululi codardi,
    E i turpi esempli di color che aïta
    Negavano a’ giacenti! Impallidìa,
    Ma per alta pietà, non per paura
    La vostra fronte, ed al pallor gentile
    Succedea sulle guance il nobil foco
    Della vergogna per l’altrui fiacchezza.

    E quando truce cova, e già scoppiando
    Va in queste Taurinensi aure la lue,
    Chi a’ bisogni provvede e rischi affronta,
    E sprona, e gare generose incìta?
    Alme prodi son desse, a cui ben nota
    Religion senno e costanza infonde!
    E fra tali, io con giubilo un amico
    Vidi primo scagliarsi all’ardue cure
    Che salvaron la patria; e fra i gagliardi
    Che il seguitavan, godo altri a me cari
    Scorgere e benedire, e vieppiù amarli!

    *

    Ma il dolor pur rammentiamo
    D’altre turbe supplicanti:
    Stirpe misera d’Adamo,
    Numerar chi può tuoi pianti?

    *

    Più d’una volta
    Furon vedute
    Disperar quasi
    Della salute
    Assedïate:
    Degne città.

    L’oste che i muri
    Ivi circonda;
    Desolò questa
    E quella sponda;
    Scevra si vanta
    D’ogni pietà.

    Pubbliche preci
    La Chiesa intìma,
    Anzi agli altari
    Ciascun s’adìma,
    Indi procede
    Ignudo il piè.
    La mescolanza
    Del lor dolore,
    Del loro grido
    Al Salvatore,
    In tutti i petti
    Cresce la fè.

    Dopo la pompa
    Il capitano
    Ripon sull’elsa
    L’ardita mano,
    Ed ispirato
    Snuda l’acciar.

    « Chi di voi sente
    » Iddio, con noi?
    » — Tutti il sentiamo! »
    Sclaman gli eroi.
    Apron le porte,
    Vanno a pugnar.

    Scossa, atterrita
    L’oste nemica,
    A ripulsarli
    Mal s’affatica;
    Già si scompiglia,
    Si dà a fuggir.
    Mai non è vinto
    Chi vincer crede:
    Negl’irrompenti
    Opra la fede:
    Salva è la patria
    Presso a perir!

    *

    Chi son que’ feroci
    Che d’Asia partiti,
    Di tutto Occidente
    Percorrono i liti?
    Rapinan, devastano
    Campagne e città.
    Il lor capitano
    È demone od uomo?
    Da niuna possanza
    Giammai non fu domo.
    Flagello di Dio
    Nomar ei si fa.

    Le Slaviche terre,
    Le terre Tedesche
    Sopportan sue stragi,
    Sue luride tresche;
    Le Gallie lo veggono
    Sovr’esse piombar.
    Ma il barbaro in mezzo
    Al sangue, alle prede
    Non gode, se Roma
    In polve non vede;
    Ed eccol dall’Alpi
    Furente calar.

    Qual possa di braccio
    Avria soffermato
    Chi tanto al suo ferro
    Già avea soggiogato?
    Qual gente dal Tevere
    Incontro gli vien?
    Un duce canuto,
    Magnanimo, forte,
    Non forte di schiere
    Datrici di morte;
    La sola sua fede
    Il guida, il sostien.

    Quel duce vestiva
    D’Apostolo il manto;
    Portava in sue mani
    Il Re sempre Santo;
    E folto seguialo
    Pregante drappel.
    Ed Attila, fero
    Flagello di Dio,
    Innanzi agl’inermi
    Tremò, impallidìo,
    E disse: « Non voglio
    » Pugnar contro il Ciel! »

    Perchè retrocesse
    Con tanto spavento?
    Vid’ei nelle nubi
    Un vero portento,
    O tutto il prodigio
    Oproglisi in cor?
    Dicevano gii Unni
    Con rabida voce:
    « Per quale incantesmo
    « Ci vinse la Croce? »
    Ed Attila urlava:
    « Fuggiamo il Signor! »

    *

    Ah! dolce siami ricordarmi ancora
    Processïoni d’altri cuori amanti,
    Volte a far sì ch’uom santamente mora;

    Allorquando a’ fratelli doloranti
    Sovra il letto di morte vien portato
    Quel Dio che si commove a’ nostri pianti.

