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    Angelo Poliziano

    Stanze de messer Angelo Politiano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici, Libro II

    Eron già tutti alla risposta intenti
    e pargoletti intorno all’aureo letto,
    quando Cupido con occhi ridenti,
    tutto protervo nel lascivo aspetto,
    si strinse a Marte, e colli strali ardenti
    della faretra gli ripunse il petto,
    e colle labra tinte di veleno
    baciollo, e ’l fuoco suo gli misse in seno.

    Poi rispose alla madre: "E’ non è vana
    la cagion che sì lieto a te mi guida:
    ch’i’ ho tolto dal coro di Diana
    el primo conduttor, la prima guida,
    colui di cui gioir vedi Toscana,
    di cui già insino al ciel la fama grida,
    insino agl’Indi, insino al vecchio Mauro:
    Iulio, minor fratel del nostro Lauro.

    L’antica gloria e ’l celebrato onore
    chi non sa della Medica famiglia,
    e del gran Cosmo, italico splendore,
    di cui la patria sua si chiamò figlia?
    E quanto Petro al paterno valore
    n’aggiunse pregio, e con qual maraviglia
    dal corpo di sua patria rimosse abbia
    le scelerate man, la crudel rabbia?

    Di questo e della nobile Lucrezia
    nacquene Iulio, e pria ne nacque Lauro:
    Lauro che ancor della bella Lucrezia
    arde, e lei dura ancor si mostra a Lauro,
    rigida più che a Roma già Lucrezia,
    o in Tessaglia colei che è fatta un lauro;
    né mai degnò mostrar di Lauro agli occhi
    se non tutta superba e suo’ begli occhi.

    Non priego non lamento al meschin vale,
    ch’ella sta fissa come torre al vento,
    perch’io lei punsi col piombato strale,
    e col dorato lui, di che or mi pento;
    ma tanto scoterò, madre, queste ale,
    che ’l foco accenderolli al petto drento:
    richiede ormai da noi qualche restauro,
    la lunga fedeltà del franco Lauro,

    che tutt’or parmi pur veder pel campo,
    armato lui, armato el corridore,
    come un fer drago gir menando vampo,
    abatter questo e quello a gran furore,
    l’armi lucenti sue sparger un lampo
    che tremar faccin l’aier di splendore;
    poi, fatto di virtute a tutti essemplo,
    riportarne il trionfo al nostro templo.

    E che lamenti già le Muse ferno,
    e quanto Apollo s’è già meco dolto
    ch’i’ tenga il lor poeta in tanto scherno!
    et io con che pietà suo’ versi ascolto!
    ch’i’ l’ho già visto al più rigido verno,
    pien di pruina e crin, le spalle e ’l volto,
    dolersi colle stelle e colla luna,
    di lei, di noi, di suo crudel fortuna.

    Per tutto el mondo ha nostre laude sparte,
    mai d’altro mai se non d’amor ragiona;
    e potea dir le tue fatiche, o Marte,
    le trombe e l’arme, e ’l furor di Bellona;
    ma volle sol di noi vergar le carte,
    e di quella gentil ch’a dir lo sprona:
    ond’io lei farò pia, madre, al suo amante
    ch’i’ pur son tuo, non nato d’adamante.

    I’ non son nato di ruvida scorza,
    ma di te, madre bella, e son tuo figlio;
    né crudele esser deggio, e lui mi sforza
    a riguardarlo con pietoso ciglio.
    Assai provato ha l’amorosa forza,
    assai giaciuto è sotto ’l nostro artiglio;
    giust’è ch’e’ faccia ormai co’ sospir triegua,
    e del suo buon servir premio consegua.

    Ma ’l bel Iulio ch’a noi stato è ribello,
    e sol di Delia ha seguito el trionfo,
    or drieto all’orme del suo buon fratello
    vien catenato innanzi al mio trionfo;
    né mosterrò già mai pietate ad ello
    finché ne porterà nuovo trionfo:
    ch’i’ gli ho nel cor diritta una saetta
    dagli occhi della bella Simonetta.

    E sai quant’è nel petto e nelle braccia,
    quanto sopra ’l destriero è poderoso:
    pur mo’ lo vidi sì feroce in caccia,
    che parea il bosco di lui paventoso;
    tutta aspreggiata avea la bella faccia,
    tutto adirato, tutto era focoso.
    Tal vid’io te là sovra el Termodonte
    cavalcar, Marte, e non con esta fronte.

