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    Jacopo Sannazaro

    Visione

    La notte che dal ciel carca d’obblio
    Suol portar tregua a’ miseri mortali,
    Venuta era pietosa al pianger mio:

    E già con l’ombra delle sue grand’ali
    Il volto della terra avea coverto,
    E tacean le contrade e gli animali:

    Quando me lasso e di mia vita incerto,
    Non so come, in un punto il sonno prese
    Sotto l’asse del ciel freddo e scoverto.

    Ed ecco il verde Dio del bel paese,
    Arno, tutto elevato sopra l’onde
    S’offerse a gli occhi miei pronto e palese.

    Di limo un manto avea sparso di fronde,
    E di falci una selva in su la testa,
    Con la qual gli occhi e ’l viso si nasconde.

    Oimè, Fiorenza, oimè qual rabbia è questa?
    Venia gridando: oimè, non ti rincrebbe?
    Con voce paventosa irata e mesta.

    Pietosa oggi ver te Tracia sarebbe:
    Pietosi i fieri altar di quella Terra
    La qual sol un Busiri al tuo temp’ebbe.

    Ben fosti figlia tu d’ingiusta guerra:
    Ben sei madre di sangue: e più sarai,
    Se vendetta dal ciel non si disserra.

    Indi rivolto a me, disse: che fai?
    Fuggi le mal fondate ed empie mura.
    Ond’io tutto smarrito mi destai:

    E tanta ebbe in me forza la paura,
    Che sconsigliato e sol presi ’l cammino
    Senz’altra scorta, che di notte oscura.

    Errando sempre andai fin al mattino,
    Tanto ch’allor da lunge un’ombra scorsi,
    Che in abito venia di peregrino.

    Al volto ai gesti ed a l’andar m’accorsi
    Che spirto era di pace, al ciel amico;
    Onde più ratto per vederlo io corsi.

    E mentre in arrivarlo io m’affatico,
    Ei riprese la via per entro un bosco,
    Sempre guardando me con volto oblico.

    Non mi tolse il veder quell’aer fosco;
    Che ’l lume del suo aspetto era pur tanto
    Che bastò ben per dirli: io ti conosco.

    O gloria di Spoleto: aspetta alquanto:
    E volendo seguire il mio sermone,
    La lingua si restò vinta dal pianto.

    Allor voltossi: ed io: o Pier Leone,
    Ricominciai a lui con miglior lena,
    Che del mondo sapesti ogni cagione:

    Deh dimmi, questa vita alma e serena
    Per qual demerto suo tanto ti spiacque,
    Che volesti morir con sì gran pena?

    Qual sì fiero desir nel cor ti nacque?
    Qual cieco sdegno a non curar ti strinse
    Del corpo tuo che ’n tanto obbrobrio giacque?

    Che ti val, se ’l tuo senno ogni altro vinse?
    Che l’ingegno e ’l valor, se l’ultim’ora
    Con la vita la gloria insieme estinse?

    O padre, o signor mio, l’uscir di fora,
    Come tu sai, non è permesso a l’alma:
    Nè far si dee, se ’l ciel non vuole ancora:

    Che ’l dispregiar de la terrena salma
    A quei con più vergogna si disdice,
    Che più braman d’onor aver la palma.

    Ogni riva del mondo, ogni pendice
    Cercai, rispose, e femmi un altro Ulisse
    Filosofia, che suol far l’uom felice.

    Per lei le sette erranti e l’altre fisse
    Stelle poi vidi, e le fortune e i fati,
    Con quanto Egitto e Babilonia scrisse.

    E più luoghi altri assai mi fu mostrati,
    Ch’Apollo ed Esculapio in la bell’arte
    Lasciar quasi inaccessi ed intentati.

    Volava il nome mio per ogni parte
    Italia il sa, che mesta oggi sospira
    Bramando il suon de le parole sparte.

