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    Silvio Pellico

    Ugo Foscolo

    Charitas . . . . omnia sperat.
    (1. Cor. 13. 7).


    Ugo conobbi, e qual fratel l’amai,
    Chè l’alma avea per me piena d’amore:
    Dolcissimi al suo fianco anni passai,
    E ad alti sensi ei m’elevava il core.
    Scender nol vidi ad artifizi mai,
    E viltà gli mettea cruccio ed orrore:
    Vate era sommo, ed avea cinto l’armi,
    E alteri come il brando eran suoi carmi.

    Tu fosti, o mio Luigi1, il caro petto
    Che, allorch’io dalle Franche aure tornava,
    Me a quell’insigne amico tuo diletto
    Legasti d’amistà che non crollava:
    Oh quanto è salutare a giovinetto,
    Perchè avvolgersi sdegni in turba ignava,
    Lo stringer mente a mente e palma a palma
    Con celebre, gentil, fortissim’alma!

    Ma, sventura, sventura! Uom così degno
    D’amar colla sua grande anima Iddio,
    In fresca età l’ardimentoso ingegno
    Ad infelici dubitanze aprìo:
    Chè di natura l’ammirabil regno
    Opra di cieche sorti or gli apparìo,
    Or de’ mondi il Signor gli tralucea,
    Ma incurante d’umani atti il credea.

    Nondimen fra’ suoi dubbii sfortunati,
    Ugo abborrìa l’inverecondo zelo
    Di que’ superbi, che, di fè scevrati,
    Fremono ch’altri innalzin voti al cielo;
    E talor mesto invidïava i fati
    Del pio, cui divin raggio è l’Evangelo;
    E spesso entrava in solitario tempio,
    Come non v’entra il baldanzoso e l’empio.

    E mi dicea che que’ silenzi santi
    Della casa di Dio nella tard’ora,
    Quando qua e là da pochi meditanti
    Sovra i proprii dolor si geme ed òra,
    Ovvero i dolci vespertini canti
    Sacri alla Vergin ch’è del ciel Signora,
    Nell’alma gl’infondean pace profonda,
    O d’alta poesia la fean gioconda.

    Sempre onoranza tra i più cari amici
    Rose al canuto Giovio venerando,
    E sue parole di virtù motrici
    Con benevol desìo stava ascoltando,
    E a lui diceva: — « Anch’io giorni felici
    Ho sulla terra assaporati, quando
    Innamorata ancor la mia pupilla
    Vedea quel Nume che a’ tuoi rai sfavilla ».

    E Giovio protendendo a lui la mano,
    Paternamente gli diceva: — « Io spero,
    Io per te spero assai, perocchè umano
    E magnanimo ferve il tuo pensiero!
    Invan t’ostini fra dubbiezze, invano
    Della grazia ricàlcitri all’impero:
    Iddio t’ama, ti vuol, nè ti dà pace,
    Sinchè d’amor non ardi alla sua face ».

    Tai detti al cor scendean del generoso
    Che il bel profondamente ne sentiva;
    E al vecchio amico rispondea: — « Non oso
    Sperar che in mar cotanto io giunga a riva;
    Ma vero è ben che più non ho riposo,
    Dacch’egli è forza che dubbiando io viva,
    E un dì tua sicuranza acquistar bramo,
    E il mister della Croce onoro ed amo ».

    E siccome al buon Giovio sorridea
    Con ossequio amantissimo di figlio,
    Così sul mio Manzoni Ugo volgea
    Quasi paterno, glorïante ciglio:
    In esso egli ammirava e predicea
    Di fantasìa grandezza e di consiglio,
    Forte garrendo, se taluno ardìa
    Di Manzoni schernir l’anima pia.

