Library / Literary Works

    Alfredo Oriani

    A poppa

    Viveva solo a Manna, piccola città di provincia.

    Da molti anni non usciva più di casa che ai bei giorni rifacendo invariabilmente la stessa passeggiata da Porta Santa Cecilia a Porta Maggiore, mentre i fanciulli lo guardavano con occhi curiosi e molte persone si scappellavano senza che egli le conoscesse. Poi il suo unico pronipote, un bimbo, che si era allevato negli ultimi anni, aveva naufragato mozzo di bastimento nelle Indie. Quando il vecchio soldato ricevette la notizia non diede che un crollo, forse il primo di tutta la sua vita; per molti giorni non comparve nella strada, quindi una mattina qualcuno lo aveva veduto dirigersi alla stazione e salire sul primo treno.

    Era sempre così vestito, con un cappello a cilindro di felpa lunga, dalle ali molto ricurve, stranissimo al nostro tempo; con un soprabito nero a bavero dritto, chiuso sino al mento, con due file di bottoni metallici, frammezzo ai quali brillava la vecchia croce, e di un paio di pantaloni scuri, con una larga striscia fiorata sulle costole. Era andato alla stazione solo, rasato come al solito: aveva la grande canna di zucchero in mano, non portava seco valigia.

    Dopo quella suprema sciagura il suo viso non aveva invecchiato, giacché a novant’anni non s’invecchia più: solamente i suoi occhi, già sguerniti di palpebre, parevano più fissi, e forse senza quel cravattone nero, a collare, la testa gli sarebbe caduta sul petto.

    La stazione era deserta.

    Allo sportellino chiese un biglietto per Tolone. L’impiegato, un forestiere giunto da poco in paese, non capì, mise fuori il naso curiosamente, e vedendosi dinanzi quella figura mummificata sorrise.

    - Vuole andare in Francia?

    - Sì.

    - Allora - proseguì l’impiegato colla gentilezza metà orgogliosa e metà servile del proprio ufficio - bisogna prendere la linea di Firenze-Spezia-Genova… - e la spiegazione durò più di un minuto, mentre l’altro, che aveva posato sul davanzale dello sportellino una vecchia moneta da cento lire, appoggiato militarmente sulla canna, come sopra un fucile, sembrava ascoltarlo e non lo ascoltava.

    Quando il treno arrivò, il bigliettinaio uscito sotto la tettoia per veder salire quello strano signore si appressò coll’intenzione di aiutarlo. I facchini, che per essere della città, conoscevano tutti il colonnello, parlavano sommessamente fra loro: il vecchio si era arrampicato da solo sul vagone reggendosi vigorosamente allo sportello. Il vagone era vuoto, il treno si fermava cinque minuti. All’ultimo i facchini, gli altri impiegati, il bigliettinaio, il capo stazione, tutta la poca gente di quell’ora si aggruppò in silenzio sotto quel vagone: il vecchio stava in piedi incorniciato dallo sportello nella luce smorta dell’alba, che dava un pallore di ritratto antico alla sua faccia. Poi la locomotiva gettò il solito fischio, e il treno oscillando fece traballare il colonnello: nell’istante medesimo tutto quel crocchio pallido di una indefinibile emozione si traeva macchinalmente il cappello come per un supremo saluto. Parve che il colonnello si rovesciasse; ma improvvisa la sua mano, tagliando coll’antico gesto automatico l’aria fuori dallo sportello, fece un saluto militare, che il treno già in moto interruppe.

    La locomotiva fischiava ancora.

    Il colonnello sedette nel vagone vuoto colla canna fra le mani e il mento sulla canna.

    Così viaggiò più di venti ore: giunse a Tolone.

    Nel porto molti bastimenti arrivavano e partivano; gliene fu indicato uno che faceva rotta per il Capo di Buona Speranza. Era un vapore inglese, l’«INFLEXIBLE». Quando il bastimento fu al largo, il colonnello rimasto insensibile al tramestio della partenza andò alla punta di poppa e stette guardando verso la Francia.

