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    Giuseppe Parini

    La gratitudine

    Per Angelo Maria Durini Cardinale


    Parco di versi tessitor ben fia
    Che me l’Italia chiami;
    Ma non sarà che infami
    Taccia d’ingrato la memoria mia.
    Vieni o Cetra al mio seno;
    E canto illustre al buon DURINI sciogli,
    Cui di fortuna dispettosi orgogli
    Duro non stringon freno;
    Sì che il corso non volga ovunque ei sente
    Non ignobil favilla arder di mente.

    Me pur dall’ombra de’ volgari ingegni
    Tolse nel suo pensiero;
    E con benigno impero
    Collocò repugnante in fra i più degni.
    Me fatto idolo a lui
    Guatò la invidia con turbate ciglia;
    Mentre in tanto splendor gran meraviglia
    A me medesmo io fui:
    E sdegnoso pudore il cor mi punse,
    Che all’alta cortesìa stimoli aggiunse.

    Solenne offrir d’ambizïose cene,
    Onde frequente schiera
    Sazia si parta e altera,
    Non è il favor di che a bearmi ei viene.
    Mortale, a cui la sorte
    Cieco diede versar d’enormi censi,
    Sol di tai fasti celebrar sè pensi
    E la turba consorte.
    Chi sovra l’alta mente il cor sublima
    Meglio sè stesso e i sacri ingegni estima.

    Cetra il dirai; poi che a mostrarsi grato,
    Fuor che fidar nell’ali
    De la fama immortali,
    Non altro mezzo all’impotente è dato.
    Quei, che al fianco de’ regi
    Tanto sparse di luce e tanto accolse
    Fin che le chiome de la benda involse
    Premio di fatti egregi,
    A me, che l’orma umìl tra il popol segno,
    Scender dall’alto suo non ebbe a sdegno.

    E spesso i Lari miei, novo stupore!
    Vider l’ostro romano
    Riverberar nel vano
    Dell’angusta parete almo fulgore:
    E di quell’ostro avvolti
    Vider natìa bontà, clemente affetto,
    Ingenui sensi nel vivace aspetto
    Alteramente scolti,
    E quanti alma gentil modi ha più rari,
    Onde fortuna ad esser grande impari.

    Qual nel mio petto ancor siede costante
    Di quel dì rimembranza,
    Quando in povera stanza
    L’alta forma di lui m’apparve innante!
    Sirio feroce ardea:
    Ed io, fra l’acque in rustic’ urna immerso,
    E a le Naiadi belle umil converso,
    Oro non già chiedea
    Che a me portasser dall’alpestre vena,
    Ma te cara salute al fin serena.

    Ed ecco, i passi a quello dio conforme
    Cui finse antico grido
    Verso il materno lido
    Dal Xanto ritornar con splendid’orme,
    Ei venne; e al capo mio
    Vicin si assise; e da gli ardenti lumi
    E da i novi spargendo atti e costumi
    Sovra i miei mali oblìo,
    A me di me tali degnò dir cose;
    Che tenerle fia meglio al vulgo ascose.

    Io del rapido tempo in vece a scorno
    Custodirò il momento,
    Ch’ei con nobil portento
    Ruppe lo stuol, che a lui venìa dintorno;
    E solo accorse; e ratto,
    Me, nel sublime impazïente cocchio
    Per la negata ohimè forza al ginocchio
    Male ad ascender atto,
    Con la man sopportò lucidi dardi
    Di sacre gemme sparpagliante a i guardi.

    Come la Grecia un dì gl’incliti figli
    Di Tindaro credette
    Agili su le vette
    De le navi apparir pronti a i perigli;
    E di felice raggio
    Sfavillando il bel crin biondo e le vesti,
    Curvare i rosei dorsi; e le celesti
    Porger braccia, coraggio
    Dando fra l’alte minaccianti spume
    Al trepido nocchier caro al lor nume:

    Tale in sembianti ei parve oltra il mortale
    Uso benigni allora;
    Onde quell’atto ancora
    Di giocondo tumulto il cor m’assale:
    Chè la man, ch’io mirai
    Dianzi guidar l’amata genitrice,
    Ahi prima del morir tolta infelice
    Del sole a i vaghi rai,
    E tolta dal veder per lei dal ciglio
    Sparger lagrime illustri il caro figlio:

    Quella man, che gran tempo a lato a i troni
    Onde frenato è il mondo,
    Di consiglio profondo
    Carte seppe notar propizie a i buoni:
    Quella che, mentre ei presse
    De le chiare provincie i sommi seggi,
    Grate al popol donò salubri leggi;
    Quella il mio fianco resse
    Insigne aprendo a la fastosa etade
    Spettacol di modestia e di pietade.