    Questa è, madre gentil, la mia vittoria;
    quinci è ’l mio travagliar, quinci è ’l sudore;
    così va sovra al cel la nostra gloria,
    el nostro pregio, el nostro antico onore;
    così mai scancellata la memoria
    fia di te, madre, e del tuo figlio Amore;
    così canteran sempre e versi e cetre
    li stral, le fiamme, gli archi e le faretre".

    Fatta ella allor più gaia nel sembiante,
    balenò intorno uno splendor vermiglio,
    da fare un sasso divenire amante,
    non pur te, Marte; e tale ardea nel ciglio,
    qual suol la bella Aurora fiammeggiante;
    poi tutto al petto si ristringe el figlio,
    e trattando con man suo chiome bionde,
    tutto el vagheggia e lieta li risponde:

    "Assai, bel figlio, el tuo desir m’agrada,
    che nostra gloria ognor più l’ale spanda;
    chi erra torni alla verace strada,
    obligo è di servir chi ben comanda.
    Pur convien che di nuovo in campo vada
    Lauro, e si cinga di nuova ghirlanda:
    ché virtù nelli affanni più s’accende,
    come l’oro nel fuoco più risplende.

    Ma prima fa mestier che Iulio s’armi
    sì che di nostra fama el mondo adempi;
    e tal del forte Achille or canta l’armi
    e rinnuova in suo stil gli antichi tempi,
    che diverrà testor de’ nostri carmi,
    cantando pur degli amorosi essempi:
    onde la gloria nostra, o bel figliuolo,
    vedrèn sopra le stelle alzarsi a volo.

    E voi altri, mie’ figli, al popol tosco
    lieti volgete le trionfante ale,
    giten tutti fendendo l’aer fosco;
    tosto prendete ognun l’arco e lo strale,
    di Marte el dolce ardor sen venga vosco.
    Or vedrò, figli, qual di voi più vale:
    gite tutti a ferir nel toscan coro
    ch’i’ serbo a qual fie ’l primo un arco d’oro".

    Tosto al suo dire ognuno arco e quadrella
    riprende, e la faretra al fianco alluoga,
    come, al fischiar del comito, sfrenella
    la ’gnuda ciurma e remi, e mette in voga.
    Già per l’aier ne va la schiera snella,
    già sopra la città calon con foga:
    così e vapor pel bel seren giù scendono,
    che paion stelle mentre l’aier fendono.

    Vanno spiando gli animi gentili
    che son dolce esca all’amoroso foco;
    sovress’e’ batton forte i lor fucili,
    e fanli apprender tutti a poco a poco.
    L’ardor di Marte, ine’ cor giovenili
    s’affige, e quelli infiamma del suo gioco;
    e mentre stanno involti nel sopore,
    pare a’ gioven far guerra per Amore.

    E come quando il sol li Pesci accende,
    tutta la terra è di suo virtù pregna,
    che poscia a primavera fuor si estende,
    mostrando al cel verde e fiorita insegna;
    così ne’ petti ove lor foco scende
    s’abbarbica un disio che drento regna,
    un disio sol d’eterna gloria e fama,
    che le ’nfiammate menti a virtù chiama.

    Esce sbandita la viltà d’ogni alma,
    e, benché tarda sia, Pigrizia fugge;
    a libertate l’una e l’altra palma
    legon gli Amori, e quella irata rugge.
    Solo in disio di gloriosa palma
    ogni cor giovenil s’accende e strugge;
    e dentro al petto sorpriso dal sonno
    li spirite’ d’amor posar non ponno.

    E così mentre ognun dormendo langue,
    ne’ lacci è ’nvolto onde già mai non esce;
    ma come suol fra l’erba el picciol angue
    tacito errare, o sotto l’onde el pesce,
    sì van correndo per l’ossa e pel sangue
    gli ardenti spiritelli, e ’l foco cresce.
    Ma Vener, com’e suo’ alati corrieri
    vide partiti, mosse altri pensieri.

    Pasitea fe’ chiamar, del Sonno sposa,
    Pasitea, delle Grazie una sorella,
    Pasitea che dell’altre è più amorosa,
    quella che sovra a tutte è la più bella;
    e disse: "Muovi, o ninfa graziosa,
    truova el consorte tuo, veloce e snella:
    fa che e’ mostri al bel Iulio tale imago,
    che ’l facci di mostrarsi al campo vago".

    Così le disse; e già la ninfa accorta
    correa sospesa per l’aier serena;
    quete sanza alcun rombo l’ale porta,
    e lo ritruova in men che non balena.
    Al carro della Notte el facea scorta,
    e l’aria intorno avea di Sogni piena,
    di varie forme e stranier portamenti,
    e facea racquetar li fiumi e i venti.