    Però chi con ragion ben dritto mira,
    Potrà veder ch’in un sì colto petto
    Non trovò loco mai di sdegno od ira.

    Dunque da te rimuovi ogni sospetto;
    E se del morir mio l’infamia io porto,
    Sappi che pur da me non fu ’l difetto:

    Che mal mio grado io fui sospinto e morto
    Nel fondo del gran pozzo orrendo e cupo:
    Nè mi valse al pregar esser accorto:

    Che quel rapace e famulento lupo
    Non ascoltava suon di voci umane,
    Quando giù mi mandò nel gran dirupo.

    O dubbj fati, o sorti involte e strane,
    O mente ignara e cieca al proprio danno,
    Come fur tue difese insulse e vane!

    Previsto avea ben io l’occulto inganno
    Che al mio morir tessea l’avara invidia;
    E sapea ch’era giunto a l’ultim’anno;

    Ma credendo fuggir Ponto o Numidia,
    Di Padoa mi partii venendo in loco,
    Ove, lasso, trovai frode e perfidia:

    E qual farfalla al desiato foco
    Tirata dal voler si riconduce
    Tanto, ch’alfin le pare amaro il gioco;

    Tal mi moss’io correndo alla mia luce:
    Lorenzo, dico, il cui valore e ’l senno
    A tutta Italia fu maestro e duce,

    Così le stelle in me lor forza fenno.
    Or va, mente ingannata: in te ti fida,
    Che muover credi il ciel con picciol cenno.

    Quell’alma Provvidenza che ’l ciel guida,
    Non vuol ch’umano ingegno intender possa
    L’ammirando segreto ove s’annida.

    E non pur voi, che siete in questa fossa,
    Ma gli angeli non hanno ancor tal grazia,
    Quantunque scarchi sian di carne e d’ossa.

    Di contemplar ciascun s’allegra e sazia
    Nel sommo sol: pur quelle leggi eterne
    Lasciando a parte, il ciel loda e ringrazia.

    Tanto si sa là su, quanto decerne
    L’alto Motor. Colui che più ne volse,
    Or geme e mugghia ne le notti inferne.

    Quando dal corpo mio l’alma si sciolse,
    Non le gravò ’l partir; ma l’empia fama,
    Che lasciava di se qua giù, le dolse.

    Nè d’altro innanzi a Dio or si richiama:
    Se ’l feci, se ’l pensai, se fui nocente,
    Tu ciel, tu verità, tu terra, esclama.

    O mal nata avarizia, o sete ardente
    De’ mondani tesor, che sempre cresci,
    Miser chi dietro a te suo mal non sente!

    Or va infelice; a te stessa rincresci;
    Poi che fan senza te più lieta vita
    Le fere vaghe, e gli augelletti, e i pesci.

    Ma quella man che ’n me fu tanto ardita:
    Perch’è cagion che il mondo oggi m’incolpe:
    Contra mia voglia a profetar m’invita.

    Io dico che di questa e d’altre colpe
    Vedrassi di là su venir vendetta,
    Prima che ’l corpo mio si snerve o scolpe.

    Macchiare, ahi stolta e sanguinaria Setta!
    Macchiar cercasti un nitido cristallo,
    Un’alma in ben oprar sincera e netta:

    Sappi, crudel, se non purghi ’l tuo fallo,
    Se non ti volgi a Dio, sappi, ch’i’ veggio
    A la ruina tua breve intervallo:

    Che caderà quel caro antico seggio,
    (Questo mi pesa) e finirà con doglia
    La vita che del mal s’elesse il peggio.

    Poi volse i passi, e disse: quella spoglia
    Che fu gittata, ed or di tomba è priva,
    Ben verrà con pietà chi la raccoglia.

    Ma che più questo a me? pur l’alma è viva,
    Ed onorata nei superni chiostri,
    Ove umana virtù per fede arriva:

    Ivi convien che ’l suo ben far si mostri.




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