    Naturalmente egli fu subito una meraviglia a bordo.

    I passeggeri, francesi ed inglesi, ammirati della sua alta figura, cui l’abbigliamento e la croce davano quasi un carattere di apparizione, si domandavano sussurrando dove mai quel soldato di quasi un secolo potesse andare. Egli non parlava con nessuno. Il suo occhio fisso sull’infinito del mare pareva inerte, la sua fisonomia era immobile. Ma sebbene il mare fosse agitato, e il vapore avesse un forte rollìo, e molti soffrissero il mal di mare, il suo passo pareva quello di un viaggiatore rotto a tutte le traversate.

    All’indomani un’altra curiosità venne a contendergli il primato.

    Era un bel giovane biondo, di statura atletica, coi capelli lunghi a riccioli, che contrastavano colla severa eleganza del suo soprabito nero. Il volto illuminato da due grandi occhi azzurri, pieni di riverberi freddi come quelli di un blocco di ghiaccio al sole, era quasi macilento; aveva il mento quadro, il naso aquilino, e una striscia bianca e sottile di cicatrice, che dall’orecchio sinistro gli si perdeva nelle frequenti contrazioni della bocca.

    Ma la sua macilenza finiva al viso, sotto aveva un collo da toro e due spalle da Ercole. Al momento d’imbarcarsi nessuno gli aveva badato, il mattino seguente tutti lo ammiravano.

    Egli passeggiava sul ponte come assorto in una idea senza accorgersi degli altri, a un tratto s’imbatté nel colonnello.

    - Voi foste un soldato di Napoleone I, signore? - gli chiese con moto repentino in eccellente francese.

    - Lo sono - ribatté il colonnello con voce lenta e fredda.

    Quegli stava per replicare, ma si rattenne: il colonnello passò oltre.

    Alcune signore avevano avvertito quello scambio di parole senza intenderle, quindi il colonnello non si vide più per quella giornata. Un’altra mattina comparve all’alba sul ponte, poi si accostò al pilota e gli domandò indicandogli un’isola già oltrepassata:

    - Si chiama?

    - L’Assunzione.

    - Questo - mormorò - sarebbe stato il nome per la sua isola! -

    Tutto quel giorno il tempo fu cattivo, soffiavano molti venti, il mare aveva come dei muggiti d’impazienza, delle onde colleriche, le quali si rompevano schiumando contro la chiglia del vapore. Molti passeggeri divennero inquieti, il cielo era quasi bianco di serenità. Poi venne la sera e il sole sparve improvvisamente all’orizzonte come inghiottito da un vortice.

    A mezzanotte il ponte era deserto.

    Il colonnello seduto a poppa volgendovi le spalle guardava innanzi a sé nel buio; il vapore ansava, ma sotto il suo rullìo si sentiva sempre il silenzio del mare.

    Improvvisamente una figura nera gli si fermò dinanzi, parve attendere un istante, quindi gli sedette vicino.

    - Io sono di Mosca - disse poi. - Eravate voi, signore, della Grande Armata contro la Russia?

    - Sì.

    Il giovane si alzò, gli prese una mano e recandosela repentinamente alle labbra esclamò:

    - Permettetemi, permettetemi, signore! Noi, l’ultimo popolo nella storia d’Europa, dobbiamo il nostro attuale risveglio a Napoleone. Voi ci avete invasi, ci avete sconfitti, perché la civiltà sconfiggerà sempre la barbarie; poi le nostre nevi vi copersero, il nostro ghiaccio vi gelò. Noi v’inseguimmo come lupi, arrivammo sino a Parigi, e Parigi ci rivelò a noi stessi. Allora sentendo di essere barbari cessammo di esserlo. Voi eravate, signore, della grande campagna!

    - Sono stato di tutte.

    - Tutte! - proruppe guardandolo con ammirazione: - a tutte le battaglie, a tutti gli assedi, da Madrid a Mosca, da San Giovanni d’Acri a Waterloo!

    - A tutte - rispose il vecchio con un accento, che sembrava uscire da un sogno.

