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    Giovanni Pindemonte

    Il monte Berico

    Poemetto


    O fra quanti ne l’alma ausonia terra
    Ergon da l’imo suol le verdi cime
    Ver la sonante region de’ nembi
    Facili aprici colli, o il più gradito
    A le Oreadi Ninfe e a le Napee,
    O dolce al guardo mio, caro al mio core,
    Berico monte, io ti contemplo. E’ vaga
    La faccia de’ tuoi gioghi; i giorni tuoi
    Brillan sereni e puri, e di tue notti
    E’ soave il silenzio. Io ti rimiro
    Da le tue falde; e tu superbo sorgi
    In tua bellezza maestoso e immoto
    Le moli architettoniche, le mura
    Turrite, e i vetusti archi de l’amata
    Tua soggetta città guardi e vagheggi.
    Verde manto di fresca erba ti copre
    L’agevol dorso che s’adorna e cinge
    D’arboscei varj ne la pompa alteri
    De le fronzute chiome, e di feconde
    A’ rustici mariti olmi ramosi
    Congiunte viti. I fianchi tuoi squarciati
    Da l’aratro ingegnoso onde vestirli
    Di bionde messi, e le tue vaste spalle
    Sparsi qua e là superbi tetti, ameni
    Giardini, aurei palagi, e ricchi alberghi
    Godon di sostener: e Tempio augusto
    A la petrosa tua fronte è cimiero.
    Inoltro il passo pe’ tuoi clivi assorto
    Ne le tue meraviglie, e un fiato io sento
    Consolator d’aura gioconda, un nuovo
    Lusinghiero diletto, un moto interno
    Di gioia natural, che dalla fronte
    Mi discorre a le piante, e in ogni fibra
    Mi serpe, mi conforta i lassi spirti,
    M’apre e dilata il cor, m’inonda i sensi,
    E mi riempie di dolcezza sempre
    Tanto crescente più, quanto più salgo
    E al tuo vertice anelo. O ch’io trascorra
    Il portico devoto, opra romana,
    Che al gran Delubro adduce; o il trionfale
    Arco trapassi, e le marmoree scale
    A passi lenti ascenda, o il piè rivolga
    Pel ripido sentier del nudo sasso
    Che sostien la magion, de gli aquiloni
    Scopo a l’ingiurie, e che dal vento ha nome;
    Sempre nove bellezze, e nove scene
    Ridenti, e novi multiformi aspetti
    Mi si paran d’innanzi. Ah! del mio ciglio
    L’attonito stupor, de la mia calda
    Pittrice fantasia gli agili voli,
    E i dolci affetti del mio cor commosso
    Si dividon fra lor natura ed arte.
    Giungo su le tue vette, ed ah qual vasto
    Teatro di portenti! oh cari oggetti!
    Oh delizie del saggio! oh piacer puro
    Soltanto da gli Dei concesso ai sacri
    Cultori de le Muse, e tolto all’alme
    Vulgari di color, che affascinati
    Dal mondan fasto, e troppo a tutti noti
    Sono ignoti a se stessi! ovunque intorno
    Io mi rivolga, immobil resto, e sento
    Quasi rapito in estasi soave
    Farmi di me maggior. Giro lo sguardo
    Là dove l’igneo condottier del giorno
    Tremola d’Orïente in su le porte,
    E il guardo mio senza confine, o meta
    Nel vasto spazio s’inabissa e perde
    De l’ampia immensurabile pianura,
    Che giunge sin colà, ve’ le paludi
    Salse cerchian l’altera, opra de’ Numi,
    Gran pupilla del mar, città sovrana.
    Di prati folti di fiorita erbetta
    Fecondati de’ placidi ruscelli
    Dal cristallino umor, di ben partite
    Colte campagne da frondose schiere
    Di salici, di ontan, di pioppi e querce,
    E di celibi gelsi, e di feraci
    Viti divise; e seminate e sparse
    Di ville, di palagi, e d’abituri
    Da vicino offre il verdeggiante piano
    L’aspetto incantator, che a poco a poco
    Poi si dilegua, e si confonde e mesce
    Ne l’azzurro Orizzon. Torreggia in fianco
    Di Montegalda la vetusta rocca,
    E le sparute cime ergon da lunge
    Gli Euganei colli, e più lontan, de’ nembi
    Se il nebuloso vel ceda di Febo
    Al raggio vincitor, l’occhio discerne
    Le guglie eccelse de’ famosi templi,
    Che Brenta adora, e le Antenoree scopre
    Mura ospitali del saper. Là dove
    De’ gelidi Trïoni il fiato spira
    Men vasta, ma più varia e più vivace
    S’apre l’adorna scena. Ampia campagna,
    Pingue regno di Cerere e di Bacco,
    In cui terre e borgate e case e ville
    Quasi formicolando, a cento a cento
    Rompono il verde strato, appo le mura
    De la cittade appar. Colline e balze
    Frenan lo sguardo che da lunge ammira
    La turrita Marostica, il ridente
    Bassano, Asolo ameno ove cotanto
    Si ragionò d’amore, e al fin s’incontra
    Ne le opposte sublimi, antica fede
    De gli ammansati Cimbri, alpi canute.
    Piegando in ver l’occaso, io veggo altera
    Del selvoso Summan ferir le stelle
    L’ardua fronte bicipite, e più addietro
    Gli aspri ciglion di Recoar che tanto
    Per le acidule è chiaro acque salubri,
    E per alpestri rocce e cavernose
    Tane di lupi nota la nevosa
    Marana che del Berico divide
    Quel sovra ogni altro ameno, che il reale
    Con precipite corso Adige irriga,
    Sempre caro al mio cor terren felice,
    Che i miei vagiti udì. Sorgon più basso
    Di Creazzo i ben colti aprici colli
    A far leggiadra mostra, e incoronati
    Quei di Montecchio di tarlate torri,
    Di mezzo infranti merli, e di avanzate
    Ai secoli guerrier gotiche mura,
    La passata barbarie, e de l’alato
    Veglio divorator pingon gli oltraggi.
    Verso il meriggio si restringe e serra
    Lo spettacol gradito, e sol presenta
    A l’occhio indagator propinqui oggetti.
    Ma non men bello è il rimirar vicine
    Di Gogna, d’Arcugnan, di Spìanzana
    Le petrose villette, e le secrete,
    Nido di solitaria incolta gente,
    Ermetiche mura, e i nemorosi
    Di Valmarana taciti burroni:
    Luoghi abitati da un orror soave,
    Da una dolce tristezza. O amato Monte,
    Sazio non mai di rimirar d’intorno
    Quai di te dico cose, o quai tralascio?
    Quali accoppio o disgiungo? A te, o beata
    Dimora al genio, ed ai piaceri amica,
    Cedano a te Parnaso, Olimpo, ed Ida,
    E trasportino in te le Muse, i Numi,
    E le Grazie, e gli Amori il lor soggiorno.
    Ma che vegg’io? Fausto è l’augurio. Esulta,
    Berico monte, e ti solleva, e godi
    Di tua nova ventura. Ecco avverato
    Il felice presagio, e or più non hai
    Di Grecia i colli a invidiar. Non vedi
    Qual donzella un de’ tuoi più cari figli
    Peleo novello di Nereide amante
    Toglie a l’Adria, e a te guida? Essa di Musa
    Ha l’ingegno, ha la pura alma di Nume,
    Ha negli atti le Grazie, e Amor nel ciglio.


    1797




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