    Tal eri, o mio sincero Ugo; e più volte
    Io pure udii tuoi gemiti secreti,
    Qualor non prevedute eransi accolte
    Su te cause di giorni irrequïeti.
    Ln guancia t’aspergean lagrime folte
    Ricordando i fuggiti anni tuoi lieti:
    — « Percuotemi, sclamavi, un Dio tremendo,
    Che offender non vorrei, ma certo offendo! »

    Allora a dimostrar che titubante
    Mal tuo grado bolliva il tuo intelletto,
    Ed odio non portavi all’are sante,
    E di sete del ver t’ardeva il petto,
    Meco avvertivi nella Bibbia quante
    Splendesser tracce del divino affetto,
    E confessavi, in tue mestissim’ore
    Sol raddolcirti quel gran libro il core.

    Un dì col genitor del mio Borsieri
    Io passeggiava al bosco suburbano,
    E tu ch’ivi leggendo sedut’eri,
    Ci vedesti, e gridasti da lontano:
    « Ecco il volume degli eterni veri! »
    Corsi, e il volume presi io da tua mano:
    Lessi: EVANGELIO! E — « Bacialo! dicesti;
    Gl’insegnamenti d’un Iddio son questi! »

    Ah, sebbene quell’Ugo ottenebrato
    Mal sapesse scevrar natura e Dio,
    E talor supponesse annichilato
    Nella tomba il mortal che i dì compìo;
    D’altro dopo l’esequie eccelso fato
    Nodrìa talor vivissimo desìo,
    E dir l’intesi: — « No, quest’alma forte
    Mai non potrà vil pasto esser di morte! »

    E ben più udii dal labbro tuo eloquente,
    Quando insiem leggevam famose carte,
    Ove un illustre ingegno miscredente
    Rampogne avea contro alla Chiesa sparte:
    Dal seggio allor balzasti impazïente,
    E ti vidi magnanimo scagliarte
    A sostener con voci alte e robuste,
    Che le accuse ivi mosse erano ingiuste.

    E quantunque a’ Pontefici severo
    Si volgesse il tuo spirto e a’ Sacerdoti,
    Ammiravi la cattedra di Piero
    Ne’ giorni di sua possa più remoti;
    E di gentil nell’arti magistero
    Datrice l’appellavi a’ pronepoti;
    E sovra ognun che fu decoro all’are
    Liberal laude ti piacea innalzare.

    Se in alcuna tua carta eco facesti
    D’animi non cristiani alla favella;
    Se di soverchio duol semi funesti
    Sparsi hai ne’ cuor che passïon flagella;
    Se del secolo errante in cui nascesti,
    Bench’alta, l’alma tua rimase ancella,
    Opra fu di fralezza e di prestigio,
    Non mai di petto a mire inique ligio.

    E il tuo libro d’amore isconsolato,
    Benchè riscosso immensi plausi avesse,
    Benchè da te qual prima gloria amato,
    Bench’opra non indegna a te paresse,
    Talor gemer ti fea, ch’avvelenato
    Un sorso gioventù quivi beesse
    D’ira selvaggia contra i fati umani,
    Ed idolo Ortis fosse a ingegni insani.

    Biasmo gagliardo quindi al giovin davi
    Che ti dicea suoi forsennati amori;
    E l’atterrarsi, codardìa nomavi,
    Sotto qual siasi incarco di dolori;
    E sua vita serbar gli comandavi
    Per la pietà dovuta a’ genitori,
    Pel dovuto anelar d’ogni vivente,
    Sì che sacri a virtù sien braccio e mente.

    Di molti io memor son tuoi forti detti
    Da core usciti di giustizia acceso,
    E a tue nascose carità assistetti,
    E al tuo perdon ver chi t’aveva offeso;
    E pochi vidi sì söavi petti
    Portar costanti il proprio e l’altrui peso,
    E quel pianto trovar, quella parola,
    Che gli afflitti commove, alza e consola.