    - Quale epopea e quale grandezza per Napoleone se invece di essere un conquistatore fosse stato un apostolo come la storia gl’imponeva! Ma fu ben punito: Sant’Elena è stata la prigione del tiranno.

    - Napoleone non fu mai prigioniero - tuonò il vecchio; - nessuno lo batté mai veramente: solo qualche volta noi ci trovammo in troppo pochi o morimmo in troppi per poter vincere, ecco tutto! Gl’Inglesi, che lo tradirono sulla parola, non osarono tenerlo, e lo misero sopra uno scoglio coll’Oceano per sentinella. Eppure - mormorò con una pausa, quasi parlando coi propri ricordi - gl’Inglesi sono buoni soldati! -

    E la conversazione cadde; ma il giovane, che evidentemente vi si appassionava, tentò di riannodarla.

    - Il mondo è mutato: alle battaglie sanguinose stanno per succedere le lotte feconde del lavoro. Tutti i tiranni d’Europa, meno il nostro, hanno dovuto transigere col popolo, la libertà arriva da tutte le parti e scalza il vecchio edificio del privilegio: non più guerre dinastiche, non più oziosi e signori, prepotenti e mezzani. Che tutti lavorino e siano liberi, la donna diventi uguale all’uomo, per unica patria il mondo. Benché con linguaggio diverso, tutti diremo la stessa parola, c’intenderemo negli scopi e nei mezzi: Napoleone non ha voluto credere al vapore, e oggi il vapore vale più di tutte le sue vittorie.

    - Che! - proruppe il vecchio, scagliando sul giovane uno sguardo, di cui il bagliore brillò nelle tenebre. La canna gli tremava nelle mani, parve voler prorompere, poi si rivolse verso il mare con un gran gesto.

    La notte era fosca, il mare ascoltava.

    - Vi ho offeso? - mormorò umilmente il giovane.

    Il vecchio si piegò:

    - Siete russo, avete detto: comanda ancora lo czar a Pietroburgo?

    - Per poco! - ribatté a denti stretti con un suono che parve di bramito.

    - A Parigi che cosa c’è?

    - La Repubblica.

    - E prima?

    - La Comune.

    - Che cosa è? Che cosa ha fatto?

    - La Comune - replicò l’altro con accento entusiasta - è l’uguaglianza di tutti nel lavoro e nella retribuzione.

    - Ne parlavano anche prima di Napoleone: che cosa ha fatto?

    - Ha abbattuto la sua colonna - rispose il giovane punto dal freddo di quella indifferenza.

    Il vecchio non ebbe che un fremito.

    - Nemmeno i vermi avranno rispettato il suo cadavere! L’Europa è dunque come egli l’ha lasciata. Napoleone solo poteva farne un impero; era la sua idea, noi l’abbiamo seguita dappertutto. Io aveva quindici anni quand’egli mi prese nel suo esercito, camminavo quasi nascosto nell’ombra della bandiera. Allora un sergente valeva un re! A Roma abbiamo battuto il papa, alle Piramidi abbiamo sconfitto Maometto, abbiamo trionfato dovunque: egli guardava, noi vincevamo. A Madrid, quando l’imperatore ha fatto scoperchiare la tomba di Carlo V, io ero lì: a Vienna ho visto l’imperatore Francesco seguire Napoleone col cappello in mano, a Berlino pigliammo la spada di Federico, da Mosca ci trasportammo dietro nella ritirata la grande croce d’Ivano il Terribile.

    - E la perdeste.

    - La buttammo in un lago, Napoleone buttava via tutto, le croci e le corone, i reggimenti e gl’imperi. Che cosa credete che sia un regno? Ci avevano messo dei secoli a farlo, noi lo conquistavamo in una settimana. Noi eravamo la Grande Armata, il resto era il mondo. Se Napoleone non fosse morto giovane, l’avremmo preso tutto, saremmo andati per le Indie e ritornati per l’America. Tutti i popoli ci aspettavano.

    - E che cosa avreste recato loro? -

    Il vecchio sostò, poi guardandolo serenamente rispose:

    - Napoleone.