    Brama la Chiesa intorno a sè adunato
    Stuolo di figli allora, ed indulgenza
    Materna a chi l’accorra ha pronunciato.

    Per le vie con sollecita frequenza
    Suona la nota squilla annunziatrice
    Di quel mister d’amore e sapïenza.

    E già la donnicciuola, osservatrice
    De’ pii dettami, il suo lavor sospende,
    E prega per l’incognito infelice,

    E lascia l’officina, e il passo tende
    Con altri umili artieri al loco santo,
    E il cereo appo l’altar ciascuno accende.

    Ivi ad artieri e a donnnicciuole accanto
    S’inginocchiano tai, che più cortese
    Hanno il contegno e le sembianze e il manto.

    Il vario grado qui sparisce; intese
    Tutte quell’alme al Re del Ciel si stanno,
    Che in man dell’uom dalla sua gloria scese.

    Sostegno quattro fidi ecco si fanno
    Al padiglion, sotto cui l’Ostia viene
    Riparatrice dell’eterno danno.

    Escon del tempio, e in meste cantilene
    Salmeggiano il bel carme in che il Profeta
    Reo si chiamava, ed estollea sua spene.

    All’ansio mover della schiera è meta
    Il tetto di fratello o di sorella,
    Cui forse morte è già da Dio decreta.

    E talor quell’afflitta anima in bella
    Giace magion, che al volgo ivi stupito
    Rammemoranza d’alte gioie appella.

    Allor più d’un fra gl’infimi è colpito
    Dal sentir ch’è pur cosa egra e mortale
    Uomo a sorti sì splendide nodrito.

    E tra sè dice: « Ai fortunati oh quale
    » Stolta invidia portai, se tutti dee
    » Involver duolo ed esterminio eguale! »

    E mentre le atterrite alme plebee
    Il vil livor depongono, e commosse
    Pregan per lui che l’ultim’ aure bee,

    Con dolcezza rammentan com’ei fosse
    Modesto in sua possanza, e come pure
    L’altrui miseria a pietà sempre il mosse.

    Ovver tristi rammentan le pressure
    Ch’oprate lunghi giorni ha il vïolento,
    Insultando degl’imi alle sventure.

    Lagrime versa quei di pentimento,
    E scorge di perdon raggio felice
    Entro al cor ricevendo il Sacramento:

    E a sè d’intorno mira e benedice
    La carità di quella pia congrèga,
    Che i torti obblìa dell’alma peccatrice,

    E pel suo scampo sempiterno prega.

    *

    Chi sì fredda laudar mente potrìa
    Sì del bello avversaria e del sublime,
    Che la potenza non ammiri ed ami
    Del gran mister? Mentre all’infermo è data
    Per patire o morir forza oltr’umana,
    Uno spirto di serii pensamenti
    E di mutua pietà gli astanti afferra;
    E ciascun dal palagio ov’oggi han regno
    Le dolorose infermità e la morte,
    Riede a sue ricche sale, o al suo tugurio,
    Più memore del cielo e più benigno.
    Nè spettacol men alto è quando tragge
    Il Pan celeste al miserando letto
    Dell’indigenza. Fra lo stuol seguace