    Uomo, a cui la natura e il ciel diffuse
    Voglie nel cor benigne,
    Qualor desìo lo spigne
    L’arti a seguir de le innocenti Muse,
    Il germe in lui nativo
    Con lo aggiunto vigor molce ed affina,
    Pari a nobile fior, cui cittadina
    Mano in tiepido clivo
    Educa e nutre, e da più ricche foglie
    Cara copia d’odori all’aria scioglie.

    Costui, se poi dintorno a sè conteste
    D’onori e di fortuna
    Fulgide pompe aduna,
    Pregiate allor che a la virtù son veste,
    Costui de’ proprj tetti
    Suo ritroso favor già non circonda;
    Ma con pubblica luce esce e ridonda
    Sopra gl’ingegni eletti,
    Destando ardor per le lodevol’ opre,
    Che le genti e l’età di gloria copre.

    Non va la mente mia lungi smarrita
    Co’ versi lusinghieri;
    Ma per varj sentieri
    Dell’inclito DURIN l’indole addita:
    E, come falco ordisce
    Larghi giri nel ciel volto a la preda;
    Tal, benchè vagabondo altri lo creda,
    Me il mio canto rapisce
    A dir com’egli a me davanti egregio
    Uditor tacque; ed al Licèo diè pregio.

    Quando dall’alto disprezzando i rudi
    Tempi a cui tutto è vile
    Fuor che lucro servile;
    Solo de’ grandi entrar fu visto; e i nudi
    Scanni repente cinse
    De’ lucidi spiegati ostri sedendo;
    E al giovane drappel, che a lui sorgendo
    Di bel pudor si tinse,
    Lene compagno ad ammirar sè diede;
    E grande a i detti miei acquistò fede.

    Onde osai seguitar del miserando
    Di Làbdaco nipote
    Le terribili note
    E il duro fato e i casi atroci e il bando;
    Quale all’Attiche genti
    Già il finse di colui l’altero carme,
    Che la patria onorò trattando l’arme
    E le tibie piagnenti;
    E de le regie dal destin converse
    Sorti, e dell’arte inclito esempio offerse.

    Simuli quei, che più sè stesso ammira,
    fuggir l’aura odorosa
    Che da i labbri di rosa
    La bellissima lode a i petti inspira;
    Lode figlia del cielo,
    Che mentre a la virtù terge i sudori,
    E soave origlier spande d’allori
    A la fatica e al zelo,
    Nuove in alma gentil forze compone;
    E gran premio dell’opre al meglio è sprone.

    Io non per certo i sensi miei scortese
    Di stoïco superbo
    Manto celati serbo,
    Se propizia giammai voce a me scese.
    Nè asconderò che grata
    Ei da le labbra melodìa mi porse,
    Quando facil per me grazia gli scorse
    Da me non lusingata;
    Poi che tropp’alto al cor voto s’imprime
    D’uom che ingegno e virtudi alzan sublime.

    Pur, se lice che intero il ver si scopra,
    Dirò che più mi piacque
    Allor che di me tacque,
    E del prisco cantor fe’ plauso all’opra.
    Sorser le giovanili
    Menti da tanta autorità commosse:
    Subita fiamma inusitata scosse
    Gli spiriti gentili,
    Che con novo stupor dietro a gl’inviti
    De la greca beltà corser rapiti.

    Onde come il cultor, che sopra il grembo
    De’ lavorati campi
    Mira con fausti lampi
    Stendersi repentino estivo nembo;
    E tremolar per molta
    Pioggia con fresco mormorìo le frondi;
    E di novi al suo piè verdi giocondi
    Rider la biada folta,
    Tal io fui lieto, e nel pensier descrissi
    Belle speranze a la mia Insubria, e dissi:

    Vedrò vedrò da le mal nate fonti,
    Che di zolfo e d’impura
    Fiamma e di nebbia oscura
    Scendon l’Italia ad infettar da i monti;
    Vedrò la gioventude
    I labbri torcer disdegnosi e schivi;
    E a i limpidi tornar di Grecia rivi,
    Onde natura schiude
    Almo sapor, che a sè contrario il folle
    Secol non gusta, e pur con laudi estolle.