    - Comprendo - proseguì l’altro rattenuto un istante da quella immensa parola. - Il vostro è stato un gran sogno, ma la nostra realtà è anche più grande. Voi eravate la gloria e noi siamo la libertà, voi eravate l’esercito e noi siamo la moltitudine: voi siete stati gli ultimi conquistatori della storia. La guerra millenaria dell’umanità condensandosi in uno sforzo supremo ha prodotto le vostre battaglie; ora la guerra dei popoli è conchiusa e comincia quella delle classi: la prima condensò le nazioni, la seconda le dissolverà in un solo popolo. Una volta il soldato si batteva per il generale, domani vincerà per se stesso.

    Il vecchio evidentemente affaticato fece uno sforzo.

    - Vedete là quella costellazione? Un giorno la chiameranno forse di Napoleone: io ci sono, voi con chi siete?

    - Sono nichilista! - Poi abbassando la voce soggiunse: - Noi lavoriamo nel secreto a rovinare il vecchio impero per costruire la giovane Russia, cospiratori nell’ombra, martiri al sole.

    - Le vostre armi?

    - Tutte quelle che un uomo può usare.

    - Avete vinto nessuna battaglia?

    - Abbiamo ucciso un imperatore.

    - Ma l’impero è rimasto.

    E il vecchio non parlò più.

    Il mare era buio, le stelle brillavano ancora. Passarono forse due ore senza che i due strani interlocutori, caduti in una meditazione, forse profonda come quel mare, e scintillante di pensieri come il cielo di stelle, parlassero. Il vapore avanzava sempre agitando nell’ombra un pennacchio di fumo.

    Poi il vecchio mormorò:

    - Sono tutti morti… - e la testa gli ricadde pesantemente sopra le mani congiunte sulla canna, come sotto il peso di quell’enorme poema, del quale era l’ultimo verso, di quei due milioni e mezzo di soldati, ai quali solo era sopravvissuto.

    In quel momento l’alba cominciava a spuntare; lontano, in fondo all’orizzonte, una macchia bruna ed immobile poteva essere un’isola.

    - Eccola! - esclamò il giovane levandosi.

    La faccia del vecchio raggiò.

    Il mare mormorava, l’alba cresceva, il vapore rantolava sordamente. Allora il vecchio alzò ambo le mani come invocando e una lagrima, l’ultima, gli scese dagli occhi appannati. L’altro lo guardò trasalendo. Il vecchio soldato si trasfigurava: i primi rossori dell’alba sembravano vampate di cannoni lontani, l’onde avevano dei fremiti di battaglia, la costellazione era scomparsa, quando uno scoppio immenso squarciò l’Oceano e il sole sfolgorò.

    - Viva Napoleone! - gridò il vecchio salutando militarmente come se lo pigliasse per il fantasma del morto imperatore.

    Il sole saliva sopra Sant’Elena.

    - Andate a visitare la sua tomba? - domandò il giovane.

    - A morirvi. Egli è stato il primo, io sono l’ultimo.

    E fu l’ultima parola.


    Il canarino

    Il magnifico gatto d’Angora tornò a sdraiarsi sullo sgabello.

    Ella riprese il libro dal tavolo, e abbandonando il capo sulla spalliera con un morbido atto di civetteria, che contrastava colla dura marmorea bellezza del suo volto, riprese:

    - Bonghi ha ragione: naturalmente, voi, suo avversario politico e filosofico, non potrete convenirne, troverete forse questa sua prefazione al Fedone fiacca e pesante, ma chi potrebbe oggi scriverne una degna? Forse noi non lo possiamo più.

    - Perchè?

    - Non me lo domandate, giacchè lo sapete fin troppo. Io, una signora, che ha letto poco e capito meno, non posso spiegarvelo, ma noi sentiamo oggi diversamente dai greci, giudichiamo con altri criteri, amiamo un’altra bellezza. Nessun oratore parlando alla Camera si fa accompagnare da un flauto, nessun avvocato come Iperide sveste oggi la propria accusata davanti alle Assise: il nostro abbigliamento troppo complicato darebbe tempo ai carabinieri d’intervenire, mentre la stessa accusata non sentirebbe forse più la forza di tale argomento.