    Dell’adorabil visita divina,
    Donna s’annovra illustre e generosa,
    Ben conscia già di luride scalee
    E di covili ov’han mendici albergo.
    Ed ella dietro al Salvatore ascende
    Alla povera stanza; e gentilmente
    Del suo splendido stato si vergogna,
    Ed aïtar tutti vorria gli afflitti.
    Egra giace una vedova, ed intorno
    Lagrimosi le stanno i figliuoletti
    Della fame dimentici, e accorati
    Sol perchè temon pe’ materni giorni.
    Della Comunïon pur non vorrebbe
    Questa mirarli nel solenne istante;
    Pensar vorrebbe solo a Dio; ma gli occhi,
    Pensando a Dio, ricadon sovra i figli,
    E s’empiono, di pianto. ― « Oh figli miei!
    » All’infrenabil mio materno lutto
    » Deh non badate, e voi consoli Iddio!
    » A lui vi raccomando: ei padre ognora
    » Fu de’ pupilli derelitti; piena
    » Fiducia abbïate in lui! » Così l’inferma
    Geme ed abbraccia ad uno ad uno i cari;
    Poi, vinta dall’angoscia, obblia di nuovo
    La voluta fiducia, e per delirio
    Lamentosa prorompe: « Oh delle mie
    » Viscere amati frutti! ov’è chi prenda
    » Cura di voi, quand’io sarò sotterra?
    » — Per mezzo mio li aiuterà il Signore! »
    Dice l’illustre donna ivi prostrata;
    E s’alza, ed alla vedova giacente
    Le braccia stende, e al sen la stringe; e questa
    Effonde il core in voci alte di gioia,
    Dicendo: « Io moro consolata! a’ figli
    » Che in terra lascio, resterà una madre! »
    Io vidi, io stesso un giorno in mezzo a’ campi
    Avvïarsi la visita d’Iddio
    A povera magion. Seguii la turba,
    Per l’infermo pregando, e quell’infermo
    Canuto essere intesi agricoltore
    Presso al centesim’anno. Ove giacea
    L’onorato vegliardo? In una stalla!
    A manca erano i buoi; spazio bastante
    Libero stava a destra, e un letticciuolo
    Ivi il padre capìa della famiglia.
    E in quella stalla il Creator del mondo
    Entra a soccorrer l’uomo! ad onorarlo!
    A nutrirlo di sè! tanto è il prodigio
    Dell’umiltà divina, o tanto agli occhi
    Del Crëator sublime cosa è l’uomo!

    Ah! ben desso è quel Dio che in una stalla
    Nascer degnava, e palesar che in pregio
    Gli era il mortal, non per potenza ed oro,
    Ma per l’umana sua nobil natura!
    Oh mirabile vista quel languente
    Che dal guancial la testa sollalzava,
    Bella per bianche chiome, e pel sorriso
    Della pace di Dio! mirabil vista
    L’atto in cui della debil creatura
    Cibo si fa il Signor! Chi non di dolce
    Stilla bagnate aver potea le ciglia,
    Ripetendo le preci? — E la pietosa,
    Ond’or parlai, che della vedov’ egra
    L’oppresso spirto avea racconsolato,
    Non è del vate invenzïon. Mi stava
    Quell’angelica donna appunto a fianco
    Or nella stalla del canuto. E quando
    Il Sacerdote retrocesse, allora
    Sorse l’egregia, e avvicinossi al letto,
    E favellò non so quai detti al vecchio,
    E nelle antiche palpebre io vedeva
    Gratitudin rifulgere e contento.

    *

    Ma non così pacifiche
    Sempre si volgon l’ore
    Al figlio della polvere,
    Quando patisce e muore.

    Colui tre volte misero
    Che in suoi peccati è spento,
    Di cui la gente mormora:
    « Non ebbe il Sacramento! »

    *

    Assai meno, assai meno infelice
    Di chi muor senza luce d’ammenda
    È colui che da legge tremenda
    Vien dannato a precoce morir!
    Fur gravissimi forse i delitti
    Che macchiaron la vita del tristo;
    Ma piangendoli a’ piedi di Cristo,
    Spera in ciel perdonato salir.