    Memor di tanto, io spero, e spero assai,
    Che, sebben conscio non ne andasse il mondo,
    Sul letto almen della tua morte avrai
    Sentito del Signor desìo profondo:
    Spero che l’Angiol degli eterni guai,
    Già di predar tua grande alma giocondo,
    L’avrà fremendo vista all’ultim’ora,
    Spiccato un volo al ciel, fuggirgli ancora.

    E mia speranza addoppiasi pensando
    Che alla tua madre fosti figlio amante:
    Quella vedova pia vivea pregando
    Che tu riedessi alle dottrine sante:
    Di buoni genitor sacro è il dimando,
    E sul cuor dell’Eterno è trionfante,
    Nè da parenti assunti in Paradiso
    Figlio che amolli, no, non fia diviso.

    L’inferma, antica genitrice ognora
    Benediceva a te con grande affetto,
    Perchè al minor fratello ed alla suora
    D’alta amicizia andar godevi stretto:
    Furono a Giulio giovincello ancora
    Quai di padre tue cure e il tuo precetto,
    Ed amai Giulio perocch’ei t’amava,
    E l’alma tua del nostro amor brillava.

    Ah! tanto spero io più la tua salvezza,
    Che sventurato fosti in sulla terra!
    Or tuoi difetti, or tua leale asprezza
    Ti suscitàr di mille irati guerra:
    E di profughi dì lunga amarezza,
    E povertà t’accompagnàr sotterra:
    Nè lieve a te fu duol che dolci amici
    Fossero al pari, o più di te infelici.

    Le lagrime vegg’io che certo hai spanto
    Quando l’annuncio orribil ti giungea
    Che, tronco della vita a me ogn’incanto,
    Per anni ed anni in ceppi esser dovea:
    Il Cielo sa se in mia prigion t’ho pianto,
    E quai voti il cor mio per te porgea!
    Sempre io chiesi per te l’inclita luce
    Che di tutto consola, e a Dio conduce.

    Dolce mi fu dopo decenne pena
    Riedere alla paterna amata riva;
    Ma allo spezzarsi della mia catena
    D’immenso gaudio l’alma mia fu priva;
    Chè di tue rimembranze era ripiena,
    E già in Britannia il cener tuo dormiva!
    E seppi tue sciagure, e niun mi disse
    Se, morendo, il tuo core a Dio s’aprisse!

    Di tua vita furenti indagatori,
    Per laudare o schernir la tua memoria,
    Di te narraro i deplorandi errori
    Quasi parte maggior della tua gloria:
    Falsato indegnamente hanno i colori!
    Del tuo core ignorato hanno l’istoria!
    Ugo conobbi, o ingiurïanti infidi,
    E tra’ suoi falli alta virtude io vidi!

    E tu, schietta e magnanima Quirina,
    Che appien di lui pur conoscesti il core,
    Meco ogni dì il rammenti alla divina,
    Infinita pietà del Salvatore:
    Come la mia, tua dolce alma s’inchina
    Con invitta fiducia e con fervore
    A pro del nostro amato, onde con esso
    Veder per sempre Iddio ne sia concesso.

    Appagar te non ponno, e me neppure,
    Nessun ponno appagar su caro estinto
    Funebri canti o funebri scolture,
    Da cui pari ad eroe venga dipinto:
    Uopo han di Dio le amanti creature!
    A fede e speme han l’intelletto avvinto!
    Noi non chiamiamo eroe l’amico andato:
    Amiam, preghiam ch’ei sia con noi salvato!

    Noi d’Ugo abbiamo un giudice pietoso,
    E tu sei quello, onniveggente Iddio:
    Non un de’ suoi sospir ti fu nascoso;
    Anzi a te ogni sua giusta opra salìo.
    Che festi d’un mortal sì generoso?
    Dimmi se il perdonavi e a te s’unìo!
    Ah, se ancor di sue piaghe afflitto langue,
    Appien le asterga, o buon Gesù, il tuo sangue!

    Note

    1. Mio fratello primogenito.




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