    - Siete ben sicura che l’aneddoto d’Iperide non sia una favola? - egli ribattè cercando evidentemente d’irritarla.

    - In questo caso non sarebbe che più vera: credete che se ne potrebbe inventare una simile sui nostri giurati? Bonghi ha tradotto Platone…

    - Perchè?

    - Se mi aveste domandato per chi, vi avrei risposto: per noi, per tutti coloro, che ignorano il greco; vedete bene che dedica la prefazione alla principessa di Teano, la più bella signora d’Italia. Certo una traduzione dovrebbe essere come un ritratto, ma Bonghi non è un artista, non sarà forse nemmeno un filosofo, come voi sostenete, però è un ingegno. Come quegli scienziati, che vanno a studiare le flore dei paesi lontani e ritornano con una cassetta di fiori secchi, egli ci reca un Platone vizzo, senza colore e senza profumo. Non importa, io ringrazio Bonghi.

    - Ma egli - proseguì l’illustre critico, rattenendo un moto di dispetto ed ammirando involontariamente la superba bellezza della duchessa - pretende di tradurre davvero. Non è il gentiluomo, che tenta l’impossibile per una signora affrontando magari il ridicolo e trionfandone con un sorriso. Voi siete troppo buona con lui, e vi dimenticate che il nostro secolo possiede ancora un uomo capace di tradurre Platone: perchè non lo ha voluto? Indovinate il suo nome?

    - E chi non indovinerebbe? Vi sono forse due scrittori come lui? Come mi dispiacque di vederlo a Firenze per il congresso degli orientalisti! Io, che me lo ero immaginato con una bella testa di filosofo antico ammorbidita da una eleganza femminile, non vidi che un fattore volgare ed atticciato, cui l’essere stato quasi prete dava ancora un impaccio indefinibile, e due occhi troppo belli facevano una fisonomia inaccettabile. Evidentemente quegli occhi li aveva rubati.

    - A chi?

    - Ad una donna, che avrebbe dovuto essere un poeta se Dio avesse consentito alle donne di esprimere la poesia invece d’ispirarla. Avete ragione Renan solo poteva tradurre Platone. Vi ricordate la sua preghiera sull’Acropoli di Atene? Avete ancora letto l’ultimo capitolo del suo Ecclesiaste? È uscito ieri. La lingua francese può rendere la greca? A giudicare da Cousin m’hanno detto di no: a leggere Renan io, che non so il greco, affermo intrepidamente di sì.

    - Forse Renan non ha mai ricevuto complimento più bello. Invano Zola disperato d’imitarlo tenta d’impicciolirlo paragonandolo a Gauthier: Renan scrive e Gauthier bulina, a Gauthier il pensiero deriva quasi sempre dalla frase, Renan ha la frase del proprio pensiero. La loro lingua è diversa: quella di Gauthier a girandole di fiori e di fuochi, piena di ricercatezze recondite e profumate, di parole rare come le gemme, scoppiettanti d’iridi e di baleni. I suoi periodi oscillano come incensieri, in tutti i suoi disegni predomina il rabesco, la confusione prodiga ed inesauribile dell’ornato, la ricchezza che impazza nella ricchezza, la melodia che si perde nel labirinto delle variazioni.

    - Vi è del Talberg in lui.

    - Forse… Renan è semplice, non si può essere bello altrimenti. Guardate Zola, che combatte Gauthier e Victor Hugo: ebbene, il suo stile è una fusione dei loro due, talvolta nelle qualità più spesso nei difetti, mentre la sua arte discende da Balzac, che confessa, e dai romanzieri inglesi, che nega. La sua originalità di artista e di pensatore sta nei soggetti prescelti; Zola oggi è il più grande perchè è il più moderno. Un passo ancora e le finezze linguistiche e sensistiche di Gauthier si cambieranno pei Goncourt in vanità di astruserie, che annebbieranno loro sovente la verità dei quadri. Il fino diventerà impalpabile, l’indicibile sarà detto, ma l’incompreso sarà aumentato.