    *

    Ed anco a tal dannato a fera morte
    Religïon moltiplica sua cura:
    Ella sola al gran passo il rende forte,
    Che vinta da terror fora natura.
    Arrivato d’un tempio appo le porte
    Perchè il fermano? Oh ciel! che raffigura?
    Dall’altar mossa l’Ostia avvivatrice,
    Conforta ancor la vittima infelice.

    E la vittima piange benedetta
    L’ultima volta dal Signore in terra,
    E con più vigoroso animo accetta
    La fune onde il carnefice la serra:
    Che è mai la morte al misero che aspetta
    Grazia colà, dove non è più guerra?
    Ch’è mai la morte all’uom quaggiù imprecato,
    Se Iddio gli dice in cor: « T’ho perdonato! »

    *

    Le varie pompe tutte
    Uopo non è che annovri il verso mio,
    Onde sovente addutte
    L’anime sono a rammentarsi Iddio,
    E onde abbelliti vanno
    Di vita il corso ed il postremo affanno.

    Io tutte v’amo, quante
    Istituì la provvidente Chiesa
    Processïoni sante!
    Sol per la mente a basse cose intesa,
    Il senno dell’altare
    Non benefizio, ma stoltezza appare.

    Io v’amo, o pompe! ed amo
    Pur la più mesta; quella in cui giacente
    Nel feretro seguiamo
    Il simil nostro, che di nobil ente
    Sulla terra mutossi
    In carne data a’ vermi e in poveri ossi.

    Oh commovente gara
    Il congregarsi ad onorar per via
    La sventurata bara!
    L’alzare ancora in funebre armonia
    Un voto pel fratello,
    Di cui le spoglie inghiottir dee l’avello.

    Soleasi a’ dì lontani,
    Che barbari a ragion forse son detti,
    Ed in cui pur gli umani
    Portavan reverenza a’ begli affetti,
    Soleasi da’ congiunti
    Pianto sacrar solenne a’ lor defunti!

    Mutò la degna usanza,
    E quando un genitor serrato ha il ciglio,
    Più intorno non gli avanza
    Nè la consorte, nè un diletto figlio:
    Decenza impone a questi
    Sgombrar lochi per morte oggi funesti.

    Ah! ben più venerando
    Era a’ tempi de’ barbari il compianto
    Delle famiglie, quando
    I figliuoli mescean lagrime e canto,
    Venendo primi dietro
    All’orribile e in un caro ferètro!

    Fretta mi par non pia
    Il fuggire un amato, appena e’ muore;
    Il non voler qual sia
    Prova a lui dar di pubblico dolore:
    Ma ben è ver, che ascoso
    Pur gronda il pianto — e spesso è più doglioso!

    Se quei che vincolati
    Son per sangue col morto, alla gemente
    Pompa non son restati,
    Folta dietro la bara è pur la gente:
    Misto al terror, v’è un forte
    Amor nell’uom per l’alta idea di morte.

    Chi vive puro, i grandi
    Proponimenti inforza a quella vista,
    E chi traea nefandi
    I giorni suoi, sogguarda e si contrista:
    D’ognuno a tal pensiero
    Scossa è la mente e richiamata al vero!

    *

    Ma poichè il più giulivo e il più dolente
    Fra quanti riti a noi la Chiesa espone,
    Ha in sè di grazia spirto onnipossente,
    Che al cor favella ed a virtù dispone,
    Star giammai non si vegga ivi il credente
    Col vil sorriso che a bestemmia è sprone:
    Ne’ templi e fuor de’ templi ogni atto pio
    Puote e debbe nostr’alme alzare a Dio.

    V’amo, o pompe divine! e prego il Cielo
    Ch’io mora in patria ove sien usi santi,
    Ove alla tomba il mio corporeo velo
    Dato non sia da ignoti o da sprezzanti,
    Ma pochi amici con pietoso zelo
    Seguano la mia bara salmeggianti,
    E valga sì de’ lor sospiri il merto,
    Che tosto siami il sommo regno aperto!




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