    Come la ninfa a’ suoi gravi occhi apparve,
    col folgorar d’un riso gliele aperse:
    ogni nube dal ciglio via disparve,
    che la forza del raggio non sofferse.
    Ciascun de’ Sogni drento alle lor larve
    gli si fe’ incontro, e ’l viso discoverse;
    ma lei, poi che Morfeo con gli altri scelse,
    gli chiese al Sonno, e tosto indi si svelse.

    Indi si svelse, e di quanto convenne
    tosto ammonilli, e partì sanza posa;
    a pena tanto el ciglio alto sostenne,
    che fatta era già tutta sonnacchiosa;
    vassen volando sanza muover penne,
    e ritorna a sua dea, lieta e gioiosa.
    Gli scelti Sogni ad ubidir s’affrettono
    e sotto nuove fogge si rassettono:

    quali i soldati che di fuor s’attendono,
    quando sanza sospetto et arme giacciono,
    per suon di tromba al guerreggiar s’accendono,
    vestonsi le corazze e gli elmi allacciono,
    e giù dal fianco le spade sospendono,
    grappon le lance e’ forti scudi imbracciono;
    e così divisati i destrier pungono
    tanto ch’alla nimica schiera giungono.

    Tempo era quando l’alba s’avicina,
    e divien fosca l’aria ove era bruna;
    e già ’l carro stellato Icaro inchina,
    e par nel volto scolorir la luna:
    quando ciò ch’al bel Iulio el cel destina
    mostrono i Sogni, e sua dolce fortuna;
    dolce all’entrar, all’uscir troppo amara,
    però che sempre dolce al mondo è rara.

    Pargli veder feroce la sua donna,
    tutta nel volto rigida e proterva,
    legar Cupido alla verde colonna
    della felice pianta di Minerva,
    armata sopra alla candida gonna,
    che ’l casto petto col Gorgon conserva;
    e par che tutte gli spennecchi l’ali,
    e che rompa al meschin l’arco e li strali.

    Ahimè, quanto era mutato da quello
    Amor che mo’ tornò tutto gioioso!
    Non era sovra l’ale altero e snello,
    non del trionfo suo punto orgoglioso:
    anzi merzé chiamava el meschinello
    miseramente, e con volto pietoso
    gridando a Iulio: "Miserere mei,
    difendimi, o bel Iulio, da costei".

    E Iulio a lui dentro al fallace sonno
    parea risponder con mente confusa:
    "Come poss’io ciò far dolce mio donno,
    ché nell’armi di Palla è tutta chiusa?
    Vedi i mie’ spirti che soffrir non ponno
    la terribil sembianza di Medusa,
    e ’l rabbioso fischiar delle ceraste
    e ’l volto e l’elmo e ’l folgorar dell’aste".

    "Alza gli occhi, alza, Iulio, a quella fiamma
    che come un sol col suo splendor t’adombra:
    quivi è colei che l’alte mente infiamma,
    e che de’ petti ogni viltà disgombra.
    Con essa, a guisa di semplice damma,
    prenderai questa ch’or nel cor t’ingombra
    tanta paura, e t’invilisce l’alma;
    ché sol ti serba lei trionfal palma".

    Così dicea Cupido, e già la Gloria
    scendea giù folgorando ardente vampo:
    con essa Poesia, con essa Istoria
    volavon tutte accese del suo lampo.
    Costei parea ch’ad acquistar vittoria
    rapissi Iulio orribilmente in campo,
    e che l’arme di Palla alla sua donna
    spogliassi, e lei lasciassi in bianca gonna.

    Poi Iulio di suo spoglie armava tutto,
    e tutto fiammeggiar lo facea d’auro;
    quando era al fin del guerreggiar condutto,
    al capo gl’intrecciava oliva e lauro.
    Ivi tornar parea suo gioia in lutto:
    vedeasi tolto il suo dolce tesauro,
    vedea suo ninfa in trista nube avolta,
    dagli occhi crudelmente esserli tolta.

    L’aier tutta parea divenir bruna,
    e tremar tutto dello abisso il fondo;
    parea sanguigno el cel farsi e la luna,
    e cader giù le stelle nel profondo.
    Poi vede lieta in forma di Fortuna
    surger suo ninfa e rabbellirsi il mondo,
    e prender lei di sua vita governo,
    e lui con seco far per fama eterno.