    La duchessa ebbe un sorriso.

    - E Renan? Parlatemi di Renan, di questo uomo, che discutendo è sempre della opinione del proprio avversario.

    - Vi piace questa ultima formula del suo scetticismo?

    - Se tutti gli uomini fossero scettici con noi alla sua maniera, e se Renan fosse bello!

    - Lo è. A chi paragonarlo per farvelo meglio sentire? Egli non è un pensatore nel senso altissimo della parola, non ha il genio, che apre o chiude una epoca. Tutte le creazioni sono informi, tutte le sintesi incompiute: nelle prime la forma recalcitra, nelle seconde la materia sfugge. Egli non ha inventato nulla, ma sa quasi tutto, ha percorso la storia e la geografia del mondo: l’Oriente gli ha ceduto coi propri colori le sorgenti della poesia e della pittura, la Grecia gli ha dato la bellezza, Roma antica il senno dell’equità, la Germania moderna la critica per tutte le dottrine. Scettico vero, egli concilia in sè stesso le contraddizioni di tutti i sistemi, come la vita risolve nel proprio fatto l’antagonismo di tutte le forze. Michelet ha detto che la storia è una resurrezione, ma scrivendola non ha sempre potuto trionfare della morte; Renan ha giudicato la vita un romanzo, e ha scritto quello di un uomo oggi ancora creduto da quasi tutti un Dio. Il romanzo è per lo più una tragedia indebolita, nella quale la disperazione diventa malinconia e il singhiozzo sorriso. Renan sorride. Egli credente solo nella vita, non ne accetta che la formula più alta, impossibile a tutti i sistemi, la bellezza. La vita è un fatto che la scienza cerca di decomporre, la storia di raccontare, l’arte di ripetere: l’arte è ancora la più fortunata. Forse Schelling aveva ragione affermando in essa l’ultimo momento del pensiero, se la creazione fu il primo momento della vita.

    - Oh!

    - Non mi credete? Ritorniamo dunque a Renan. Che direbbe oggi di lui Balzac morto nell’ammirazione di Gauthier? Uno scrittore per diventare veramente bello non deve essere novatore né del pensiero, né della forma; forse questa affermazione scritta susciterebbe polemiche e spropositi, ma io mi vi ostino perchè ogni individuo non può essere perfetto che adulto. La Grecia rappresenta la perfezione del pensiero moderno, quella del nostro secolo non so dove o quando avverrà. Uno scrittore per sperare di essere perfetto deve trovare tutto fatto attorno a sé, nel meriggio di un sistema, il quale abbia felicemente maturato tutto lo spirito di un popolo. Vedete, Renan giunge dopo che i romantici hanno rinnovellato la vecchia lingua classica e prima che i nuovi naturalisti la rimettano nel crogiuolo: ecco forse perché egli scrive meglio di tutti. Però Renan è ancora più scrittore che artista, non rappresenta ma dice; solamente per questo non basta la sapienza della lingua, giacchè Littré sapendo la storia intima di ogni parola gli rimane incalcolabilmente inferiore. Filologia e chimica formano le parole e i colori, la natura e i pittori inventano i toni.

    E si fermò.

    - Renan, Renan! – tornò a provocarlo la duchessa senza lasciargli nemmeno il tempo di respirare – fatemi il suo ritratto. Avete cominciato e vi siete ancora distratto: volete Bonghi in compenso? Ve lo cedo, sebbene incominci a diventarmi simpatico, oggi, che tutti si vantano d’insultarlo.