    Questi è il Genio dell’arti. Il chiaro foco
    Onde tutt’arde e splende
    Irrequieto ei stende
    Simile all’alto sol di loco in loco.
    Il Campidoglio e Roma
    Lui ancor biondo il crine ammirar vide
    I supremi del bello esempi e guide,
    Che lunga età non doma;
    E il concetto fervore e i novi auspicj
    Largo versar di Pallade a gli amici.

    Nè già, benchè per rapida le penne
    Strada d’onor levasse,
    Da sè rimote o basse
    Le prime cure onde fu vago ei tenne:
    O se con detti armati
    D’integra fede e cor di zelo accenso
    Osò l’ardua tentar fra nuvol denso
    Mente de i re scettrati;
    O se nel popol poi con miti e pure
    Man le date spiegò verghe e la scure.

    Però che dove o fra le reggie eccelse
    Loco all’arti divine
    O in umili officine
    O in case ignote la fortuna scelse,
    Ivi amabil decoro
    E saggia meraviglia al merto desta
    Venne guidando, e largità modesta,
    E de le grazie il coro
    Co’ festevoli applausi ora discinti
    Or de’ bei nodi de le Muse avvinti.

    Anzi, come d’Alcide e di Tesèo
    Suona che da le vive
    Genti a le inferne rive
    L’ardente cortesìa scender potèo;
    Ed ei così la notte
    Ruppe dove l’oblìo profondo giace;
    E al lieto de la fama aere vivace
    Tornò le menti dotte;
    E l’opre lor, dopo molt’anni e lustri,
    Di sue vigilie allo splendor fe’ illustri.

    Tal che onorato ancor sul mobil etra
    Va del suo nome il suono
    Dove il chiaro Polono
    Dell’arbitro vicino al fren s’arretra;
    Dove il regal Parigi
    Novi a sè fati oggi prepara, e dove
    L’ombra pur anco del gran Tosco move
    Che gli antiqui vestigi
    Del saper discoperse, e fèo la chiusa
    Valle sonar di così nobil Musa.

    È ver che, quali entro al lor fondo avito
    I Fabrizi e i Cammilli
    Tornar godean tranquilli
    Pronti sempre del Tebro al sacro invito:
    Tal di sè solo ei pago
    Lungi dall’aura popolar s’invola;
    E mentre il ciel più glorïosa stola
    Forse d’ordirgli è vago,
    Tra le ville natali e l’aere puro
    Da i flutti or sta d’ambizïon securo.

    Ma i cari studj a lui compagni annosi,
    E a i popoli ed all’arti
    I beneficj sparti
    Son del suo corso splendidi riposi.
    Vedi amplïarsi alterno
    Di moli aspetto ed orti ed agri ameni,
    Onde quei che al suo merto accesser beni
    E il tesoro paterno
    Versa; e dovunque divertir gli piaccia,
    L’ozio da i campi e l’atra inopia caccia.

    Vedi i portici e gli atrj ov’ei conduce
    Il fervido pensiere,
    E le di libri altere
    Pareti, che del vero apron la luce:
    O ch’ei di sè maestro
    Nell’alto de le cose ami recesso
    Gir meditando, o il plettro a lui concesso
    Tentar con facil estro;
    E in carmi, onde la bella alma si spande,
    Soavi all’amistà tesser ghirlande.

    Ed ecco il tempio ove, negati altronde,
    Qual da novo Elicona
    Premj all’ingegno ei dona;
    E fiamme acri d’onore altrui diffonde.
    Ecco ne’ segni sculti
    Quei che del nome lor la patria ornaro,
    Onde sol generoso erge all’avaro
    Oblìo nobili insulti;
    E quelle glorie a la città rivela,
    Ch’ella a sè stessa ingiuriosa cela.

    Dove o Cetra? Non più. Rari i discreti
    Sono: e la turba è densa
    Che già derider pensa
    I facili del labbro a uscir segreti.
    Di lui questa all’orecchio
    Parte de’ sensi miei salgane occulta,
    Sì che del cor, che al beneficio esulta,
    Troppo limpido specchio
    Non sia che fiato invidïoso appanni,
    Che me di vanti e lui d’error condanni.

    Lungi o profani! Io d’importuna lode
    Vile mai non apersi
    Cambio; nè in blandi versi
    Al giudizio volgar so tesser frode.
    Oro nè gemme vani
    Sono al mio canto: e dove splenda il merto
    Là di fiore immortal ponendo serto
    Vo con libere mani:
    Nè me stesso nè altrui allor lusingo
    Che poetica luce al vero io cingo.




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