    Sotto cotali ambagi al giovinetto
    fu mostro de’ suo’ fati il leggier corso:
    troppo felice, se nel suo diletto
    non mettea morte acerba il crudel morso.
    Ma che puote a Fortuna esser disdetto,
    ch’a nostre cose allenta e stringe il morso?
    Né val perch’altri la lusinghi o morda,
    ch’a suo modo ne guida e sta pur sorda.

    Adunque il tanto lamentar che giova?
    A che di pianto pur bagnar le gote,
    se pur convien che lei ne guidi e muova?
    Se mortal forza contro a lei non puote?
    Se con sue penne il nostro mondo cova,
    e tempra e volge, come vuol, le rote?
    Beato qual da lei suo’ pensier solve,
    e tutto drento alla virtù s’involve!

    O felice colui che lei non cura
    e che a’ suoi gravi assalti non si arrende,
    ma come scoglio che incontro al mar dura,
    o torre che da Borea si difende,
    suo’ colpi aspetta con fronte sicura,
    e sta sempre provisto a sua vicende!
    Da sé sol pende, e ’n se stesso si fida,
    né guidato è dal caso, anzi lui guida.

    Già carreggiando il carro Aurora lieta
    di Pegaso stringea l’ardente briglia;
    surgea del Gange el bel solar pianeta,
    raggiando intorno coll’aurate ciglia;
    già tutto parea d’oro il monte Oeta,
    fuggita di Latona era la figlia;
    surgevon rugiadosi in loro stelo
    li fior chinati dal notturno gelo.

    La rondinella sovra al nido allegra,
    cantando salutava il nuovo giorno;
    e già de’ Sogni la compagnia negra
    a sua spilonca avean fatto ritorno;
    quando con mente insieme lieta et egra
    si destò Giulio e girò gli occhi intorno:
    gli occhi intorno girò tutto stupendo,
    d’amore e d’un disio di gloria ardendo.

    Pargli vedersi tuttavia davanti
    la Gloria armata in su l’ale veloce
    chiamare a giostra e valorosi amanti,
    e gridar "Iulio Iulio" ad alta voce.
    Già sentir pargli le trombe sonanti,
    già divien tutto nell’arme feroce:
    così tutto focoso in piè risorge,
    e verso il cel cota’ parole porge:

    "O sacrosanta dea, figlia di Giove,
    per cui il tempio di Ian s’apre e riserra,
    la cui potente destra serba e muove
    intero arbitrio di pace e di guerra;
    vergine santa, che mirabil pruove
    mostri del tuo gran nume in cielo e ’n terra,
    che i valorosi cuori a virtù infiammi,
    soccorrimi or, Tritonia, e virtù dammi.

    S’io vidi drento alle tue armi chiusa
    la sembianza di lei che me a me fura;
    s’io vidi il volto orribil di Medusa
    far lei contro ad Amor troppo esser dura;
    se poi mie mente dal tremor confusa
    sotto il tuo schermo diventò secura;
    s’Amor con teco a grande opra mi chiama,
    mostrami il porto, o dea, d’eterna fama.

    E tu che drento alla ’nfocata nube
    degnasti tua sembianza dimostrarmi,
    e ch’ogni altro pensier dal cor mi rube,
    fuor che d’amor dal qual non posso atarmi;
    e m’infiammasti come a suon di tube
    animoso caval s’infiamma all’armi,
    fammi in tra gli altri, o Gloria, sì solenne,
    ch’io batta insino al cel teco le penne.

    E s’io son, dolce Amor, s’io son pur degno
    essere il tuo campion contro a costei,
    contro a costei da cui con forza e ’ngegno,
    se ver mi dice il sonno, avinto sei,
    fa sì del tuo furor mio pensier pregno,
    che spirto di pietà nel cor li crei:
    mie virtù per se stesse ha l’ale corte,
    perché troppo è ’l valor di costei forte.

    Troppo forte è, signor, il suo valore,
    che, come vedi, il tuo poter non cura:
    e tu pur suoli al cor gentile, Amore,
    riparar come augello alla verdura.
    Ma se mi presti il tuo santo furore,
    leverai me sopra la tua natura;
    e farai, come suol marmorea rota,
    che lei non taglia e pure il ferro arrota.

    Con voi me ’n vengo, Amor, Minerva e Gloria,
    ché ’l vostro foco tutto ’l cor m’avvampa:
    da voi spero acquistar l’alta vittoria,
    ché tutto acceso son di vostra lampa;
    datemi aita sì che ogni memoria
    segnar si possa di mia eterna stampa,
    e facci umil colei ch’or mi disdegna:
    ch’io porterò di voi nel campo insegna.




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