    - Non crediate così di chiedermi poco e di offrirmi troppo – rispose con certa amarezza.– voi, duchessa, che sapete tanto bene il latino, vi ricordate senza dubbio la definizione della bellezza data da Cicerone: la bellezza si può esprimere talvolta, più raramente raffigurarla, analizzarla mai. Non vi è spesso sembrato che una pagina di Renan rassomigli a una pagina di Mozart, ne abbia la stessa malinconia latente, lo stile puro quantunque capriccioso, l’inimitabilità dell’espressione precisa nella parola e illimitata nel sentimento? Balzac ha detto che la prima qualità di un libro è di far pensare; per un libro di filosofia, forse, ma per un libro d’arte ne dubito. Renan ottiene di meglio: la sua prosa è una musica che vi fa sognare; ecco il prestigio, il fine ultimo dell’arte, dare all’anima una seconda vita, sostituire alla creazione della natura quella dello spirito. L’arte non può avere sistemi. Vedete come Zola, che sarebbe benissimo dotato, sia costretto ad esagerare le scene per sostenere l’esagerazione delle proprie polemiche. In tutte le opere di Renan non vi è forse una sola vera negazione; egli sa che un’idea ne vale un’altra, e che per un’idea come per un individuo il fatto di esistere ne implica il diritto e ne contiene la ragione. La negazione, che pretende distruggere, è al tempo stesso un’impotenza ed una assurdità; essa deve semplicemente essere il limite di ogni individuo attorno a sé medesimo, l’orbita della sua attività. Quindi, se Cousin disse impropriamente che l’errore è la forma della verità nella storia, Renan più fortunato comprese che la verità non può risultare se non da tutte le contraddizioni, ed affermò che solo nel contraddirsi sempre e sinceramente stava la speranza di avere qualche volta ragione. Volete un libro, che contenga la verità?

    - C’è?

    - Sì.

    - Datemelo.

    - Ma non avrete né il tempo né la pazienza di leggerlo. Pigliate il catalogo di una biblioteca, e se la biblioteca ha qualche milione di libri quel catalogo contiene la verità.

    - Non si potrebbe farne un estratto?

    - Si è tentato, si tenterà ancora inutilmente. Nessun ingegno sarà mai così vasto da abbracciare tutto, nessuna vita così lunga da concederne il tempo; l’arte sola, essendo come la vita una creazione, può talvolta essere vera mantenendosi inconscia. Intervenga la coscienza, e subito una sensazione o un’idea facendosi dell’arte un baluardo per difendersi o un monumento per glorificarsi, l’opera d’arte sarà un’opera morta. Vi siete mai domandata se Renan creda in Dio con una fede più forte che in qualunque altro principio? Domandate a voi stessa, dopo averlo letto, se ci credete: non ne saprete nulla. Vi parrà di essere in alto, nell’azzurro, che le stelle vi guardino con sorrisi di bontà, che la terra vi richiami col sospiro dei fiori, che le nubi si aprano per accogliervi, che il vento si rattenga per sostenervi; vi sentirete l’anima più pura, il pensiero più vivido, il cuore più caldo. E Dio? Forse quella non è che la sua presenza: domandatelo a Renan, domandatelo a voi stessa, e non otterrete risposta. L’arte vi avrà barattate l’estasi della natura, una strofa avrà avuto lo sfondo di una prospettiva, una pagina vi sarà parsa un panorama; le due creazioni si saranno valse, ma se vorrete analizzarle, la scienza non vi darà che dei misteri e dei cadaveri, la critica che delle contraddizioni e delle parole. Si può forse, esprimere in altro modo ciò che la musica dice? Sarebbe essa ancora l’ultimo sforzo del linguaggio, il verbo dei pensieri muti altrimenti? Ebbene, anche la bellezza è una musica ineffabile come la vita stessa.

    - Triste musica, allora!

    - Siete pessimista?

    - Sì.

    Egli sorrise.

    La duchessa si alzò per offrirgli da un tavolino prezioso d’intarsi l’astuccio delle sigarette, e rimase qualche istante in piedi guardandolo. La sua bella testa pallida aveva sempre la stessa espressione di freddezza quasi crudele.

    - La prefazione di Bonghi conclude per la vita – egli soggiunse con accento leggero di provocazione. Io potrei ripetervi la sua frase: poiché siete tanto bella, tutto non è dunque dolore quaggiù.

    - Allora perché la bellezza non basta alla felicità dell’amore e l’amore spesso non si cura nemmeno della bellezza? Bonghi ha ragione quando afferma contro la falsa serenità dei nuovi pagani che il mondo antico è stato infelice quanto il moderno, e che la malinconia non è un male cristiano. Noi siamo tutti infelici!

    - Voi! - egli esclamò con accento duro, forse irritato seco medesimo dalle troppe idee sciupate in quel dialogo, e che avrebbero potuto bastare a parecchi dei suoi articoli.

    Ma ella non si degnò nemmeno di notare l’interruzione.

    - Lo so - proseguì vivamente – ormai si è detto tutto sul dolore e sul piacere, si è preteso che siano l’uno la cessazione dell’altro, poi due gradi di una stessa sensazione. Vundtz e Lotze, vedete che sono bene informata, me lo diceva ieri il professore Tommasi-Crudeli, presso a poco sostengono questa tesi: ma vi è una obbiezione. Se il dolore deriva dalla vibrazione troppo violenta di un nervo, perché una parola fa spesso più male di una pugnalata, e la frattura di una gamba è meno spasmodica talvolta di una rottura galante? Il dolore morale è dunque diverso dal dolore fisico? La fame crea l’accattonaggio, mentre la vergogna di aver fame produce sovente il suicidio. Perché nella maggior parte dei casi noi affrontiamo il dolore per arrivare al piacere? Perdonate se io, donna, oso gettare con le mie mani lo scandaglio in certi abissi, ma la questione ci interessa tutti, grandi e piccoli, uomini e donne.

    - Non vi farò che una obbiezione la più volgare ed insieme la più forte: se la vita è infelice, perché tutti l’accettano?

    - Perché dimenticate voi i suicidi? Coloro che accettano, sperano, ecco tutto.

    - La speranza deriva essa pure dalla vita: ma volete davvero una ragione irresistibile? – seguitò con evidente intenzione di sarcasmo guardandola negli occhi. – poiché ogni fenomeno è doppio, pigliate i due estremi della gamma, la generazione e la morte: la voluttà dell’una è più intensa del dolore dell’altra. Anzi, Leopardi, un pessimista che non potete rinnegare, sosteneva con ragione che la morte sola è senza dolore.

    - Siete ben sicuri che in ogni fenomeno della vita il piacere sia maggiore del dolore?

    - Il fatto della vita è per me, esaminatelo imparzialmente.

    - Lo volete? – ribattè sollevando il capo dalla spalliera della poltrona.

    Egli tornò a sorridere.

    Allora la duchessa si alzò lentamente, andò alla finestra, dinanzi alla quale, fra le tende penzolava una magnifica gabbia dorata; ne aperse lo sportello e ne trasse colla mano il canarino. Il grazioso animaletto mise due o tre stridi lasciandosi prendere dalla padrona.

    - Alì - ella si volse chiamando il magnifico gatto d’Angora, che sonnecchiava sopra uno sgabello.

    La duchessa aveva appena avuto il tempo di sedersi che Alì le era saltato sulle ginocchia e, percotendogliele con la coda, le si strofinava con le orecchie nel seno. Poi si accovacciò nel suo grembo guardando tranquillamente il canarino.

    La duchessa gli passò una mano sul capo e appressandogli sicuramente l’altra alla bocca gli presentò l’uccellino per le zampe. Il canarino gettò un grido.

    Alì lo teneva già addentato sino al dosso.

    - Che cosa fate? – esclamò balzando in piedi l’illustre critico, che aveva atteso a tutta quella manovra senza capirla.

    - Vi confuto - rispose mostrandogli freddamente il gatto, che sgretolava con pigra ghiottoneria quel corpicino ancora vivo.

    Entrambi erano diventati pallidi. La duchessa scacciò Alì con un gesto, si alzò e tendendogli la mano ripeté con indefinibile sorriso:

    - Adesso ditemi ancora che nella vita il piacere di mangiare vale il dolore di essere mangiato.




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